Ai nostri illusi amici del Sì

Una critica ai difetti della nuova costituzione e alle motivazioni dei suoi sostenitori

Le ragioni che porteranno gli Italiani a scegliere fra il Sì e il No sono molteplici e disparate. Le opinioni favorevoli sull’attuale presidente del Consiglio e sull’operato del suo governo, il desiderio di cambiamento, la convinzione che questa riforma avrà un impatto positivo, il timore di favorire le fazioni politiche rivali, l’aspirazione alla stabilità politica e finanziaria sono le legittime motivazioni di chi voterà a favore della nuova costituzione. Ad animare il fronte opposto sono invece la consapevolezza delle intemperanze di questo esecutivo e dei suoi membri, la diffidenza verso le discutibili buone intenzioni di questi ultimi, la volontà di appoggiare il partito d’opposizione in cui si crede – senza palesare, come qualcuno ha sostenuto, l’intenzione di lasciare tutto così com’è, ma anzi promuovendo un rinnovamento a un livello politico piuttosto che costituzionale – e, ultima per ordine ma non per importanza, la coscienza dei difetti del testo di legge su cui voteremo.

Volendo essere cittadini irreprensibili, la sola questione di cui si dovrebbe discutere è il merito: perché è l’unico terreno in cui si può maturare un’opinione tramite l’imparzialità e la competenza, i veri criteri discriminanti fra una riforma valida e una dannosa. Entrambi le compagini pronunciatesi sul referendum hanno invece confermato il corrente stato di putrefazione della politica italiana facendo l’impossibile pur di non parlare del merito, salvo illustri eccezioni. Hanno giocato sporco, delegittimando gli avversari e pronunciando dichiarazioni a effetto, hanno volutamente frainteso per i propri fini passaggi e probabili effetti della nuova costituzione (perché di nuova costituzione si tratta, checché se ne dica, visto che vengono modificati più di quaranta articoli). Particolarmente sleale è stata, va detto, la campagna per il Sì, per la quale il governo ha sfruttato senza ritegno il proprio vantaggio economico e mediatico finanziando annunci e pubblicità audiovisive su Internet – in cui si ripetono con enfasi e trasporto tutti gli slogan ma non si fa menzione dei punti della riforma – e distorcendo il quesito referendario in proprio favore. Non vi è infatti alcun dubbio che scrivere qualcosa come “differenziamento dei ruoli delle due Camere” sarebbe stato più neutrale di “superamento del bicameralismo paritario”; d’altronde è altrettanto lampante che il “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, effetto incidentale della “riduzione del numero dei parlamentari” e di varie ulteriori disposizioni del testo di legge, non avrebbe dovuto essere menzionato,  anche perché fa passare il messaggio che si possono effettuare riforme costituzionali allo scopo di risparmiare denaro (nel qual caso l’eventualità in cui si spenderebbe di meno sarebbe l’abolizione dell’intero Parlamento e di tutti gli organi di garanzia, concentrando il potere nelle mani di uno solo). È stato invece del tutto omesso ogni accenno alle variazioni apportate all’elezione degli organi di garanzia, offrendo così un’immagine incompleta oltre che falsata di ciò che dovremo approvare o respingere.

L’atteggiamento più deplorevole in questa ridda di strumentalizzazioni, è stato, tuttavia, quello apparentemente “illuminato” di alcune figure, anche autorevoli, quali Chiamparino, Cuperlo, e in parte anche Scalfari, che hanno asserito di voler perorare la causa della riforma nonostante “non sia perfetta” e nonostante vi siano dei rischi legati alla legge elettorale ad essa correlata. Questa è un’eresia. Come si possono introdurre delle modifiche nel tessuto legislativo fondamentale di un Paese complesso e fragile come il nostro senza la convinzione – fondata o meno – che possano durare, granitiche e ineccepibili, per intere generazioni? I gentili lettori pensino al computer o al dispositivo mobile su cui stanno leggendo questo articolo: di certo non l’avrebbero acquistato, se avessero saputo che l’hardware e il software non erano stati realizzati alla perfezione, e avrebbero cercato altri modelli, o avrebbero atteso che ne venisse prodotto uno migliore. Se non si esita a cercare un’alternativa migliore di fronte al rischio di sprecare i propri soldi, a maggior ragione non si dovrebbe rinunciare dinanzi allo scenario ben più preoccupante di dilapidare i prossimi decenni per gli esiti nefasti di un “algoritmo legislativo” sbagliato.

Le obiezioni più ragionevoli che si possono opporre alle precedenti conclusioni sono tre, e corrispondono alle tre principali ragioni dello schieramento pro riforma:

  • la nuova costituzione non è “sbagliata”, ma tuttalpiù imperfetta, e i suoi benefici sono nettamente prevalenti;
  • il governo al momento in carica è stato l’unico negli ultimi anni a compiere degli interventi positivi, e perciò si deve votare anche una riforma non impeccabile pur di conservarlo al potere;
  • è assolutamente necessario che vi sia un cambiamento, e se si vota contro non cambierà nulla – in altre parole, il computer che abbiamo non funziona, ce ne serve uno nuovo, quale che sia, altrimenti rimarremo con questo – .

A questo punto, l’unica domanda che vale la pena porsi è: queste motivazioni reggono alla prova del merito? Per rispondere, occorre scavare a fondo, con tutte le incertezze che ne conseguono. Difatti, persino l’indagine più approfondita potrebbe rivelarsi non più efficace del fanatismo dei faziosi nell’arrivare alla verità: chi è così saggio da prevedere con certezza il corso futuro degli eventi?

In ogni caso il merito, oltre ad essere la via più corretta da un punto di vista etico, racchiude in sé svariati indizi che (purtroppo) minano le certezze dei promotori del Sì.

Le falle della riforma

Secondo la maggioranza degli esperti di diritto, la nuova costituzione non è né imperfetta né tantomeno migliore della precedente: presenta infatti lacune gravi e innumerevoli appigli, semantici, concettuali e interpretativi, a derive poco rassicuranti, in particolare a causa della combinazione shock con la nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum, quantunque in diretta televisiva il presidente del Consiglio abbia avuto la faccia tosta di dichiarare di fronte al costituzionalista Zagrebelsky che non vi è alcun legame fra le due.

Su questo sito abbiamo già pubblicato sette articoli riguardo a queste problematiche. In questa sede, vedremo di descrivere in breve i principali difetti giuridici riscontrati.

Proviamo a replicare alla prima delle argomentazioni del Sì dando uno sguardo dettagliato alla riforma. I primi campanelli d’allarme iniziano a squillare esaminando il nuovo Senato: un Senato composto da sindaci e da membri dei consigli regionali, in modo da assicurare una più congrua partecipazione degli enti locali alle decisioni dello Stato, e che annovera fra le sue mansioni la supervisione dell’operato della Camera dei deputati in alcune situazioni prestabilite (con la facoltà di proporre degli emendamenti alle leggi da essa approvate), il contributo all’elezione del Presidente della Repubblica e la gestione dei rapporti con l’Unione Europea. Quest’ultima funzione è stata sottolineata con particolare vigore dal presidente del Consiglio, il quale ha affermato che “negli ultimi anni sono state sperperate decine di miliardi di fondi provenienti dalla UE, che avrebbero potuto essere utilizzati per far ripartire l’Italia e valorizzarne le eccellenze”, e pertanto si impone un controllo a livello centrale del corretto impiego di questi finanziamenti, a cui sarà il nuovo Senato a provvedere in virtù del suo ruolo di raccordo.

Ora, da chi sarà composto quest’organo? Proprio dai componenti delegati delle stesse amministrazioni regionali e comunali che tanto hanno scialacquato, per saziare la propria avidità e quella delle vaste clientele da cui traggono buona parte dei loro voti. Ad eccezione dell’improbabile caso in cui sia la brama di ricchezze che le schiere di clientes scompaiano dall’Italia entro il quattro dicembre, i vigilati diventerebbero così anche i vigilanti di sé stessi. A questo proposito l’immunità parlamentare non gioverà di certo: benché sia prevista solo in riferimento alla carica parlamentare e non a quella locale, sarà arduo distinguere fra le due in una stessa persona.

È questa una riforma che riduce i poteri e i privilegi della casta? Il dubbio non è tutto tranne che fuori luogo.

Come se non bastasse, non è nemmeno chiaro se i cittadini potranno esprimere le loro preferenze per la carica di senatore al momento delle elezioni locali. Il presidente del Consiglio si è impegnato a promulgare una legge al riguardo in caso di vittoria nel referendum, ma per ora nulla di ciò compare nel testo della riforma, e in tempi come questi la parola di un politico non ha grande valore.

Le perplessità non si esauriscono certo qui. Se si legge per intero la lunga serie dei suoi compiti, risulta chiaro che il Senato delineato dalla riforma si ritroverà reggere un potere immenso – il coordinamento con la UE e gli enti locali non si limita certo alla sorveglianza sui fondi europei – , il che parrebbe alquanto ostico per un’istituzione concepita come part time, per riunirsi non più di una volta a settimana, dato che i senatori dovranno adempiere, nel corso degli altri sei giorni, agli oneri della carica di sindaco o di consigliere regionale per cui sono stati eletti. Per giunta, come si è osservato, i senatori decadranno dalla loro carica parlamentare non appena terminerà il mandato della loro carica locale, e, dato che le scadenze non sono sincronizzate, si avrà un Senato a rinnovo parziale continuo. In parole povere, gli impegni assunti dai vecchi membri saranno costantemente riaffidati a figure prive di esperienza (visto che essere a capo di un Comune o di una Regione e occuparsi dei relativi finanziamenti, europei o meno, non è esattamente identico al presiedere “dal centro” alle relazioni con tutti gli enti locali e con l’Unione Europea). A completare questo luminoso quadro di armonia ed efficienza, il Presidente della Repubblica non avrà più il potere di sciogliere il Senato in caso di scandali o malfunzionamento.

Vi sono diverse altre falle nella riforma. In primo luogo, la positiva introduzione di due nuovi tipi di referendum, quello propositivo e quello d’indirizzo, viene inficiata dal fatto che il quorum per la presentazione di proposte di iniziativa legislativa popolare è stato triplicato da 50.000 a 150.000 firmatari. In secondo luogo, per velocizzare l’iter legislativo, l’attività parlamentare è stata sottoposta a vincoli temporali e procedurali rigidissimi, potenziali fomite, in special modo i secondi, di tatticismi giuridici a non finire per chi abbia interesse a bloccare od ostacolare la promulgazione di una nuova legge.

immagineEppure, è proprio nell’eventualità in cui la maggioranza segua tali prescrizioni con il massimo scrupolo che si aprono gli scenari più oscuri. Nella nuova costituzione la Camera dei Deputati è la sola investita dell’autorità di votare la fiducia al governo, di approvarne i decreti e i disegni di legge. Ciò condanna l’attività parlamentare all’autoreferenzialità tra governo e maggioranza… anche in settori molto delicati in cui sarebbe buona norma evitarla. Spieghiamo meglio: in base all’Italicum, la nuova legge elettorale, il partito che prende più voti (più del 40% alla prima votazione e più del 50% all’eventuale successivo ballottaggio) ha diritto al 54% dei seggi della Camera, e potrà quindi avere in pugno il governo, giacché basterebbero i suoi soli voti per legittimarne ogni decisione. I sostenitori della riforma proclamano che questo meccanismo rappresenta la chiave di volta per la governabilità e la stabilità tanto agognate, consentendo finalmente ad un’unica e inequivocabile formazione politica di guidare il Paese. Senza essere costretti a concludere accordi impopolari con altri partiti, sfuggendo così al rischio di soggiacere ai loro veti e alle loro richieste, e di snaturare il proprio programma, dato il possesso di una maggioranza solida in grado di assicurare la continuità per i cinque anni di legislazione. Fin qui tutto liscio.

Certamente, se le proposte di legge coatte del governo non fossero né in sintonia con le promesse fatte all’elettorato né miranti al bene del Paese, ma anzi difettose, o volte a favorire dei gruppi d’interesse, o peggio ancora anticostituzionali e antidemocratiche, sarebbe un bel problema. Ma tutto ciò è inconcepibile, no? Una precisazione: non si vuole certo sostenere che qualcuno dei partiti politici ora in attività sia intenzionato a sovvertire la democrazia, malgrado siano senz’altro capaci di presentare tutte le altre specie di legge sopraelencate. Tuttavia, chi può prevedere come muterà il quadro storico nei prossimi decenni?

Cosa accadrebbe nel caso venissero avanzate leggi siffatte? Non essendo realistico che un partito di maggioranza ripudi un governo che ne cura gli interessi, per una mera questione di numeri alle opposizioni non resterebbe alcun margine di manovra, eccetto la possibilità di appellarsi agli organi garanti della Costituzione: il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale. Ed è qui che si trova la più macroscopica falla della riforma. Da chi vengono eletti, infatti, gli organi di garanzia? Il Presidente della Repubblica, secondo la nuova costituzione, per essere eletto necessiterebbe dei 2/3 dei voti di entrambe le Camere riunite in seduta comune per i primi tre scrutini, e dei 3/5 dal quarto scrutinio in poi. Dovrebbe essere quindi una figura in grado di convogliare su di sé un ampio consenso. Nondimeno mentre adesso la Camera e il Senato riunite constano di 945 componenti (1003 includendo i delegati regionali), con la riforma il Senato avrebbe circa 215 seggi in meno, per un totale di 730 seggi totali (i delegati regionali non sarebbero più previsti per ovvi motivi). È dunque lapalissiano che la maggioranza del 54% alla Camera detenuta dal primo partito ha un peso ben più elevato in un assemblea di 730 parlamentari rispetto a una di 1003. Rimanendo costanti i 630 seggi della Camera prima e dopo la riforma, ne consegue che una maggioranza del 54% all’interno di essa, ovvero 340 seggi, costituirebbe il 46,6% in un assemblea di 730 seggi, contro il 34% dell’attuale assemblea di 1003. Dopo il terzo scrutinio, per raggiungere i 3/5, cioè il 60%, se si assume di avere una maggioranza del 54% anche al Senato (ipotesi tanto irrealistica ora quanto probabile in futuro) ovvero 54 seggi, sarebbero sufficienti solo 44 voti esterni al partito vincitore – il 6% dell’Assemblea – per eleggere il Presidente della Repubblica, il quale, da figura al disopra delle parti si ritroverebbe legato a doppio filo al partito che ne ha determinato quasi completamente l’elezione. E non è ancora tutto: anche la Corte Costituzionale sarebbe politicizzata, poiché dei suoi 15 membri, 3 saranno eletti dalla Camera in mano al primo partito, 2 dal Senato, anch’esso in una situazione simile, con le stesse maggioranze per l’elezione del Presidente della Repubblica, mentre altri 5 sono nominati da quest’ultimo, a sua volta nominato quasi esclusivamente dal partito di maggioranza. Si avrà perciò una Corte Costituzionale in cui i due terzi dei membri non solo sono politicizzati, e quindi per definizione non imparziali, ma addirittura espressione di una singola forza politica! Gli organi garanti della Costituzione non garantirebbero più null’altro che gli interessi dell’unico partito elettore. Un messia, una volta vinte le elezioni, avrebbe la sicurezza di salvare il Paese, ma un incompetente, un intrallazzato o un eversivo ben difficilmente potrebbero essere fermati per vie legali. E quale dei precedenti personaggi è più probabile trovare fra gli attuali politici?

Rimarrebbe, a rigor di logica, il ricorso allo strumento referendario, ma la volubilità e il crescente assenteismo del popolo e la mutevolezza dei fattori contingenti non lo rendono uno scudo all’altezza della costante vigilanza ora operata dagli organi di garanzia. E quand’anche tutto questo discorso sembrasse assai astratto, si ricordi che se lo Statuto Albertino fosse stato più simile alla nostra Costituzione, l’ascesa di Mussolini non sarebbe stata così irresistibile.

Per approfondire leggi: Una riforma possibile?Senato, che caos! – Le funzioniSenato, che caos! 
– La composizioneCamera pigliatuttoFra garanzia e democrazia diretta, solo propaganda, 
La presunta semplificazione del procedimento legislativo e Rapporto Stato-Regioni: poche novità 

L’inconsistenza di fondo delle motivazioni politiche

Appurata la gravità delle falle della riforma, si arriva così alla motivazione numero due del fronte del Sì: si può votare comunque a favore pur di salvare questo governo? Indipendentemente dall’antipatia verso le alternative politiche e dai giudizi dati sul suo lavoro, non si può ragionare come se potesse esistere per sempre, come se fosse invulnerabile ai suoi propri errori e fingere che una ferita aperta nella democraticità della nostra Costituzione non possa essere sfruttata, in futuro, da individui privi di scrupoli. Per questo una riforma dev’essere non solo impeccabile, ma anche lungimirante, atta a funzionare non soltanto nella situazione presente, ma in tutte o quasi le situazioni possibili e concepibili.

I fautori della nuova costituzione si appelleranno a questo punto all’ultima delle loro ragioni: o si cambia ora, o “non cambierà nulla”, come ripetono con tanta insistenza le pubblicità del Sì. Questa frase è a scanso di equivoci un ottimo esempio di affermazione dalla forte connotazione emotiva, creata apposta per non indurre alla riflessione sulla sua opinabilità.

È vero che non si può cambiare, se non ora e in questo modo? Rispondere mette in luce l’ultima e più bruciante questione, riassumibile in una sola frase: l’odierno dibattito sulla nostra Costituzione non ha senso! O meglio, ne ha, ma a un livello di gran lunga inferiore rispetto a quanto comunemente non si creda.

Proviamo a chiederci quali sono i principali problemi dell’Italia: la disoccupazione, la scarsità di finanziamenti per la ricerca scientifica, nonché per la cultura e l’istruzione, la corruzione, la criminalità capillarmente diffusa a ogni livello, l’inquinamento sono i primi che vengono in mente. Essi dipendono dalla nostra attuale Costituzione? No di certo. Tuttavia, si può controbattere, garantendo maggiore governabilità si può dare a chi è al potere gli strumenti per risolverli. Ne siamo davvero sicuri? Io sono convinto che siano le persone a influenzare i sistemi, più che il contrario. Un Paese può avere le migliori leggi del mondo e i suoi cittadini potrebbero ugualmente agire in senso diametralmente opposto. Se siamo arrivati al punto in cui siamo è per la grettezza, l’ignoranza, l’incompetenza, la disonestà della quasi totalità della classe dirigente, diffusasi poi, per assimilazione culturale, anche al resto della popolazione. Non ci sono state schiere di uomini di spessore le cui grandiose riforme si siano arenate fra Camera e Senato, ma un unico, grande oceano di mediocri e di affabulatori, con poche eccezioni in via d’estinzione. Abbiamo bisogno di persone del genere ai posti di comando, non di torbidi stravolgimenti legislativi. Conferire un potere oligarchico a un establishment così poco illuminato come il nostro potrebbe essere l’inizio della fine. Il presidente del Consiglio ora in carica fa parte delle eccezioni? Avrebbe potuto dimostrarlo facendo una riforma ineccepibile e una legge elettorale equa, senza contare che i risultati ambigui del Jobs Act e della Buona Scuola non suffragano certo la sua straordinarietà.

immagineLa Costituzione forse necessita di essere innovata, ma solo da uno statista di almeno altrettanta grandezza rispetto a quelli che l’hanno creata. Oppure, in mancanza di un uomo (o di una donna) del genere, ci si limiti a modificare, in modo incontrovertibile e in linea con i principi ispiratori, alcuni passaggi specifici abbinandovi una legge elettorale che ne tuteli la costituzionalità. Quale potrebbe essere un esempio?

Una proposta di riforma

Proviamo a giocare. Con intelligenza. Sulla base di quanto scritto sopra, quale potrebbe essere una riforma più vicina all’efficienza e all’inoppugnabilità? Possiamo immaginare, ad esempio, un Senato e una Camera con all’incirca gli stessi ruoli descritti dall’attuale riforma, ma entrambi dimezzati nel numero dei componenti. Mentre alla Camera il partito vincitore deterrebbe la maggioranza del 54%, in Senato vigerebbe un sistema proporzionale, ed esso sarebbe composto da delegati a tempo pieno degli enti locali, eletti direttamente dai cittadini e legati alla durata della legislazione, e non del consiglio che li ha eletti. In questo modo, oltre a mettere il Senato nelle condizioni di funzionare, non si avrebbe un tale sbilanciamento in favore del primo partito al momento di eleggere gli organi garanti della Costituzione, e molte buie derive sarebbero scongiurate. Se poi i temi per cui è richiesto un consenso più ampio, come la politica estera e le leggi di revisione costituzionale, fossero egualmente discussi dal Parlamento in seduta comune, ecco che si avrebbe il giusto equilibrio tra governabilità e tutela della democrazia. In aggiunta, dimezzando il numero di componenti di entrambe le Camere si avrebbe un risparmio quasi quintuplicato rispetto a quello previsto dall’attuale riforma. Perché non hanno pensato a una soluzione del genere? Evidentemente, potrebbe affermare un cinico, quello che cercano gli artefici della nuova costituzione non è il giusto mix, ma un governo senza vincoli né ostacoli. Davvero un ottimo motivo per non assecondarli.

Si ribatterà: “Però attualmente non c’è nessuna forza in campo che offra un’alternativa superiore a quella attuale! Non è così?”. La risposta giusta è: “Non ancora”. Per farla nascere dobbiamo pretendere, esigere, lottare affinché ci sia: se ci accontentiamo del meno peggio, non solo non vi sarà mai, ma dovremo anche porre rimedio ai danni causati dal nostro sognare al ribasso. E questo vale per tutto.

Conclusione

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Molti politici ci inducono a votare con la pancia, mentre i tecnici ci spronano a farlo con la testa. C’è però un terzo organo, in questo tripudio di parti anatomiche, il quale è assai poco menzionato. È istintivo come la pancia, ma assai più fine e affidabile, il che rende ancor più sorprendente quanto sia desueto: si tratta del naso. E il mio naso dice che la nostra Costituzione è stata scritta in un momento di illuminazione storica come pochi ne capitano, con il consenso pressoché totale dei sinceri eroi che hanno lottato e vinto contro le tenebre del totalitarismo. È stata redatta con perizia, essenzialità e saggezza oggi quasi introvabili. La nuova costituzione è invece quella presentata dalla fazione ora al governo grazie a una legge elettorale incostituzionale, in un clima di livore, divisioni e sospetti reciproci, in un Paese e in un’epoca in preda alla dissoluzione e alla confusione, dove tutto è indistinto e contraddittorio, dove la bassezza, l’inettitudine, la povertà di vedute regnano sovrane. L’attuale governo ha lo spessore dei Padri Costituenti? Non scherziamo.

In conclusione, con una campagna informativa dalla scadente parzialità e senza una parvenza di par condicio, con l’illegittimità dell’attuale Parlamento, con gli odi di fazione che serpeggiano nel popolo, con l’inefficienza del Senato e i suoi rischi di corruzione, con un Parlamento sottomesso in tutto e per tutto alla maggioranza né più né meno che gli organi di garanzia, con il controverso intervento di un governo in una riforma costituzionale di cui solo un Assemblea al di sopra delle parti avrebbe dovuto occuparsi, e, infine, con il maldestro, eccessivo, pericoloso sbilanciamento della legge elettorale verso la governabilità, l’ingenua stella del Sì, dei suoi propugnatori pur onestamente convinti della sua bontà, dei suoi ideatori alle prese con qualcosa di più grande di loro, pare persa in una costellazione di indici negativi. E, che vinca o che perda, sembra offuscarsi sempre di più…

di ALESSANDRO VIGEZZI

Studente di 18 anni alla facoltà di Medicina dell'Università di Roma La Sapienza

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