La cura dell’arte

Tra arte, scienza e storia, tre home-made reporters ci raccontano il murales di via Folchi, recentemente realizzato per lo Spallanzani. Può davvero un’opera del genere fungere da farmaco per l’anima?

 

 

Certo non si può dire che Via Folchi, zona Portuense, sia tra le strade più belle della capitale. Né tantomeno trasmette quella serena allegria che alcuni luoghi, indicibilmente, instillano in chi vi passeggia: da un lato si staglia imponente

l’ospedale, l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive (INMI) “Lazzaro Spallanzani” , immerso in una quiete placida e frenetica all’un tempo, con un silenzioso via vai di medici e visitatori a far la spola da un padiglione all’altro; dalla parte opposta, un muro infinitamente esteso macchiettato di graffiti e scritte verniciate, su uno sfondo sbiadito e asettico. Non il massimo della vivacità, ecco.

Dirimpetto a quel muro ce n’è un altro: fino a pochi giorni fa era anonimo come il suo gemello. Lo guardi ora, a distanza di un paio di settimane: un’opera di 810 metri quadrati circonda lo Spallanzani per celebrarne gli ottant’anni, mettendo in risalto i volti di tredici

scienziati e ricercatori che hanno lasciato il segno nello studio delle patologie infettive. Il colore ha una forza prorompente, le forme sprigionano vitalità, come se ci parlassero dal vivo; eppure l’apparente dissonanza con l’ospedale adiacente permane, perché sembra strano che una tale esuberanza espressiva possa contemperarsi al dolore di chi, proprio lì, lotta per la vita. Per il curatore del progetto Matteo Colavolpe e la sua équipe di artisti, invero, l’obiettivo ultimo del lavoro è creare armonia tra quel che c’è dentro e quel che c’è fuori, quasi che il murales possa aiutare e ben disporre il paziente che soffre,infondendogli fiducia e tranquillità. Incontriamo Matteo un martedì mattina di aprile, proprio in via Folchi. T-shirt scura, occhiali da sole, la bambina sulle spalle e il cane al suo fianco: si presenta da subito come un uomo spigliato, alla mano, estraneo a ossequiose formalità. «Vedete quei volti lì?», ci dice, «Bene, noi non sapevamo neppure chi fossero». Difatti, come ci spiega, la selezione è stata operata dalla dirigenza dell’Istituto, e a ben vedere lo scopo è proprio quello, far conoscere ai più nomi e meriti di persone altrimenti destinate – ingiustamente – all’oblio. «Abbiamo voluto realizzare un’opera urbana che donasse qualcosa alla città, riqualificando il territorio», continua Matteo, «perché ci sono strade e persone che hanno tanto da raccontare». Quella portata da pochissimo a termine (come abbiano fatto in soli cinque giorni, solo tre persone, Dio solo lo sa) era una delle tre proposte vagliate: alla fine la scelta è ricaduta sullo stile «un po’ futurista» di Kiv, sul lettering d’impatto di Daniele Tozzi e sull’origina le rappresentazione dei volti di Gregorio Pampinella, proveniente – come gli altri – dalla scena dei graffiti. Il gruppo cui fanno riferimento, Graffiti Zero, nasce da un garage abbandonato al Quadraro, recuperato per farne uno spazio di confronto e di dibattito. «La nostra idea», ci racconta Colavolpe, «è quella di proporre un approccio all’intervento artistico che non si limiti a un discorso estetico, a un abbellimento fine a se stesso; questo è un primo esempio di collaborazione tra istituzioni e realtà underground a fini culturali, d’informazione, e ne siamo orgogliosi». Del resto – come non essere d’accordo – «prima via Folchi faceva cagare; abbiamo cercato di costruire un dialogo urbano e, quando bello e utile si sposano, allora vinci».

Oggi l’arte moderna è spesso fraintesa, si fatica a comprenderne le potenzialità, non sempre piace. Non s’intuisce la cultura che c’è dietro, a tanti pare tutto uno scarabocchio o uno schizzo senza senso: dove la forma è bella, mancherebbe il contenuto; dove è chiara l’idea, lo stile lascerebbe a desiderare. Ecco, il capolavoro in questione si presta a contraddire anche i più agguerriti detrattori. È infatti riproposto quel miscere utile dulci di oraziana memoria: si vuole far conoscere i grandi della ricerca in campo medico, è vero, ma anche semplicemente rendere più piacevole l’attesa alla fermata del 710, o la passeggiata col cane la mattina presto. Mentre ne parla, Matteo difende strenuamente gli interventi di urban art di cui è sostenitore, rivendicandone ampi margini d’autonomia: «Vogliamo imparare a gestire la nostra attività, non a farci gestire». Sapere che vi è chi apprezza tali tentativi non può che essere un incitamento a continuare: lo Spallanzani sarebbe impazzito per l’opera tutt’intorno alla struttura, tanto da battersi per l’acquisto delle vernici e persino per il divieto di sosta in favore degli artisti. Mica male. Sul murales campeggia, d’un blu intenso, lo slogan “Lessons from the past, challenges for the future”: quasi un monito silente, in cui memoria e speranza, commiste, sembrano rivolgersi a noi all’unisono. Tutti quei volti paiono candidarsi a portavoce di una visione ciceroniano-machiavelliana quantomai attuale e propositiva: quella di una historia magistra vitae che, sottoponendo all’uomo l’esame degli eventi passati, gli offre sempre la possibilità di far tesoro di quei modelli, traendone insegnamenti e rinnovandoli alla luce del presente. È un po’ come se Fleming o Jenner parlassero direttamente con noi, instaurando un dialogo metatemporale tale da unire, nella spinta al progresso, vecchie e nuove generazioni. E pensare che, intanto, non siamo certo rimasti a guardare. Proprio qui, nel 2015, è stato curato il primo paziente italiano affetto da Ebola, un infermiere di Emergency che aveva contratto il virus in Sierra Leone. E i risultati sono stati notevoli. A ora di pranzo il sole è a picco, e sul viale si avverte un brulicare di vita più denso e meno sporadico di prima. Decidiamo di sfidare un eventuale colpo di calore (se non avessimo avuto l’ospedale a due passi, con ogni probabilità avremmo desistito) e, risalendo il viale, ci avviciniamo all’ingresso dello Spallanzani.

Sorprendentemente, sono pochi i medici ad aver notato la hall of fame della scienza all’esterno. Non tutti, per di più, ne condividono l’utilità: «Una botta in testa ti sensibilizza, non certo un’opera del genere», ci dicono due giovani biologhe, «però, ad esempio, una stanza colorata, o alcune mostre di disegni che qui organizzano, rendono l’ambiente più gradevole e possono aiutare il paziente». Dello stesso avviso Raimondo Lutzu, infermiere del contiguo San Camillo: «Il murales in sé è una stronzata: con quei soldi si potevano comprare antibiotici, tavolini, dicerto questo non migliora le cose». Pungente e rassegnata la chiosa finale: «Comunque oggi non ho molta speranza: i medici lavorano spesso a fini economici, non per un reale contributo alla causa».

Sull’enorme dipinto di Graffiti Zero, quindi, ciascuno la pensi come crede. Resta il fatto che uno spazio ospedaliero grigio e cupo, se reso accogliente e vivo da un intervento artistico, può rendere più lieta e serena la permanenza. Quel luogo freddo sembra così scaldarsi e abbracciare,disponendolo favorevolmente,coluichevi accede. Magari sono percezioni inconsce, ma a volte si fanno largo, silenziose, nei meandri della sensibilità umana. A volte, sia chiaro. «Io mi occupo di arteterapia; ritengo che il murales dia un aspetto più accogliente all’ospedale, ma tutto qua», ci spiega una signora sulla sessantina alla fermata dell’autobus, «non pensate che possa aiutare al 100%, perché quando ti succede qualcosa di brutto non stai a guardar questo». Del resto, se ci sollevasse da ogni preoccupazione, sarebbe un incantesimo favoloso.

C’è poi un filo sottile che unisce l’opera e la ricerca medica. Arte e scienza, del resto, sono sempre state profondamente legate, nel bene e nel male: fu un chimico francese, Chevreul, a influenzar e impressionisti e postimpressionisti con le sue leggi sul colore; se oggi, ad Assisi, le tonalità della “Crocifissione” di Cimabue sono quasi invertite in negativo, è per l’ossidazione della biacca delle gradazioni chiare; per non parlare del carbonio-14, decisivo in campo archeologico. D’altra parte, fu Leonardo a occuparsi di studi anatomici, mostrando un interesse nuovo quando le fotografie non ancora esistevano. Così oggi, perché no, un murales può assurgere a celebrazione e stimolo degli studi scientifici, con il mero potere seduttivo che sprigionano forme e colori.

Certo, non serve essere medici o eruditi plurilaureati perapprezzareundipinto: lasuacaricaèemotivaprima ancora che didascalica, e non ha, in fondo, destinatari privilegiati. Se davvero è un potentissimo farmaco, capace di curare l’anima e alleviare le pene, allora può far bene anche al senzatetto disperato che dorme lì accanto, o al bambino che corre in bici la domenica mattina. E può far bene alla città, chiamata a restituire un’identità a vicoli abbandonati e angoli dimenticati. «Il murales l’abbiam visto nascere, è fantastico», ci

rivela un passante con la figlia in via Folchi, «devolvere qualche piccola somma per questi progetti non può che essere positivo». «Bravi! Bravi! Bravi! Guardate che bellezza», gli fa eco un signore anziano che, questa zona, la conosce sin da ragazzino, «speriamo solo che qualche fijo de ‘na mignotta non lo sporchi: basta poco, tiri un barattolo…». Ci toglie le parole di bocca.

ALESSANDRO DI SERAFINO

 

 

Dal nulla, un’esplosione di vita. E la via che percorri quotidianamente diventa d’un tratto imprevedibile , stupefacente, un piccolo mondo dotato di energia propria che prima non esisteva. Ora ci passi e quasi ti senti parte di una realtà che – a pensarci bene – in fondo era solamente repressa sotto la rozza incuria di quella serie grigia e anonima di mattoni disposti l’uno accanto all’altro, ricoperti sporadicamente dalle solite scritte con cui qualcuno che preferisce un’alternativa più diretta e incivile a Tumblr esprime la propria nobile creatività: sotto questa irritante scorza, propria dei muri di tutta la città, c’è l’anima di Roma, quella più intima e profonda, quella che sembra dirci “io ancora (r)esisto”, quella che sembra ancora volere comunicare e trasmettere qualcosa – perché lei sì che ne ha viste e vissute tantissime. A me piace pensare che proprio dei graffitari si siano erti a medium creativo per riportare alla luce storie e personaggi che, in fondo, erano intrinsecamente già lì e aspettavano solo di venir tirati fuori da un involucro grigio e banale. Roma sa. E via Folchi è un grande esempio di come amministrazione pubblica ed eccellenze artistiche locali possano collaborare per rendere le strade dell’Urbe di nuovo vive e ascoltate. Hai capito, Virginia?

ALESSANDRO IACOVITTI

 

 

La prima volta che ho visto sul muro di via Folchi i disegni preparatori tutto avrei immaginato meno che, passando in quello stesso punto solo due giorni dopo, mi sarei trovato di fronte a qualcosa di così imponente. Era una mattina cupa, opaca, l’aria smunta. L’inconfondibile rumore del motore del 710 sovrasta la rilassante musicalità con cui cerchiamo invano di trovare la quiete in quei venti minuti che ci separano da un continuo affaccendarsi senza meta. La pesantezza delle otto di mattina piomba sulle nostre membra, e sembra non esserci via di scampo. Poi volto lo sguardo fuori dal finestrino, e tutto d’un tratto prende forma il gigante di marmo: un’esplosione di colori che penetra dentro di noi, un perpetuo flusso di perfezione che ridesta l’animo assonnato, un caleidoscopio che ci provoca un timido sorriso. E così, in una realtà urbana in cui è sempre più complesso ritagliarsi uno spazio di armonia, il potere dell’arte è quello di dare respiro a una città che annega e farci evadere, per qualche istante, nel quieto mondo della pace.

ANDREA SATTA

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