Una riforma possibile?

Il parlamento fra continuità e illegittimità

Con la sentenza n. 1 del 2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge elettorale, altrimenti nota come Porcellum, entrata in vigore nel 2005. L’atto è stato censurato in due suoi aspetti: 1) la previsione di un premio di maggioranza, pari al 54% dei seggi della Camera (ovvero 340 su 630), alla coalizione, che avesse raggiunto la maggioranza dei voti su scala nazionale, senza prescrivere alcuna soglia minima per poterne beneficiare; 2) il disporre che la preferenza potesse vertere solo sulla lista, escludendo la facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti (c.d. “liste bloccate”).

 

Perché, come precisa la Corte, nonostante «le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, […] obiettivo costituzionalmente legittimo», 1) «dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica […] e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare» (art. 1, 2° co., Cost.), consentendo pertanto una «illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare» e un’alterazione del circuito democratico che si fonda sull’uguaglianza del voto (art. 48, 2° co., Cost.); 2) «alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione» e «le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti».

 

Tuttavia, la Corte, data la rilevanza degli interessi in gioco, aggiunge che la decisione (che dovrebbe “travolgere” la normativa sin dalla sua entrata in vigore) produrrà i suoi effetti solo in occasione di una nuova consultazione elettorale, dal momento che le elezioni svoltesi nel 2013 costituiscono un fatto concluso. Infatti, aggiunge la Corte, «rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. […] Le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun modo cessare di esistere».

 

È evidente come i giudici della Consulta fondino la incostituzionalità della legge elettorale sulla lesione, da essa apportata, del principio di rappresentanza. Quale esprimentesi nell’organo parlamentare (Camera dei deputati e Senato della Repubblica, i cui membri rappresentano la Nazione, ex art. 67 Cost.), che è espressione del popolo cui appartiene la sovranità (art. 1, 2° co., Cost.), e che fonda la propria legittimazione su un voto «personale ed eguale, libero e segreto» (art. 48, 2° co., Cost.).

Un Parlamento riformatore? 

 

Una premessa così lunga è utile per analizzare la validità dei presupposti dell’attuale processo di revisione costituzionale. Al riguardo l’art. 138 Cost. richiede, ai fini della modifica della Carta costituzionale, che la legge di revisione costituzionale sia adottata da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi. Ove la legge venisse approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione, su domanda (da farsi entro tre mesi dalla pubblicazione) di un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali, essa viene sottoposta a referendum popolare. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Se, invece, fosse approvata nella seconda votazione a maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera, la legge è promulgata, senza che possa essere chiesto il referendum.

 

Come è evidente dal tenore letterale dell’art. 138, le maggioranze giocano un ruolo tutt’altro che secondario: la maggioranza assoluta (50% + 1 dei componenti) consente di chiedere il referendum, la maggioranza dei 2/3 no. Questo perché, se nel primo caso la condivisione delle forze politiche, circa il progetto di revisione, è vasta ma non amplissima, nel secondo il consenso creatosi intorno è molto esteso, tale quindi da ricomprendere quasi tutte le forze politiche. E dato che i partiti (ossia le forze politiche) sono organizzazioni che intercedono fra la società e le istituzioni, facendo concorrere i cittadini a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.), si presume che una maggioranza dei 2/3 sia tale da garantire l’adesione sulla modifica della stragrande maggioranza della popolazione, sempre in virtù del principio della rappresentanza. Certo, ciò sarebbe valso in un sistema elettorale proporzionale (quale era quello in vigore nel 1948). Però, la Corte medesima osserva che l’Assemblea Costituente, «pur manifestando, con l’approvazione di un ordine del giorno, il favore per il sistema proporzionale nell’elezione dei membri della Camera dei deputati, non intese irrigidire questa materia sul piano normativo, costituzionalizzando una scelta proporzionalistica o disponendo formalmente in ordine ai sistemi elettorali, la configurazione dei quali resta affidata alla legge ordinaria» (sent. n. 429/1995). Pertanto, la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sent. n. 242/2012). Si ammette dunque la “piena discrezionalità” del legislatore in ordine alla determinazione del sistema elettorale, senza invero che la suddetta facoltà possa oltrepassare il confine della ragionevolezza (art. 3 Cost.).

 

Ora, è legittimo chiedersi se un Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale, perché lesiva della rappresentanza e della libertà del diritto di voto, possa intraprendere un percorso di modifica della Costituzione. Secondo quanto detto prima, la risposta non potrebbe che essere negativa. Semplicemente poiché, a rigor di logica, non è ammissibile che un organo, di fatto delegittimato rispetto al popolo perché contraddicente nella sua formazione uno dei cardini stessi della Costituzione (la rappresentanza), possa modificare quest’ultima. E non importa che sia richiamato dalla Corte il principio di continuità dello Stato, la cui finalità è solo di assicurare un continuum nel funzionamento degli organi. Infatti si tratta di «una “continuità” democratica, cioè una stabilità degli indirizzi politici» (L. Elia, La continuità, p. 21), rafforzata dall’esigenza che l’organo sia in grado di funzionare con continuità. Il principio di continuità, è bene puntualizzarlo, è suppletivo al principio di rappresentanza, non ad esso alternativo: appunto per questo, non può reggere i cinque anni della legislatura.

 

D’altra parte, non è un caso che nella sentenza la Consulta richiami gli articoli 61, 2° co., e 77, 2° co., Cost., tipica espressione del principio di continuità nel funzionamento degli organi costituzionali. Sono queste stesse disposizioni che delineano i confini della “continuità” delle Camere, prevedendo l’istituto della prorogatio: essa (differentemente dalla proroga, che consiste nell’allungamento della durata della legislatura oltre i 5 anni) consente alle Camere di continuare a funzionare dopo la data della loro scadenza, dato che il Parlamento è “organo continuo” e quindi, anche in fase di sua rinnovazione, non se ne possono mettere in dubbio l’esistenza e il funzionamento. In particolare, l’art. 61 prevede che «finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti»; così legittima che il Parlamento, la cui legislatura è terminata, rimanga in carica fintanto che non si riunisca il nuovo. Sempre l’articolo 61, ora 1° co., fissa però la tempistica da rispettare: «le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni». Le Camere, i cui poteri sono prorogati, non possono allora durare “all’infinito”: «la norma […] pone una serie di termini inderogabili entro i quali le operazioni indicate debbono svolgersi, per garantire che l’effettivo esercizio delle funzioni parlamentari sia realmente riconducibile alla rappresentanza popolare, attribuendo, quindi, concretezza alla solenne affermazione contenuta nell’articolo 1, comma secondo, della Costituzione» (S. Traversa, Proroga e “prorogatio” delle Camere, pp. 38-39). È già dunque la norma che pone un limite temporale, direi insuperabile, al fatto che le Camere continuino a funzionare.

 

Il termine dei non oltre 90 giorni peraltro, proprio per la sua natura di termine massimo, non può essere utilizzato integralmente per provvedere a tutti gli adempimenti costituzionali. Solo per l’adozione degli atti di ordinaria amministrazione, cioè quelli che attengono alla gestione degli affari correnti, e degli atti di straordinaria amministrazione, cioè gli atti che seppur espressivi di un indirizzo politico sarebbero legittimamente adottabili in presenza di circostanze di urgenza ed eccezionalità. Per questo motivo, l’art. 77, 2° co., Cost. afferma che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» quando il Governo loro presenta, per la conversione in legge, un decreto-legge, ossia un atto adottato in casi straordinari di necessità ed urgenza.

 

Pure qui tuttavia il limite è preciso: dandosi sessanta giorni (dalla pubblicazione del decreto) per la sua conversione, una volta decorso tale termine, atto approvato o meno, le Camere “termineranno” di funzionare. L’attività del Parlamento “prorogato” si dovrà pertanto limitare all’esame, alla discussione e alla conversione del decreto in legge, non potendosi estendere ad altro. La ratio della limitazione di funzionamento, si giustifica «alla luce della situazione di deficit rappresentativo in cui versano le Camere in regime di “prorogatio” e alla stregua della necessità che venga salvaguardata la sfera decisionale dei futuri codeterminatori dell’indirizzo politico (le nuove Camere e il nuovo Esecutivo) da condizionamenti discendenti da un indirizzo politico ormai morente» (F. Modugno, Diritto pubblico, p. 317). In altro modo, si è in presenza di un depotenziamento di legittimazione dell’organo che svolge una funzione limitatrice di alcune attività parlamentari.

 

Non è quindi casuale il richiamo che la Corte fa al suddetto istituto: il Parlamento sarebbe dovuto rimanere in carica, nell’intenzione della Corte, esclusivamente per gli adempimenti necessari a consentire la ricostituzione del nesso di rappresentanza fra eletti ed elettori; possibilità perseguibile tramite l’adozione di una nuova legge elettorale o la modifica della legge risultante dalla sent. n. 1/2014. Una volta che tale compito fosse stato assolto, si sarebbe dovuto procedere allo scioglimento delle Camere, ad opera del Presidente della Repubblica (art. 88 Cost.), con successive nuove elezioni. È pur vero che la Consulta medesima ha ribadito la legittimità di tutti gli atti adottati dalle Camere prima di nuove consultazioni elettorali, ma ciò non implicava che il Parlamento potesse «recuperare una autonoma legittimazione giuridica e politica, essendo il voto popolare, in uno Stato democratico, la fonte esclusiva di legittimità» (A. Pace, Una riforma eversiva della Costituzione vigente, Rivista AIC 04/2016). Tanto meno poteva intraprendere un percorso di revisione costituzionale.

 

A ogni modo, le considerazioni sopra riportate debbono ritenersi appropriate ai fini di una valutazione sul fondamento, e sulla legittimità in senso lato, dell’attuale processo riformatore. Si potrebbe parlare di un “vizio genetico” dell’attuale modifica, per evidenziarne l’alterazione perfino nei presupposti. Naturalmente il piano politico è un altro: quello che, da un punto di vista giuridico, avrebbe rappresentato un “intoppo”, da quello politico, è stato colto come una opportunità. Dimenticandone nondimeno le devianze da un lineare svolgimento rispettoso della Costituzione.

Revisione vs. riforma

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Un ulteriore aspetto che merita un accenno è quello relativo al termine “revisione”, utilizzato dall’art. 138 Cost., e di come questo si differenzi notevolmente da quello, attualmente invalso, di “riforma”. Stando ad una analisi lessicale, “revisione” vuol dire: «nuovo esame inteso ad accertare e a controllare, ed eventualmente a correggere o a modificare […]  la situazione iniziale o precedente» (vocabolario Treccani); in altri termini, «esame o controllo, per lo più periodico, inteso a verificare il grado dell’efficienza, della funzionalità, della corrispondenza a determinati requisiti, in quanto può implicare apporto di modifiche o di correzioni» (vocabolario Devoto-Oli). Al contrario, “riforma” significa: «modificazione sostanziale […] di uno stato di cose, o di un’istituzione, un ordinamento, ecc.», cioè «rinnovamento più o meno profondo di una condizione o situazione esistente, per adeguarla a nuove e diverse esigenze».

 

La revisione ha conseguentemente una portata minore, in termini di modificazione, rispetto alla riforma. Non è infatti un caso che in Costituzione si parli di “revisione”: la modifica costituzionale dovrebbe consistere in modifiche puntuali ed omogenee, affinché la procedura dell’art. 138 sia strumento per “manutenere” la Costituzione, non per “sostituire” una nuova Carta costituzionale alla precedente. Questa è almeno la posizione prevalente in dottrina, anche se non mancano opinioni contrarie in ordine all’ampiezza delle modifiche apportabili. Tuttavia, la tesi sopra esposta sembrerebbe trovare ancoraggio nella previsione di specifici limiti (espressi e non) alla revisione costituzionale: dalla forma repubblicana (art. 139 Cost.) ai “principi supremi” dell’ordinamento, «che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana […] quanto i principi, che pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» (sent. n. 1146/1988).

 

Il potere di revisione si deve dunque muovere nel solco tracciato dalla Costituzione medesima, è esercitabile nei limiti della stessa. E se la Costituzione condiziona ogni altro atto o fatto normativo, allora non è mai modificabile del tutto, nonostante la procedura di revisione: non è da altra Costituzione sostituibile. Il potere di revisione difatti è potere “condizionato” (si parla, in tal senso, di “potere costituito”) e non va confuso col “potere costituente”, da cui deriva l’instaurazione dell’ordinamento. Quest’ultimo è potere irripetibile, esauritosi con l’entrata in vigore della Costituzione il 1° gennaio 1948, e di cui titolare è il popolo, detentore della sovranità, cioè investito di un proprio titolo giuridico originario. Gli aggettivi per qualificarlo sarebbero plurimi: «originario, non derivato, unitario, indivisibile, assolutamente libero ed indipendente da vincoli di diritto interno ed internazionale, supremo, inalienabile, inesauribile, incontrollabile» (P.G. Grasso, Potere costituente, Enc. del diritto, XXXIV, 1985).

 

È quindi evidente come contrasti con tali assunti una revisione (rectius: riforma) che investa 47 articoli su 139 (1/3 della Costituzione!). Di fatto si tratta di una nuova Costituzione che si sovrappone all’attuale, e di un potere costituito che si innalza a costituente.

 

Leggi i successivi: Senato, che caos! – Le funzioniSenato, che caos! – La composizioneCamera pigliatutto e Fra garanzia e democrazia diretta, solo propaganda

di LUCA ZAMMITO

Studente di Giurisprudenza, Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico, presso l’Università degli Studi “Roma Tre”.

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