L’altra Roma

Quando dici “prendo il trenino e vado a Ostia”, già percepisci quest’ultima come lontana, a sé rispetto a Roma: in quei  trenta minuti di viaggio c’è tutta la distanza, non solo fisica ma anche ideologica, tra la capitale e, a ben vedere, null’altro che una sua frazione. L’aria che respiri lì, oggi, è una brezza lieve intrisa di fredda desolazione, come se negli sguardi, nei gesti e nei vicoli si celasse un non detto, un che d’inenarrabile che, a tratti, mette a disagio.

È difficile  ricomporre i pezzi, dopo la nostra irruzione a Ostia, perché il campionario umano in loco è quantomai eterogeneo, lungi dal  manicheismo spicciolo che ne fa un coacervo di soli interessi di parte. Vero, la criminalità c’è, è appurato: di pochi giorni fa sono le motivazioni con cui la Cassazione ha riconosciuto l’aggravante mafiosa nei confronti  del clan Fasciani, giacché “bastano 3 persone” e non necessariamente grandi associazioni per convalidare l’accusa. E il tristemente noto episodio di Roberto Spada, dello scorso novembre, ha contribuito non poco a gettare una luce cupa su Ostia, delineandone contorni foschi e quasi post-apocalittici.

Sulla riviera incontriamo due anziani da sempre vissuti nel X Municipio, che faticano a screditare un territorio pur sempre dotato di un’impronta  urbanistica peculiare.

«Non  avrebbero dovuto  consentire  l’abusivismo,  ma Ostia non è una città abusiva. Quindici anni fa era abbandonata, poi l’hanno rilanciata rivalutando il lungomare, prima della caduta attuale». Ci indicano il Palazzo del Pappagallo, tra i primi esempi di villini a schiera in stile Liberty: ne sembrano fieri, evidentemente  un’identità  precisa qui c’è. «Eppure  ci sentiamo distaccati da Roma. Risentiamo di un certo sbandamento, servirebbe più controllo. L’esposizione mediatica è stata un po’ banalizzata, ma la sostanza c’è». Il tono dei nostri interlocutori, pur affabile, risulta serio, a tratti grave: non ci danno i loro nomi, ché lì tutti li conoscono e quindi meglio di no.

Ci spostiamo verso il porto: pochi coraggiosi sfidano il vento gelido, gli stabilimenti sono chiusi, qualcuno timidamente si affaccia dal cancello di casa. È periodo di festa, del resto. Sulla strada passano a distanza ravvicinata due volanti dei carabinieri, poi due della polizia: una ingiunge la fermata a una Mercedes sul ciglio della strada; nell’altra intravediamo un uomo caricato sul sedile di dietro. Nulla di male, per carità. Però, inevitabilmente, un minimo di ansia addosso la percepisci. In prossimità del molo incrociamo due uomini di mezza età, dal piglio sicuro e disinvolto. Ci dicono che su Ostia c’è stata una strumentalizzazione assurda, ma che effettivamente il controllo sul territorio è carente. «Siamo sempre stati qui, così non va. Se metti la polizia, che risolvi? Conosco chi si è avvicendato ai vertici: sono mafiosi, vi posso dire i nomi». Accenna a una “riunione carbonara” a Castel Fusano riservata, a suo dire, a pochi intimi, unici detentori del potere decisionale. A quel punto alza la voce, proponendoci la sua soluzione: «Non sono fascista, ma occorrerebbe un atteggiamento tale: quelli lì andrebbero fucilati alle spalle come traditori». Al di là di ogni propensione politica, tastiamo con mano la rabbia di chi, hic et nunc, vorrebbe compiere la sua piccola  rivoluzione.   E  per avvertire  il  rancore sulla pelle,  invero,  Ostia  la  devi proprio  vivere;  da fuori,forse, ne hai un’immagine diversa. Una famiglia romana al porto ce lo prova. «Andiamo qui in vacanza; a noi sembra risistemata a livello di presentazione, godibile,  ci dà giusto una vaga idea di solitudine».

È quasi ora di pranzo, quando abbandoniamo la zona costiera per spingerci verso l’interno. È l’estrema periferia della frazione romana, non più di mezz’ora a piedi dalla zona centrale. Enormi palazzoni svettano sotto il cielo plumbeo, con impalcature cedevoli e piscine vuote, giardinetti incolti e marciapiedi sgangherati. Tra gli anfratti degli edifici si apre qualche terreno trascurato, macchine scassate costeggiano i viali.  Una signora si rivolge  a Olimpia  con aria bieca:«Ma che fai le foto, vatte a fa’ ‘na passeggiata!». Pare un’area a sé in stato d’incuria, soggetta alla frequentazione esclusiva di quanti vi abitano, come delimitata da confini inviolabili:  vedi solo gente entrare e uscire dal cortile di imponenti caseggiati, qualche sparuta vettura si fa largo sulla strada, mentre sugli scaloni di un edificio abbandonato campeggiano le scritte del Blocco Studentesco. Dall’altra parte della carreggiata, il primo piano di un palazzo è adibito a parrocchia (San Vincenzo de’ Paoli). Sorridiamo, sembra più un garage; ma tant’è.

Ci fermiamo presso un bar nei dintorni;  il proprietario è un anziano signore che, tra una sigaretta e l’altra, ci spiega come a suo modo di vedere i giornali abbiano caricato troppo, dipingendo  il quartiere come il Bronx.

«Sono pugliese, ero qui quando Ostia risultava  l’unica circoscrizione con ben  tre parlamentari. Comunisti e fascisti non si scannavano, ma si mettevano sotto braccio».  Affiora dalle sue parole nostalgia e al contempo amarezza: prima, dice, era pieno di discoteche, c’erano comitive di ragazzi eterogenee; ora è un quartiere dormitorio. I giovani non si interessano all’attualità, parlano sovente in modo volgare, non c’è educazione: il barista ci confida che, in zona, molti nemmeno sanno chi è il Presidente della Repubblica, né riescono a fare 7×8. «Ma soprattutto, manca cultura politica. Oggi non esistono più orientamenti definiti, è tutta una corsa di poltrone. I Masaniello e i Pietro Micca son finiti:  parliamo, e poi?». Parole sagge.

È incredibile come, tra la periferia e il centro di Ostia, intercorrano solo pochi isolati. Continuiamo su Via Vasco de Gama, quindi imbocchiamo le parallele più frequentate. Chiediamo a un gruppo di ragazze, secondo anno al linguistico, quali stimoli offra loro il quartiere. Pochi, a quanto pare: a scuola organizzano qualche protesta, si incontrano perlopiù al McDonald’s e al cinema, ma in generale Ostia dà un’impressione di trascuratezza.

Di avviso parzialmente diverso uno dei rappresentanti d’istituto del Liceo Scientifico Labriola, fiero della tradizione di attivismo studentesco che s’impegna a portare avanti: «Nelle scuole bisogna parlare:  i collettivi sono i nostri punti di forza, ci concentriamo sull’analisi dei problemi e i ragazzi sono molto preparati». Confessa di essere di sinistra, benché nelle loro assemblee i contrasti ideologici si amalgamino bene. Ecco, permangono spazi aperti al confronto, al dibattito, a proposte concrete d’intervento sul campo. Peccato che tali iniziative, spesso, non trovino chiara approvazione da parte di chi avrebbe l’onere di occuparsene. «Vorrei  che  si  agisse  su  due  fronti», continua il ragazzo, «creando una palestra popolare , chiusa agli Spada, e vincendo la battaglia sulle concessioni balneari, poiché il mare  dev’essere pubblico e accessibile. Ho spiegato di persona alla Di Pillo come urgano piani regolatori, ma lei non mi sapeva dare risposte». Si sentono a parte da Roma, i giovani, anche perché qui lo Stato manca. E, più ci si allontana dalla città, più le forze populiste  hanno spazio, sicché quel sentimento di odio verso chi amministra induce tanti a ripiegare su “rigurgiti” come CasaPound. Eppure c’è chi crede pervicacemente nella politica «quale metodo, applicazione,  interesse  alla cosa pubblica; non è corruzione». Da qui occorre ripartire.

Ci imbattiamo in un ragazzo che ad Ostia vive da 16 anni, secondo il quale quanto si dice sul quartiere è per la metà errato: «Quando ne parlavano sembrava di stare a Scampia; in realtà dove fumano e spacciano si trova ovunque». Si professa abbastanza neutrale: ha sì amici nel Blocco, ma non ne condivide tutte le idee. Alla fine constatiamo che le differenze nette di orientamento politico, in verità, sono poche. A confermarlo una sedicenne del liceo classico Anco Marzio, che ci rivela come a scuola coesistano ragazzi del Blocco, comunisti e di centro-sinistra. Ciononostante, a parer suo, i prof non offrono spinte sufficienti: scarse sono le iniziative culturali promosse, per chi come lei vorrebbe un maggior invito all’informazione  e al dialogo attivo.

Gradualmente scende la sera, e ancora facciamo fatica a mettere assieme i tasselli del mosaico. Un non so che d’irrisolto persiste, come se la verità non ancora fosse trapelata del tutto. Nel “non rilascio cose” della giornalaia, o nel “non si entra, serve l’autorizzazione e bla bla bla” alla mensa della Caritas (!), o ancora nel “lasciate perdere ché vi rompono i coglioni” di un ragazzo sulla soglia della sede di CasaPound, in tutto questo, ecco,forse sta il succo: non saprei dire se paura, diffidenza, chiusura, semplicemente mettere le mani avanti.   Non   c’è   cattiveria,   neppure   disprezzo. Però è palese, molti si lasciano andare con difficoltà , non c’è distensione; ti scrutano per bene prima di rivolgere la parola, anche se poi magari ti accolgono con disponibilità. E tu ti senti spaesato e più teso del solito.

Facciamo un’ultima tappa presso la chiesa principale, Santa Maria Regina Pacis. Ci riceve il viceparroco nella sua stanza: è una persona determinata, pronta a difendere  una  popolazione   che reputa attiva  e seria.

«Non condivido il modo in cui è stata trattata la questione-Spada. A lui e famiglia ho fatto battesimi, matrimoni e funerali; è stato un sempliciotto, ma ritengo esagerata l’attenzione mediatica sulla vicenda: hanno messo in risalto una realtà comune a molte periferie di Roma. Io qui non ho paura di uscire». Non usa mezzi termini, il viceparroco, in merito a ciò che maggiormente gli preme: «Ci stanno sfuggendo i giovani.  Sono qui  dal ’73; prima  portavo la chitarra, oggi mi prendono in giro, tutti usano solo le cuffiette». È cresciuto assieme alla Di Pillo, anche se lui per i 5 Stelle non fa il  tifo. Ciò che propone è una stabilità istituzionale, accompagnata da  una  giusta pianificazione delle risorse: solo così si potrebbe intervenire  più  efficacemente, specie  nei  sobborghi.

«Non ho dimestichezza con la politica. Non mi piace denunciare; guardo i fatti, non i colori».

Forse alcune dinamiche ci sfuggono. Nondimeno, dalle parole degli autoctoni comprendi bene che Ostia è una terra vissuta, una periferia sui generis, che soffre per una profonda scollatura tra istituzioni e tessuto sociale. Ci si sente un po’ la Roma di serie B, abbandonata e isolata, come prossima a cadere nell’oblio. Non si voglia  giustificare alcuno, però talune azioni  – illecite o meno – sembrano proprio la reazione di chi, in tal luogo, si sente ai margini, e fatica terribilmente a inserirsi nei consueti meccanismi della società. Si vive l’assenza di regole chiare come beneplacito a perseverare nel degrado, a uniformarsi agli standard di periferia.

E poi c’è chi, come tanti ragazzi, non accetta di adeguarsi allo status quo: sulla lotta studentesca congiunta, sulle voci di quanti discutono al di là dello schieramento politico, sui giovani che propugnano un’informazione vera e non distorta, su questo è necessario puntare. Adesso, senza indugio.

 

ALESSANDRO DI SERAFINO

 

Aggiungere qualcosa alla perfetta resa giornalistica della nostra esperienza ostiense fatta da Alessandro risulta un’impresa senz’altro ardua, se non titanica. Il mio rapporto con la cittadina di Ostia durante tutto il reportage è stato sicuramente molto intenso; cielo d’un raffinato bianco scarlatto, azzurro invernale d’un mare estremamente placido che si erge in mezzo a pontili fracassati e spiagge abbandonate, poche persone perse e con lo sguardo assente nella tristezza, casermoni semifatiscenti in laterizio d’un rosso senza vita: questi sono gli elementi principali che ci hanno accompagnato e che ritroverete nelle stupende foto di Olimpia. Per uno cresciuto a pane e Amore tossico e Non essere cattivo, in un certo senso è quasi manna dal cielo: eppure sembra che la stessa narrazione che facciamo di questi luoghi contribuisca a  plasmarne  un’identità quasi epicamente corrotta e degradata. In realtà, più realisticamente, non siamo nel Bronx anni ‘80, ma ci troviamo di fronte alla disillusa realtà criptocrimina le delle periferie romane, arricchita però dall’atmosfera surreale che si irradia dal lungomare che, tra Peroni scheggiate su ingressi di stabilimenti chiusi e una madre ed un bimbo che si tengono per mano guardando l’orizzonte invisibile, rappresenta l’ultimo baluardo del vivere ai confini di tutto.

 

JACOPO SORU

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