Camera pigliatutto

Il probabile scenario di un rapporto autoreferenziale tra maggioranza e governo

Obiettivo primario del progetto di modifica costituzionale è il «il superamento del bicameralismo paritario», per riprendere la fortunata locuzione del titolo della legge costituzionale. Dunque, tale fine è stato perseguito con due modalità: in primo luogo, sostituendo ad un procedimento legislativo unico, un vario numero di procedure di approvazione delle leggi; in secondo luogo, modificando profondamente il Senato, quanto a sue funzioni e composizione. Il Senato, di fatto, assume un ruolo marginale nel processo decisionale istituzionale, con ciò rafforzando il peso e la posizione della Camera dei deputati rispetto al Governo. Pertanto, anche quest’ultima subisce delle modifiche, seppur ridotte ma di notevole rilevanza.

Il combinato disposto è un mito?

Una delle questioni più dibattute nel corso della campagna referendaria è stata la sussistenza, o meno, di un combinato disposto fra la legge elettorale, l’Italicum (L. 52/2015), e la revisione costituzionale. Si tratta, evidentemente, di due interventi ontologicamente diversi, tuttavia funzionalmente collegati per due ordini di motivi: 1) la nuova legge elettorale disciplina la sola elezione della Camera dei deputati; 2)  l’Italicum è la legge attualmente in vigore (precisamente, dal 1° luglio 2016). Infatti venendo il Senato privato della titolarità del rapporto di fiducia con il Governo, solo la Camera dei deputati rimarrebbe la Camera “politica”, tale quindi da intervenire condizionando la direzione dell’operato, e l’esistenza stessa, del Governo. Inoltre, essendo attualmente in vigore, è assai probabile che, ove la riforma passasse, sarebbe questa legge a dettare la disciplina per il rinnovo della Camera dei deputati. Nonostante qualche anelata volontà (e proposta?) di modifica sia all’orizzonte. A ogni modo, giacché i giuristi ragionano sui fatti (e non sulle promesse!) è inevitabile una lettura delle modifiche, apportate dalla revisione, alle maggioranze previste in Costituzione alla luce della nuova legge elettorale. A maggior ragione, considerando il fatto che le modifiche interessano le elezioni degli organi di garanzia.

 

L’Italicum, fra premio di maggioranza e ballottaggio

 La prima cifra distintiva dell’Italicum (L. 52/2015) è quella di escludere «ogni forma di collegamento tra liste» (art. 1, 1° co., lett. f). In sostanza, si supera l’impianto del Porcellum, facendosi venire meno la possibilità che più liste (cioè singole forze politiche) possano presentarsi alle elezioni come coalizione (in cui le singole forze non si fondono, ma si “collegano”). Una previsione sicuramente tesa a evitare fenomeni di esasperata frammentazione della compagine politica in Parlamento. In secondo luogo, si prevede che «accedono alla ripartizione dei seggi le liste che ottengono, su base nazionale, almeno il 3 per cento dei voti» (art. 1, 1° co., lett. e): si pone pertanto una soglia di sbarramento del 3% dei consensi, su scala nazionale, per “entrare” alla Camera.

Soprattutto si prevede un premio di maggioranza del 54% dei seggi della Camera (340 su 630) alla lista che abbia ottenuto, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi. Tuttavia, se nessuna lista ottiene il 40% dei consensi al primo turno, si svolge un ballottaggio fra le due liste più votate, venendo assegnato il suddetto premio di maggioranza a quella che prevale. Il resto dei seggi viene poi ripartiti in proporzione ai voti presi fra le altre forze politiche, che abbiano superato la soglia del 3%. Resta nondimeno un’assurdità la non previsione di una soglia di sbarramento per l’accesso al ballottaggio: difatti, essendo sufficiente aver rispettato quella del 3% per la ripartizione dei seggi, potrebbe anche palesarsi la situazione (estrema) per cui, ottenendo ogni lista su scala nazionale pochissimi voti, basterebbe un consenso del 3,01% per accedere al ballottaggio, e chi vincerebbe prenderebbe 340 seggi su 630 (cfr. G. Zagrebelsky, F. Pallante, Loro diranno, noi diciamo, p. 44). Situazione assai improbabile, ma si consentirebbe anche ad una forza che ottiene al primo turno il 20% di voti, di ottenere il 54% dei seggi della Camera al ballottaggio: una evidente sproporzione che rischia di arrecare una notevole lesione alla rappresentatività dell’organo, e alla rappresentanza dei cittadini.

Le funzioni della Camera dei deputati

Il rafforzamento della posizione della Camera nei confronti del Governo è data dalla esclusività della titolarità del rapporto di fiducia. Infatti, il nuovo art. 55, 4° co. Cost., prevedrebbe che «la Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo», mentre l’art. 94, 1° co., ribadisce come «il Governo deve avere la fiducia della Camera dei deputati». Come già evidenziato, la titolarità del rapporto di fiducia – che si accompagna all’esercizio delle funzioni di indirizzo politico e di controllo dell’operato del Governo – rendono a pieno titolo la Camera dei deputati la sola Camera “politica” del Parlamento, cioè quella in grado di condizionare l’indirizzo politico, quale funzione del Governo, oltre che la sua stessa permanenza in carica, giacché il Governo non potrebbe né entrare né rimanere in carica senza la fiducia della Camera dei deputati (art. 94, 1° e 3° co.). E se l’indirizzo politico è da qualificarsi come «attività di “libera” determinazione dei fini fondamentali dell’azione degli organi costituzionali» (F. Modugno, Diritto pubblico, p. 388), allora si coglie il notevole peso che la Camera assumerebbe nella nuova architettura costituzionale. Soprattutto se si immagina che, essendo in vigore l’Italicum, la forza politica che avrebbe più della maggioranza assoluta dei seggi esprimerebbe il Governo medesimo, e sarebbe sufficiente il suo solo appoggio per garantirgli la fiducia. Realizzandosi così una stabilizzazione dell’Esecutivo nell’attuazione del proprio programma di governo: nel solco della governabilità.

È quindi un rapporto “privilegiato” quello che si configurerebbe fra Camera e Governo. A conferma di ciò, l’art. 96: «il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione della Camera dei deputati». Si determina pertanto una “responsabilizzazione” dei membri del Governo nei confronti della sola Camera, venendo espunto dalla disposizione il riferimento al Senato della Repubblica.

In tale chiave deve essere letto anche l’art. 78 Cost., a termini del quale «la Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari», contro l’attuale articolo che conferisce la delibera dello stato di guerra ad entrambe le Camere, e senza richiamare alcuna maggioranza (dovendosi ritenere necessaria la maggioranza semplice: quella dei votanti, non dei componenti). Una previsione da ritenersi opportuna, dal momento che costituzionalizza una maggioranza di deliberazione (il 50% + 1 di tutti i deputati) e non richiede più il consenso del Senato, dato il suo nuovo ruolo. Un’ipotesi la cui positività verrebbe tuttavia stemperata in considerazione della legge elettorale: assegnandosi difatti più della maggioranza assoluta dei seggi della Camera ad una sola forza politica, che sarà poi quella che esprimerà il Governo, si rischia di rendere del tutto “autoreferenziale” il rapporto fra Camera e Governo in questa materia. Basterebbero solo 316 voti su 630 per la delibera, ma la forza di maggioranza ne otterrebbe 340! La norma troverebbe ragione nel (delineatosi) modello di una sola Camera legata al Governo dal rapporto di fiducia, anche se la eccezionalità della suddetta disposizione la rende del tutto inidonea ad essere sussunta nel rapporto fiduciario.

Altra novità relativa alla Camera dei deputati è la limitazione ad essa sola della possibilità di concedere l’amnistia e l’indulto. Appunto, «l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti della Camera dei deputati, in ogni suo articolo e nella votazione finale» (art. 79, 1° co.). Non sembrerebbe escludersi la possibilità di un eventuale intervento del Senato in sede di approvazione del progetto di legge (a norma del 3° co. dell’art. 70), venendo la legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto inserita in un procedimento monocamerale. Tuttavia, la straordinarietà della materia (per quanto il quorum richiesto sia sempre dei 2/3 dei componenti, ora della Camera) avrebbe dovuto far optare, a parere di chi scrive, per una obbligatoria (e non solo eventuale) partecipazione del Senato, indi per il procedimento bicamerale. Infine, secondo il nuovo art. 80, «la Camera dei deputati autorizza con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi», rimanendo di competenza di una legge bicamerale (da approvarsi da parte di Camera e Senato nel medesimo testo) l’autorizzazione alla ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’UE (alla luce della funzione di raccordo fra le componenti dello Stato e l’UE attribuita al Senato: art. 55, 5° co.). Nel primo caso, comunque non sembra escludersi una possibilità di intervento del Senato, il quale dovrebbe limitarsi all’esame e alla proposta di eventuali modificazioni del testo di legge.

Infine, la previsione di un procedimento standard di approvazione delle leggi, in cui la Camera approva l’atto e successivamente lo trasmette al Senato che entro un termine assai breve può decidere di esaminarlo e di proporre modifiche, sulle quali la Camera si pronuncia in via definitiva (art. 70, 3° co.), determina in modo chiaro uno spostamento del baricentro politico verso la Camera dei deputati. Quanto detto rimane, in ogni caso, coerente con il disegno del “ricostituente” di differenziare ruolo e peso delle due Camere, ai fini della già richiamata esigenza della governabilità, cioè la stabilizzazione dell’indirizzo politico e, insieme, del Governo.

Quando la maggioranza garantisce le opposizioni…

L’art. 64, 2° co., novellato dalla revisione prevede: «i regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari. Il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni». Rimane inalterato il primo comma che dispone che l’adozione, da parte di ciascuna Camera, del proprio regolamento avvenga a maggioranza assoluta dei suoi componenti. La previsione necessita tuttavia di alcune precisazioni:

  • per regolamento parlamentare si intende un atto che disciplina il funzionamento interno di una Camera (Camera dei deputati e Senato della Repubblica). Ad esso è riconosciuta, in forza del combinato disposto degli artt. 64 e 72, una riserva di competenza assoluta, nel senso che una «legge che tentasse di abrogare disposizioni dei regolamenti parlamentari sarebbe illegittima poiché, pretendendo di interferire in una materia ad essa sottratta, violerebbe gli artt. 64 e 72» (S.M. Cicconetti, Le fonti del diritto italiano, p. 346). In ogni caso, il regolamento parlamentare si contraddistingue per una sua potenziale “cedevolezza”, ovvero una deroga ad esso è possibile all’unanimità, quando non vi sia opposizione da parte di alcuno (cfr. S.M. Cicconetti, Lezioni di giustizia costituzionale, p. 59);
  • la differenza fra maggioranza e minoranza è data dal rapporto fiduciario con il Governo. È quindi qualificabile come “maggioranza” chi vota la fiducia al Governo, mentre è “minoranza” chi non lo fa, rappresentando pertanto l’“opposizione”.

Nessun problema sembra, per ciò, sorgere in ordine all’applicazione della locuzione alla Camera, dove le coalizioni di appoggio o contrasto al Governo sono ben definite, sussistendo il rapporto fiduciario. Incertezze notevoli sorgono invece relativamente al Senato, dove non si vota la fiducia e non è ancora chiaro se l’avvicendamento dei senatori avverrà su base politica, o su base regionale (singole Regioni oppure Regioni del Nord, del Centro, del Sud, etc.?).

La garanzia nei confronti delle opposizioni è poi prevista solo per la Camera dei deputati, il cui regolamento dovrà disciplinarne lo statuto. Per quanto sia evidente l’intento di consolidare una democrazia maggioritaria, con un ruolo definito della maggioranza che sostiene il Governo, positiva è la volontà di tutelare il contradditorio e la rappresentanza delle minoranze. Tuttavia non sono definiti, a livello costituzionale, i contenuti dello statuto rimettendosi integralmente alla fonte regolamentare parlamentare la loro definizione. Ed è qui che sorge il paradosso: giacché il regolamento parlamentare è approvato nel suo contenuto a maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea, e attualmente è in vigore una legge come l’Italicum (che attribuisce il 54% dei seggi della Camera ad una sola forza politica, che esprimerà inevitabilmente il Governo e sarà quindi di maggioranza), si rimette alla maggioranza stessa la definizione dello statuto delle opposizioni, cioè di un complesso di norme che dovrebbe garantire chi a quella maggioranza non appartiene. Un’evidente disfunzione maggioritaria che tende a creare una “democrazia conflittuale”. Sarebbe stato opportuno al riguardo aumentare le maggioranze richieste per l’adozione dei regolamenti parlamentari. Ma così non è stato.

Il Presidente della Camera un po’ di qua, un po’ di là

immagineL’ultima modifica rilevante che interviene riguarda il Presidente della Camera in relazione al suo ruolo istituzionale. Attualmente, la presidenza del Parlamento in seduta comune (cioè quando Camera e Senato si riuniscono) spetta al Presidente della Camera; allo stesso modo, l’Ufficio di presidenza del Parlamento in seduta comune è quello della Camera. Per quanto attiene alla normativa applicabile alle due Camere riunite, è il regolamento della Camera che ne disciplinerà il funzionamento.

La maggiore perplessità sorge relativamente al nuovo art. 86, 1° co., il quale prevede che «le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente della Camera», e all’art. 85, 2° co., il quale dispone che «quando il Presidente della Camera esercita le funzioni del Presidente della Repubblica nel caso in cui quest’ultimo non possa adempierle, il Presidente del Senato convoca e presiede il Parlamento in seduta comune». La criticità della previsione complessiva sorge dal fatto che, pur mantenendosi la titolarità della presidenza del Parlamento in seduta comune in capo al Presidente della Camera, a quest’ultimo venga anche attribuito il ruolo di supplenza del Presidente della Repubblica. Non solo si ribalta la gerarchia fra le alte cariche dello Stato (il Presidente del Senato perderebbe il secondo posto a favore di quello della Camera), ma soprattutto si creerebbero delle notevoli difficoltà nella gestione/organizzazione del Parlamento in seduta comune, ove il Presidente della Camera svolga le funzioni di supplenza: il Presidente del Senato dovrà collaborare con l’Ufficio di presidenza della Camera (un organo a lui non “familiare”) nonché dovrà applicare il regolamento della Camera che, nella migliore delle ipotesi, non conoscerà (fintanto che non venga approvato un regolamento ad hoc per il Parlamento in seduta comune). Potendosi pertanto creare delle notevoli difficoltà di funzionamento dell’organo.

Leggi i precedenti: Una riforma possibile? , Senato, che caos! – Le funzioni e Senato, che caos! – La composizione

Leggi i successivi: Fra garanzia e democrazia diretta, solo propagandaLa presunta semplificazione del procedimento legislativo e Rapporto Stato-Regioni: poche novità

di LUCA ZAMMITO

Studente di Giurisprudenza, Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico, presso l’Università degli Studi “Roma Tre”

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