Ventitré piccoli indiani

Alcuni ragazzi del nostro liceo, all’inizio di ottobre, hanno trascorso dieci giorni in India tra Mumbai e il villaggio di Kumbharghar: un’esperienza umanamente toccante e dalla incredibile carica emotiva, nonché un’occasione per avere un contatto de visu con una realtà agli antipodi della nostra cultura

Da poco sono passate le nove di mattina, il sole è già a picco e non concede un attimo di tregua. Di fronte a noi si estende Kumbharghar, un piccolo villaggio di appena 211 abitanti, non molto lontano da Mumbai, nello stato indiano del Maharashtra. Al primo impatto, l’aria è intrisa di povertà e desolazione. In realtà, rispetto alla media, le condizioni di vita si rivelano di certo migliori: la presenza di case in pietra e di latrine pubbliche, nonché l’accesso all’acqua potabile, mostrano l’intervento del governo. Kumbharghar, tra l’altro, è stata adottata dalla Dhirubhai Ambani International School di Mumbai, tramite finanziamenti nel campo dell’educazione, del lavoro e delle infrastrutture, grazie anche al contributo attivo degli studenti.

I nostri compagni aiutano gli autoctoni nella costruzione di case e nel trasporto di materiali; noi ne approfittiamo per esplorare il villaggio, per conoscerne il lato umano e immergerci nella sua routine quotidiana. Krishay e Rhythm, due ragazzi della Dhirubhai Ambani, sono le nostre giovani guide: traducono per noi in inglese dal marathi, lingua in cui comunicano gli abitanti del luogo. Ci conducono ad un’estremità del caseggiato, dove alcune donne usufruiscono di un lavatoio e dispongono la biancheria ad asciugare, all’aperto. Di tanto in tanto passano dei bambini: nei loro sguardi schivi e tenerissimi all’un tempo si legge una certa serenità, a tratti vivacità, nonostante i limitati stimoli che un agglomerato di così esigua estensione può offrire. Dinanzi a noi gli abitanti del posto appaiono visibilmente a disagio; chissà quante volte ancora, nella loro vita, degli europei raggiungeranno il loro paese. Non dicono quasi nulla: i loro ritmi di vita semplici e scanditi, pressoché immutabili, proseguono lentamente, come se il tempo fosse illusoriamente dilatato. Sul ciglio di casa è in piedi, appoggiata allo stipite della porta, Tai Baban Pawar. Casalinga e contadina, vive insieme ai suoi quattro bambini, ai genitori e al marito che lavora al mercato Bali, poco distante, dal quale acquistano pressoché tutto il necessario. In famiglia – abitudine, del resto, consolidata nel villaggio – si procurano il cibo coltivando. Non hanno, invero, un loro terreno specifico, ma trovano un impiego alla giornata; durante la stagione dei monsoni fanno crescere le colture nei campi, in inverno si dedicano alla raccolta. Questa appare come l’unica prospettiva di vita contemplata dalla signora: del resto, ci dice che avrebbe unicamente bisogno di un buon lavoro e di animali (mucche e galline). «Non desideriamo una casa più grande, va bene così», afferma Tai Baban, «Non ho mai viaggiato, qui non abbiamo contatti con il mondo: non sono stata neppure a Mumbai. Se potessi, mi sposterei solo nei dintorni, e solo se lì conoscessi qualcuno».

È una chiusura ad opportunità nuove – non facili, in ogni caso, da ottenere –, un attaccamento indissolubile alle consuetudini, privo di una qualsivoglia apertura al rinnovamento: eppure non è rigido conservatorismo, quanto piuttosto l’appagamento e la quiete di chi, con questa quotidiana dimensione del vivere, coesiste sin dalla nascita. E poi, alcuni elementi tradizionali conservano un fascino indicibile: i locali ci raccontano della religione tipica del Maharashtra, che prevede le festività di Holi (tra marzo e aprile, celebra la rinascita), Dussehra (prevalenza del bene sul male) e Ganpati (in onore di Ganesha, dio protettore di scienza, arti e saggezza) quali momenti di aggregazione collettiva.

Mentre camminiamo lungo l’unica strada che congiunge le estremità di Kumbharghar si alzano polvere e terra; piove spesso lì, e si formano ovunque fango e acquitrini, a rendere ancor più inagevole il passo. Sulla destra ci colpisce un uomo anziano, che si affaccia semicurvo dall’uscio di casa. È magrissimo, i lineamenti scarni e le ossa che spuntano quasi a fior di pelle: denutrizione e condizioni di vita problematiche si manifestano nella loro crudezza e oggettività. Eppure il nostro interlocutore si mostra in tutta la sua dignità: affabile, pur nella concisione delle risposte dateci, la solita imperturbabile calma in volto. «Non usiamo medicine», ci spiega, «ma solo oli che estraiamo dai frutti». Si chiama Lingya Waghmare, dovrebbe avere sì e no sessantacinque anni, e così anche la moglie Sangeeta, come ci dice. Il condizionale è d’obbligo: nel villaggio quasi nessuno conosce la propria età con esattezza, tranne i bambini. Strano ma vero, il compleanno non si festeggia. Roba da non credere.

Quasi tutti hanno in cucina spezie, riso, lenticchie, pesce che essi stessi si procurano al fiume e destinano all’autoconsumo, senza venderlo; a colazione mangiano una particolare focaccia azzima che chiamano Bakhri. Anche la famiglia di Lingya si è spostata al massimo, con il bus, verso campi e mercati limitrofi. Tuttavia, diverso e lungi dalle nostre aspettative è il commento del figlio, che ha tra i venti e i trent’anni: «Mi piacerebbe avere un lavoro migliore e viaggiare ovunque. Peccato che il governo indiano sia corrotto, contribuendo ad aumentare il divario ricchi-poveri». Malgrado le difficoltà, non da tutti è abbandonata la speranza in un futuro più roseo. Magari, oltre che per sé, per i propri figli.

È quello che ci racconta Sadhuram, già papà a dispetto della giovane età. Ha tre bambini: due sono andati a scuola, l’altra inizierà l’anno venturo perché ancora troppo piccola (si comincia a sei anni). Il padre augura loro una carriera brillante: vorrebbe che diventassero ingegneri o dottori attraverso l’educazione, che egli in primis si preoccupa di fornir loro, seppure a livelli elementari. Gli chiediamo di cosa avrebbe bisogno il villaggio, secondo lui, per progredire: ci dice che in cinque anni potrebbe davvero fare passi in avanti, grazie a case più grandi, cibo e – ribadisce – educazione. «Al momento sono disoccupato», ci rivela, «aspetto novembre per andare al mercato, quando capita aiuto in piccoli lavori. E nel tempo libero adoro giocare a cricket come battitore».

Al villaggio le case sono contigue le une alle altre: di solito molto basse e con il tetto spiovente, arredate in modo più che sobrio all’interno. Danno direttamente sulla strada, su cui si affacciano con uno stretto portico. È proprio sulla porta di un’abitazione come queste che incontriamo una ragazza sui vent’anni, o poco più: ha una bambina di appena dieci giorni, Ashwina. In un ambiente povero e umile come quello di Kumbharghar, la dolcezza e la spontaneità della bimba, distesa su un telo mentre dorme rannicchiata su se stessa, non possono che smuoverci e far tenerezza. La madre, che la allatta quattro o cinque volte al giorno, si è sposata a soli diciannove anni ed è rimasta incinta a venti: ha già quattro figli, nati in media uno all’anno. Il compleanno non lo festeggiano, il matrimonio sì: «mariti e mogli provengono tutti dallo stesso villaggio», spiega la ragazza, «se non sai chi scegliere, i genitori lo fanno per te, e noi in genere accettiamo. Io, però, mio marito l’ho scelto da me». Mentre ci allontaniamo, la bimba piange: certo che avere così tanta gente nuova attorno deve essere un impatto pazzesco per lei. La lasciamo, sorridendo, alle cure della madre.
Qui, se superi i sessantacinque anni, devi reputarti quasi miracolato. Quando una persona muore, il suo corpo viene bruciato e se ne gettano le ceneri nel fiume vicino. Per dodici giorni i familiari nutrono l’intero villaggio (spesso aiutati da amici), perché credono che così il defunto possa godere di una vita migliore dopo la morte. Sembrano forme di religiosità quasi primitive, eppure evidentemente ancora esistono, continuando a sedurre.

Prima di congedarci, una ragazzina di dieci-undici anni attira la nostra attenzione: Devika è molto timida, non va a scuola, ci guarda e rimane in silenzio. Seduta sui gradini di casa, scalza come quasi tutti qui, la madre ci lascia entrare: incredibile ma vero, hanno la TV, costata loro 10.000 rupie (l’equivalente di 132 euro, un nulla!). Prendono l’elettricità da qualche altra parte, eppure si servono perlopiù di candele per illuminare. Sei persone vivono in tre stanze: salotto, cucina e camera da letto. I bagni, di solito, sono in comune tra più case, ma loro hanno il proprio fuori, sul retro. Sulla porta, a terra, c’è una foglia di palma: le donne la usano come scopa; non utilizzano saponi per pulire, ma spesso sterco di mucca che, inoltre, sogliono bruciare, giacché il fumo allontanerebbe le zanzare.

Saranno le undici, quando riprendiamo il pullman e imbocchiamo la via del ritorno. Fa un caldo inenarrabile, l’umidità è a livelli assurdi: eppure il tempo è volato, e nulla ci ha pesato. Affascinante ritrovarsi in un mondo tale, agli antipodi del nostro: bastano due ore perché andartene ti dispiaccia, e fai fatica a dimenticare persino i volti delle singole persone, ancora oggi assolutamente nitidi. Però ci sono troppe questioni irrisolte che non vanno bene, che ti lasciano dentro un’amarezza e un’insoddisfazione opprimente, forse proprio perché le hai toccate con mano. Bisogna agire, in qualche modo.

Proprio mentre ce ne andiamo, ci passa accanto un ragazzo che indossa una t-shirt blu col disegno di Michael Jackson: gli domandiamo se lo conosce, lui risponde di no. Ecco, Michael Jackson proprio non puoi non conoscerlo.

ANDREA CRINÒ

ALESSANDRO DI SERAFINO

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Tutto ciò che non viene donato va perduto.

È questo il pensiero che aleggia prorompente nella mia mente nelle interminabili ore di volo durante il viaggio di ritorno dall’esperienza che più di tutte mi ha segnato la vita; è questo ciò che ho compreso nei dieci giorni appena passati, che forse proprio le persone che da donare non avevano quasi niente mi hanno insegnato. Ci affanniamo così tanto nella nostra corsa verso la ricchezza, verso il prestigio sociale, troppo veloci, troppo presi dalle nostre vite frenetiche, finendo per considerare scontato ciò che invece non è scontato per nulla. In questo viaggio ho capito a cosa l’uomo è in grado di adattarsi, a quali condizioni è disposto a sottostare, condizioni per noi inaccettabili ma che per loro non sono che normalità. E ti viene rabbia nel vedere come nessuno faccia niente, nel vedere la passività del governo stesso che continua a investire le sue risorse nello sviluppo del Paese mentre la povertà dilaga disarmante.

L’India è una delle più grandi economie del mondo, eppure mentre osservavo le strade di Mumbai vedevo la gente vivere sulla strada, lottare per il metro di marciapiede, immersa nel fango e nella sporcizia. E io mi trovavo lì, seduta comodamente nell’automobile della ragazza che mi ospitava, mentre il suo autista privato mi riportava al lussuoso appartamento al ventiseiesimo piano di un grattacielo da cinquantotto: si può chiamare giustizia questa? Mi sentivo scissa in due dimensioni: da un lato vi era il lusso, lo spreco, l’ipocrisia dell’India benestante, dei ricchi che trascorrono le loro giornate barricati nelle loro auto e nei loro privilegi, senza sporgere mai la testa dal finestrino; dall’altro vi era l’India vera, l’India dai mille colori e credenze ma anche l’India delle bidonville, dello sfruttamento dei lavoratori che si affaticano giorno e notte per guadagnare pochi centesimi, l’India che sembra lanciare un grido d’aiuto che nessuno vuole ascoltare. È un Paese dagli enormi contrasti, dove la divisione in caste e comunità è così radicata che niente e nessuno sembrano poterla mettere in discussione. Non vi sono quartieri ricchi e quartieri poveri, solamente singoli grattacieli, circondati da una moltitudine di guardie, che si ergono in mezzo alla desolazione più assoluta. Pochi avevano tutto, la maggior parte non aveva nulla.

Eppure, giunti al villaggio di Kumbharghar, negli sguardi degli abitanti non c’era odio né frustrazione, solo una cupa rassegnazione, tipica di chi ha perso qualsiasi ambizione nella vita, di chi non vive la povertà come un’eccezione ma come la pura normalità. Sentivo di voler fare qualcosa, di dover fare qualcosa; e passare tre giornate a zappare, costruire case e far giocare i bambini della piccola scuola che avevano creato proprio in quel villaggio è stata l’esperienza più grande. È stato bello per una volta donare ed essere felici di farlo, senza aspettarsi niente in cambio, senza credere che per questo nostro donare siamo migliori degli altri; e sono stati proprio i bambini della scuola che mi hanno fatto veramente capire come l’amore non abbia prezzo, riuscendo con i loro sorrisi e i loro abbracci a dare a me molto più di quello che io ho donato a loro. E ti senti impotente nel vedere come tanti dei loro sogni nel cassetto non potranno essere realizzati, come molti di loro probabilmente non usciranno mai dalle vie di quel villaggio e non saranno mai in grado di capire cos’è il mondo. Capisci solo allora quanto tu possa essere veramente fortunato.

Come si fa a credere di poter condividere la condizione di quegli abitanti, in senso fisico come in senso morale, quando si gode di una salute di ferro, quando non si ha una famiglia da sfamare, curare, quando non si deve cercare un lavoro e non si ha l’ossessione di doverselo conservare, quando si sa che in ogni momento si ha la possibilità di andarsene?

È per noi una realtà così lontana, quasi irreale, e solo con questo viaggio sono finalmente riuscita a percepirne la crudele e concreta esistenza. Esperienze del genere vanno vissute, perché ti scavano dentro, perché ti insegnano a vivere.

SUSANNA BERDINI

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