Monthly Archives: ottobre 2014

L’Ebola è un castigo divino?

Ebola. Sembra una di quelle parole che dicono i bambini, prima di imparare a parlare, vero?

Del resto, le lingue sconosciute che udivano i civilissimi Europei quando sono andati là, non sembravano forse dialetti barbari, versi di animali, o se andava bene, di bambini?

Ebola è il nome di un fiume nell’ex Congo Zaire. E’ sulle sue rive che per la prima volta, nel lontano 1976, si è manifestato il virus che porta lo stesso nome.

Ebola è un nome che sembra portare, con il suo suono, la crudeltà, il terrore e il mistero di quelle impenetrabili foreste da cui è emerso. Potrebbe sembrare che la sua apparizione sia semplicemente una disgrazia, un capriccio del destino. Ma non lo è: come ogni altra cosa l’Ebola non è scaturita dal nulla, ma è la conseguenza di qualcos’altro. E di che cosa? La nascita vera e propria del virus si nasconde nella nebbia delle mutazioni genetiche, ma motivi per cui questo virus si è manifestato ci riguardano un po’di più. Anzi, molto di più. Proviamo ha descrivere la concatenazione logica dei fatti. C’è bisogno di una pilloletta (chiamiamola così) di storia: nei secoli scorsi l’uomo bianco giunge in Africa, e vi trova le risorse di cui la sua società in costante crescita necessita per svilupparsi sempre di più. Vi trova anche delle popolazioni decisamente non in grado di resistere ad una sua invasione, a lungo andare. Decide così di assumere il controllo diretto di tali risorse, e quindi anche di tali popoli. Anche dopo che è finito il dominio politico europeo in quelle terre, è rimasto il dominio economico straniero, quello delle compagnie ora non più solo bianche, ma di tutti i paesi ricchi. E il fine ultimo del dominatore straniero è rimasto lo stesso: sfruttare le risorse che è venuto a prendersi. Per fare questo bisogna portare “civiltà e progresso” capillarmente in un territorio fino ad allora quasi mai toccato dall’uomo: questo significa invaderlo con opere artificiali e con uomini, e di conseguenza moltiplicare i punti e i momenti di contatto con il territorio stesso. In questo caso il territorio era costituito da magnifiche, splendide foreste pluviali. Che vengono spazzate via, (al danno ambientale pensiamoci le altre 23 ore della giornata, non adesso) per far posto mano a mano a miniere, qualche fabbrica, e soprattutto campi, campi sterminati in cui viene coltivato tutto quello che serve all’uomo ricco e che di solito non può coltivare nel proprio paese: banane, caffè, cacao, tabacco, cotone.

Ma anche grano, patate e frutta per i suoi paesi sovrappopolati (l’Italia, tanto per fare un esempio, copre solo circa la metà del suo fabbisogno alimentare con produzione propria).

Ah, quindi ad un ambiente naturale se ne sostituisce un altro! E allora cosa accade? Alcuni animali che abitavano il precedente ecosistema non si adattano, ma altri si.

E anche gli animali hanno i loro parassiti, i loro batteri e i loro virus, non è così? Gli uomini, che un tempo con questi animali entravano in contatto ogni morte di papa, adesso lo fanno quasi quotidianamente! Dopo che questi incontri si succedono per anni e anni, è fortemente improbabile che qualche virus non passi agli esseri umani. Molti sono innocui, qualcuno è poco più di un influenza, ma, giorno dopo giorno crescono le probabilità di incontrarne uno mortale. Come l’Aids. O come l’Ebola.

Come se la foresta si prendesse la sua vendetta. Ora il vendicatore è un aggraziato essere notturno, un volatore dell’oscurità, dall’aspetto che di solito si definirebbe mostruoso, ma che io trovo affascinante. E’ un pipistrello. Per la precisione un pipistrello della frutta. In alcuni individui delle sue tante specie (quelle esatte ancora non sono state identificate con certezza) l’Ebolavirus prospera senza dare sintomi. Un tempo questo animale percorreva gli spazi fra gli intricati alberi nel profondo della giungla. Ma ora la giungla non c’è più, e il cibo è nelle grandi piantagioni di quelle strane creature bipedi, dove le piante sono tutte uguali, ma le vivande sono abbondanti e appetitose. Al crepuscolo, i nostri divoratori di papaye e banane si fiondano felici sui campi coltivati. Gli agricoltori non gradiscono e le tentano tutte per scacciarli. Alcuni li uccidono e, per curiosità o per necessità, li mangiano. Pare che in alcuni luoghi, prima dello scoppio dell’epidemia, fossero sulla buona strada per diventare un piatto tradizionale. Si ha anche notizia, sempre risalente a quel periodo, di un bambino morso da un pipistrello, e che potrebbe essere stato il paziente zero. Fatto sta che il virus inizia a fare strage degli uomini. Non è la prima volta che accade: ci sono state altre epidemie. Ma finora si era trattato di comunità isolate nel cuore dell’ambiente tropicale, annientate  così rapidamente da non aver avuto il tempo di contagiare nessuno. Tuttavia, con il passare del tempo, era sempre più probabile che il virus colpisse un’area discretamente popolata, come le zone rurali di Guinea, Sierra Leone e Liberia. E l’uomo ricco, che è stato colui che ha fatto sì che quelle aree ad alto rischio si popolassero, per grettezza, per miopia e per egoismo, non ha pensato di proteggerle con un sistema sanitario moderno, che, per essere all’altezza di un compito così duro, doveva essere addirittura migliore di quello di un paese civilizzato.

Le modalità di trasmissione da uomo a uomo del virus sembrano essere fatte apposta per colpire e distruggere una società povera, con poca copertura medica e con scarso livello di igiene, e tendere invece a risparmiare una società come la nostra. L’Ebolavirus per fortuna (come quasi tutti quelli della sua famiglia) non è in grado di trasmettersi per via aerea, ma solo per contatto diretto con alcuni fluidi corporei, come urine, escrementi, sangue, o con carcasse infette. Provate a immaginarvi come siano molte zone dell’Africa, e le conseguenze saranno chiare. I morti e i contagiati in quei tre paesi sono ormai migliaia.

Io non sono uno scienziato e neanche uno storico, e nemmeno ho toccato con mano quello che sta accadendo, come tante persone che hanno avuto il coraggio e la possibilità di agire e di andare a combattere lì. Questo è solo il modo in cui ho cercato di spiegarmelo, sforzandomi di essere più oggettivo possibile. Da Roma, si può solo intravedere il riverbero di cosa sta accadendo in quella parte di mondo, quel raggio di luce che, nella poesia dell’immenso Leopardi, attraversa la siepe e ci fa sognare.

Le immagini e i pensieri di questo riverbero fanno provare meraviglia: paesi bellissimi, in cui una semplice fosso divide caotiche città da una natura ancora lussureggiante. Chi era già stato là altre volte ci dice che fin da subito, quando atterrano nelle capitali si nota qualcosa di diverso: il nervosismo. Un panico diffuso, soprattutto nelle zone sicure. Le città sono ancora più caotiche del solito. Un caos, come ha fatto notare amaramente qualcuno,  febbrile. E avvicinandosi alle periferie, si sente un suono dapprima indistinto, poi sempre più intenso: i canti funebri e le preghiere di gruppo che si succedono ininterrottamente. Per fortuna l’Ebola non è come la peste, altrimenti sarebbe la fine. I villaggi sono una successione di capanne, piccoli palazzi, boschi e piantagioni. E centri sanitari: tende ermetiche o edifici isolati. Sono centri internazionali, frutto degli sforzi di alcuni paesi avanzati e di alcune tra le poche ONG efficienti, come MFS o Emergency. Sono volontari stranieri che si avvalgono anche di volontari autoctoni. La sanità locale, priva di mezzi e conoscenze, è collassata al primo colpo, e i pochi dei suoi medici si sono salvati.

E’ qualcosa di irreale vedere quegli uomini in scafandri bianchi immacolati, vedere la tecnologia e i display luminosi dei loro strumenti a poca distanza dalle turbe di gente povera e inquieta. Sembrano alieni. Sembrano calmi, sicuri di sé e del loro futuro, in mezzo a quelle persone sudate, che non lavorano più perché non sono più in grado di pensare ad altro se non all’epidemia.

Ebola è una parola leggera, soffice, apparentemente senza senso, al punto da sembrare l’inquietante lamento di un folle. E di sicuro non è solo il corpo degli uomini che colpisce, ma anche le loro menti.

E’ devastante in un ambiente caratterizzato da ignoranza, superstizione e ingiustizie. Il responsabile del perché l’ambiente sia così, agli occhi di chi lo abita, non possono che essere i governi locali, lontani dalla popolazione e tirannici quando si tratta di spremerla, prepotenti e corrotti, portatori di guerre civili e mai di benessere. E quello che ora accade sembra tratto da un libro di Marquez, maestro nel rappresentare la pazzia dei pazzi e delle persone cosiddette normali: molti pensano che l’Ebola sia un complotto del governo per togliere di mezzo, con il veleno, gli avversari politici e i poteri locali che li ostacolano, avvelenando anche la popolazione, o come copertura, o perché schierata contro di loro. E per fare questo avrebbero chiamato i loro misteriosi alleati occidentali, quelli che girano per le strade con quegli inquietanti scafandri bianchi, con quegli strumenti angoscianti e mortali, per ungere la gente. E’ una reazione istintiva, alla rabbia per i soprusi subiti e per la miseria in cui si vive, alla paura della morte e del diverso. Molti medici sono stati attaccati e le loro attrezzature distrutte, e a metà settembre, in Guinea, un team di otto volontari è stato massacrato mentre cercava di illustrare le norme di prevenzione, sentite della gente come le menzogne propagandistiche dei propri nemici e assassini. E non è tutto: molti sciamani del luogo, con un gran seguito, quando non sostengono la tesi del complotto, dicono che l’Ebola è uno spirito del male, al quale nemmeno loro possono rimediare. Affermano che in ogni caso, visto che negli ospedali si muore comunque, è meglio stare proprio letto, circondati dai propri cari. Togliendo così ogni ostacolo al virus.

Anche i malati di Ebola, nei centri sanitari, stanno in scafandri pressurizzati, questa volta trasparenti, con appositi tubi a tenuta stagna per far passare le attrezzature mediche. Sembrano ingoiati da strani insetti sconosciuti, con molte zampe. I volontari raccontano che è straziante non poter usare il contatto fisico per confortare i pazienti. Lì si combattono battaglie con piccole probabilità di vittoria. La malattia incuba in una ventina di giorni, durante i quali non si è contagiosi. Quando si manifesta sembra un’influenza, con febbre e dolori. Poi però sopravvengono vomito ed edemi, e una sofferenza intensa e costante. Infine, nella maggior parte dei casi, arriva la febbre emorragica. Si sanguina anche all’esterno, ma soprattutto all’interno, negli organi. La morte è una liberazione, e può sopravvenire o per disidratazione (che è l’unica che finora si è in grado di affrontare) o per i danni agli organi interni. Appena un terzo dei pazienti curati ce la fa, e sarebbero molti di meno senza le terapie di sostegno ( la storia di James Kollie è da leggere). I nomi dei vaccini in sperimentazione sono fantascientifici: ZMapp, Chad3. Ma ancora non sono utilizzati sul campo.

L’Ebola è un castigo divino? Sembra di no. Molte colpe sono sicuramente dei paesi avanzati, quelli dove la malattia non sembra che abbia le caratteristiche per potersi diffondere. Almeno non nel fisico. Nelle menti la follia sta già arrivando. Come è noto, per ottenere il consenso la maggior parte dei politici non esita a far leva sugli istinti della gente e sulle paure degli ignoranti. Molti sono convinti che gli odiati migranti porteranno l’epidemia in Italia e in Europa, arrivando a Lampedusa, a meno che il governo non li fucili tutti o per lo meno li rimandi indietro. Tuttavia, a parte il fatto che i paesi colpiti sono marginali rispetto alle rotte migratorie, basta documentarsi per capire che il Sahara è una barriera quasi insormontabile: anche se l’incubazione è lunga, il viaggio dalla Guinea (la più vicina a noi) alle coste del Mediterraneo, lo è molto di più. La malattia si manifesterebbe in pieno deserto, prima della metà del viaggio, uccidendo in pochi giorni il malato e l’intero gruppo con cui si sia messo in viaggio. Il Sahara non si attraversa in legioni di gente, ma in piccoli gruppi, e come è accaduto nei villaggi sperduti nelle precedenti epidemie, sarebbero isolati. Il virus morirebbe con loro. Un migrante, per portare l’Ebola da noi, dovrebbe contrarla in un paese mediterraneo, e questo è impossibile, perché non ci sono le condizioni ambientali. Inoltre, per le sue modalità di contagio fra uomo e uomo, la nostra società è troppo pulita. Ma a Fiumicino, a una bambina che era stata in Uganda (lontano migliaia di chilometri dall’epidemia) è stato impedito di entrare a scuola dai genitori dei suoi compagni. Una cosa che spero si commenti da sola.

Non penso nemmeno che l’Ebola possa essere la nuova Aids: questa infatti, per uccidere impiega mesi, ora addirittura anni, nei quali si è contagiosi. L’Ebola invece pochi giorni.

Questo pericolo sembrerebbe dunque essere remoto, lontana dai “colpevoli” paesi ricchi, flagello di popolazioni meno sviluppate. Ma non è così. Gli sforzi della comunità internazionale per isolare l’epidemia in alcune sacche ben definite si stanno dimostrando per nulla sufficienti, così come quelli per scoprire una terapia specifica. Come ha detto Gino Strada, è possibile che essa arrivi da noi. Non nei barconi, ma in prima classe. Negli aerei. Non attraverso i medici volontari, che vengono riportati in patria per essere curati: c’è troppo controllo.

Più probabilmente attraverso uno dei tanti uomini d’affari che si recano nelle aree  cosiddette sicure in quei paesi per monitorare le loro compagnie. A quel punto potrebbe davvero sembrare una vendetta divina. Ma continuerebbe ad essere l’effetto di una causa. Curiosamente, mi viene da pensare alle parole dell’Agente Smith in Matrix, rivolto a Morpheus: “Ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate, finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura.”

Forse un’epidemia sarà davvero il prezzo che i paesi ricchi pagheranno per la loro prosperità, basata sull’impoverimento di quelli più poveri. Ma se accadesse non sarebbe per un disegno superiore, ma la conseguenza delle proprie debolezze. Con scarsa lungimiranza si sono create le condizioni perché una simile epidemia si verificasse, e con scarsa lungimiranza si potrebbero non adottare le misure perché arrivi da noi. Che non sono solo controlli e quarantene, ma anche dotare quei paesi delle armi per combattere le loro malattie, varie e terribili, e di un’economia sostenibile che diminuisca le possibilità di entrare in contatto con esse. Anche a prezzo di impoverirsi per realizzare tutto questo. Altrimenti, con il passare degli anni, aumenteranno sempre di più le probabilità che emerga un nuovo virus, magari più aggressivo e più contagioso dell’Ebola. Che arriverebbe da noi attraverso gli aerei, perché bisogna controllare i migranti.

Forse l’Ebola è un messaggio divino, un ultimo avvertimento. Forse vuole dire alle nazioni civilizzate: “Colpisco quelli che voi non difendete. Continuate a fare così, e prima o poi qualcosa troverà la strada per colpire anche voi”.

Speriamo che sia chiaro…

ALESSANDRO VIGEZZI

Da vedere: gli interventi di Gino Strada a Servizio Pubblico  https://www.google.it/?gfe_rd=cr&ei=RU9mVMG6CMOO8QeDzYDwBw&gws_rd=ssl#tbm=vid&q=intervento+di+gino+strada+a+servizio+pubblico+ebola+novembre+2014 il primo risultato:


La violenza non è un gioco

Napoli, qualche settimana fa. Un quattordicenne si trova in un autolavaggio per far pulire il suo motorino, e viene preso di mira dai tre lavoranti del posto, che lo prendono in giro per la sua obesità chiamandolo “ciccione”, e ridendo di lui. A un certo punto uno dei tre ragazzi, di ben ventiquattro anni, sotto gli occhi divertiti degli altri due impugna un tubo collegato a un compressore, si avvicina al ragazzino, e tiratogli giù i pantaloni gli riempie l’intestino con i potenti getti d’aria emessi dal compressore. Nel frattempo,  gli altri due ragazzi, invece di fermarlo, lo filmano con il telefonino, per poi postare il video su Facebook. Un episodio assurdo, al limite della barbarie; non saprei chiamare in altro modo, se non barbaro, qualcuno che compie un gesto del genere. Ma quello che trovo più agghiacciante, e anche allarmante, è che i colpevoli non si siano davvero resi conto della gravità di quello che hanno fatto, e con estrema leggerezza abbiano definito l’episodio uno “scherzo finito male”, un “gioco”. Come se fosse normale considerare un gioco prendere in giro un ragazzino di quattordici anni per il suo aspetto fisico, e umiliarlo davanti a tutti; come se avesse senso puntare un compressore contro lo stomaco di una persona e sperare che questo non abbia conseguenze su di essa, come se si avesse a che fare con un fantoccio: e forse davvero consideravano il quattordicenne niente di più che un pupazzo, un diversivo in un pomeriggio noioso, e volevano provare che effetto avrebbe fatto su di lui una cosa del genere, come si fa con una cavia da laboratorio; del resto, un essere così ripugnante non può provare dolore, non merita di provarlo, giusto?

Non ha senso. Un fatto del genere non può e non deve essere considerato uno scherzo. Qui non c’è nessun gioco, ci troviamo di fronte a un episodio di discriminazione e di violenza; e, per di più, si tratta del peggior tipo di violenza, quella collettiva, di un gruppo, un “branco” che se la prende con il debole, e che trova nella violenza un modo per sentirsi più forte; come se poi tre ragazzi, anzi, tre uomini di ventiquattro anni potessero davvero trovare soddisfazione nel sentirsi più forti di un ragazzino di quattordici anni, solo e completamente indifeso.

Non è forza, è vigliaccheria. Vigliacco è colui che ha compiuto quel gesto; vigliacchi gli altri

 

due, che hanno riso di gusto davanti a quell’orrore, chissà se per convinzione o per circostanza, per senso di appartenenza o per stupidità (o forse per tutte quante queste cose); ma sono vigliacchi anche quelli che sminuiscono fatti come questo, che fanno finta di non vedere, che si stupiscono e magari inorridiscono anche davanti agli episodi più gravi, ma poi, nel loro piccolo, non fanno niente per cambiare le cose e continuano a sottacere le piccole o grandi violenze contro i deboli che hanno sotto gli occhi tutti i giorni, rendendosi complici di una collettività che continua a considerare tutto questo un “gioco”.

Ecco, spero che chi sarà chiamato a punire questo reato non solo non lo consideri un gioco, ma al contrario lo punisca con grande severità, in modo che nessun altro, un domani, possa ancora pensare di scherzare in modo tanto barbaro.

 

  ALICE BERTINO

Considerazioni sulla propria idea di Dio

“Lasciando da parte la logica, trovo strano si possa pensare che una divinità onnipotente, onnisciente e benevola abbia preparato il mondo da nebulose senza vita. Io sono fermamente convinto che le religioni, come sono dannose, così sono false. Si ritiene virtuoso credere, avere cioè una convinzione che non tentenna di fronte a evidenze contrarie, e se l’evidenza contraria fa sorgere dubbi, ritenere di doverli sopprimere. Tutto ciò ha sempre predisposto l’umanità e la predispone ancora ad una guerra micidiale.

La convinzione che è importante credere questo o quello senza ammettere libere indagini, è comune a quasi tutte le religioni, e ispira tutti i sistemi di educazione. Il mondo che io auspico dovrebbe essere libero da faziose incomprensioni, e consapevole che la felicità per tutti nasce dalla collaborazione e non dalla discordia. L’educazione dovrebbe mirare alla libertà della mente dei giovani, e non al suo imprigionamento in una rigida armatura di dogmi destinati a proteggerla, nella vita, contro i pericoli dell’evidenza imparziale. Il mondo necessita di menti e di cuori aperti, non di rigidi sistemi, vecchi o nuovi che siano.”

Estratto dalla prefazione di “Perché non sono cristiano” di Bertrand Russell.

 

Lasciando da parte ogni criterio parziale, trovo strano che il filosofo premio Nobel Bertrand Russell sia stupito, come dichiara nell’incipit della sua opera, del fatto che l’uomo possa credere ad un Dio onnisciente creatore ed ispiratore dell’universo.

Chi parla di uomo parla di Dio, e chi parla di Dio parla dell’uomo. Non perché Dio si possa considerare solo come un prodotto dell’uomo, un’idea della sua mente, ma perché l’uomo è quella parte dell’Essere che non solo partecipa dell’esistenza, ma ne indaga i fondamenti e le ragioni. L’uomo è, e si scopre dotato di un senso innato di Dio, del soprannaturale, del “di più”. La storia dell’umanità, fin dalle sue più primitive radici, è pervasa di senso religioso. Questa attitudine alla ricerca dell’origine del mondo e del perché finalistico della sua esistenza è forse la caratteristica più universale dell’uomo, che ci unisce tutti, se non nelle conclusioni, di sicuro nelle premesse. Dio è oggetto di fede, e come Tommaso d’Aquino afferma all’inizio della “Somma contro i Gentili”, “I principi naturali non possono essere in contrasto con la verità della fede, sebbene la verità della fede cristiana superi le capacità della ragione”. L’esistenza di Dio è indimostrabile ed innegabile, e se la verità scientifica non entra in contraddizione con essa, è anche vero che non può supportarla, perché la fede si muove aldilà del dimostrabile e del sensibile, diventando un fatto individuale.

Russell prosegue: “Si ritiene virtuoso credere, avere cioè una convinzione che non tentenna di fronte a evidenze contrarie, e se l’evidenza contraria fa sorgere dubbi, ritenere di doverli sopprimere. Tutto ciò ha sempre predisposto l’umanità e la predispone ancora ad una guerra micidiale.” Attraverso le tracce umane nella storia, e a volte ancora oggi nella mentalità di singoli individui o gruppi religiosi, è stata adottata la religione come mezzo conoscitivo, e ai testi sacri è stato attribuito carattere scientifico. E’ anche vero che la scienza e i suoi progressi hanno portato lentamente ad una nuova concezione della realtà, non più di tipo deterministico e sempre meglio organizzata nelle sue leggi. La religione nelle prime fasi dell’indagine umana ha fornito una sua risposta alle evidenze del mondo. Tale risposta è carica di dignità nel suo essere rudimentale, perché riflette il riconoscimento dell’uomo di una perfezione superiore. Tutto ciò non toglie che al giorno d’oggi sia assurdo reputare scienza e religione due alternative: i campi d’azione sono stati definiti e chi trova che la scienza sia in contrasto o metta in dubbio la propria fede, in effetti vive il suo credo in modo sbagliato. Il filosofo critica inoltre le guerre di religione. Ingenuo chi ancora sostiene che esistano guerre di religione, come anche di ideologia. I conflitti, oggi come ieri, mirano a finalità ben più materiali di tipo economico. Il motivo religioso, l’ideale, il sentimento, sono stati introdotti per eccitare gli animi di coloro che avrebbero ucciso e sarebbero morti per un vantaggio che non li avrebbe riguardati (perché per sacrificarsi è essenziale una ragione). L’uso della religione è stato strumentale. Sappiamo che molti sono i gruppi fondamentalisti che giustificano la violenza con la loro fede. Tuttavia ogni credo religioso, nella sua espressione più genuina, promuove la pace e la comunione tra gli individui attraverso il superamento delle differenze in nome degli obiettivi comuni fondamentali. Nel “Discorso della Montagna” Cristo parla dei veri cristiani come di “operatori di pace”.

Nell’ultima parte del suo discorso, l’autore accenna ai sistemi educativi in relazione ai dogmi religiosi, dichiarando che questi imprigionano e compromettono la “libertà della mente dei giovani”; egli auspica infine ad un mondo di “menti e cuori aperti”. Mi ha colpito molto una frase di Cesare Pavese, nel racconto “La casa in collina”. Il protagonista discute con una sua amica in merito alla scelta di quest’ultima di non far frequentare il catechismo al figlio. Egli dichiara che qualunque sia la scelta del genitore, questa è comunque un’imposizione. Infatti il bambino non sa decidere, e insegnarli o meno una dottrina religiosa è insegnargli qualcosa contro la sua volontà. Scrive l’autore: “E’ religione anche non credere in niente”. Russell si riferisce in modo sommario alla “libertà della mente”, ma cosa intende? Se si riferisce all’assenza di schemi e linee guida di pensiero, la libertà è impossibile. Qualsiasi tipo di educazione contiene inevitabilmente dogmi, in quanto durante l’infanzia tutta la conoscenza è percepita in modo dogmatico, indipendentemente dalla religione. Tuttavia le nozioni che si insegnano ai bambini non li limitano, in quanto potranno essere vagliate in età adulta e a quel punto accettate o rifiutate o meglio dimostrate. Il problema educativo è molto più esteso, dipende dall’impostazione con cui la cultura viene trasmessa dagli educatori. Qualsiasi tipo di conoscenza, se impartita in forma dogmatica e categorica, è un potenziale motivo di scontro e di crisi.

Dio e la fede sono per me un’esperienza viva ed incessante, una verità che ho bisogno di confermare ogni giorno e di arricchire attraverso l’interrogativo, il confronto, la ricerca dentro e fuori di me. Credo innanzitutto nell’importanza della dimensione spirituale come estrema realizzazione della mia esistenza umana e come affermazione profonda della mia identità.

 MARIA VITTORI

 

Sin City: una donna per cui uccidere

Nel 1991 Frank Miller, autore di massima importanza all’interno del panorama fumettistico internazionale, conosciuto per aver rinnovato personaggi come Batman e Daredevil e per aver scritto la graphic novel di 300, dà vita all’universo narrativo di Sin City. E da qui fino al 2000 ha approfondito questo universo dando una ventata d’aria fresca al genere noir e scolpendo nella mente di ogni buon appassionato di fumetti dei personaggi, delle storie e uno stile grafico molto caratteristici, per non dire unici.

(Scene tratte da “That Yellow Bastard”)

 

Nel 2005 Robert Rodriguez convince Miller a realizzare una trasposizione cinematografica di Sin City, che vede la luce anche grazie collaborazione di Quentin Tarantino e che riesce tanto a coinvolgere lo spettatore medio quanto ad esaltare i fan del fumetto grazie all’impatto visivo e alla narrazione identici all’opera cartacea. Da Sin City: una donna per cui uccidere, il secondo capitolo cinematografico nelle sale dal 10 ottobre di quest’anno, non ci si aspettava niente di meno e, anzi, gli episodi inediti promessi accrescevano l’hype, pur sollevando il timore che questo film non avesse  la qualità dei lavori precedenti. Potete quindi immaginare il nostro stato dall’uscita del trailer all’entrata al cinema, in quanto fan della saga quali riteniamo essere. Siamo rimasti delusi? Nah…La prima cosa molto buona è che il film, un noir anch’esso strutturato a episodi, nonostante qualche piccola cosa che non ci è andata giù, come ad esempio il ritmo un po’ lento nell’episodio principale, è reso assai simile al fumetto grazie a scelte narrative, grafiche e di inquadratura. Ma spieghiamoci meglio: il disegno di Miller, come già detto, è molto particolare, e la pellicola cerca quanto più di avvicinarcisi, riuscendoci appieno. È dunque lui, Miller, ad aver la maggior parte del merito avendo disegnato, dato che l’episodio principale è la trasposizione praticamente perfetta della controparte su tavole. E gli episodi inediti riescono a rispecchiare lo stesso stile, quello di un bianco e nero in cui il primo ha la sola funzione di esaltare il secondo dando vita a meravigliosi giochi di ombre e luci. A lui va anche il merito di aver caratterizzato quei personaggi che incontriamo e di averli inseriti in storie avvincenti e significative che analizzano nel profondo la realtà di Basin City (il vero nome di quella che poi è stata chiamata ufficiosamente Sin City dai suoi abitanti), vera protagonista delle vicende. Infatti i personaggi non sono altro che pedine che seguono le regole del gioco sporco e scorretto imposto dalla città stessa (metafora della partita a poker su cui si basa uno degli episodi): è lei che corrompe i suoi abitanti e “chi non corrompe insudicia”, plasmando i tipi umani presentatici nel corso della visione. Abbiamo perciò un senatore Roark, che è l’archetipo della corruzione e nelle cui mani si concentra il potere, una Ava che è la classica femme fatale e che approfitta del contesto per corrompere a sua volta, un Johnny che tenta di sconfiggere le ingiustizie, una Nancy che, pur insudiciata, non si lascia corrompere, un Dwight che cerca la sua identità divisa tra bene e male non tanto ben distinguibili fra loro e poi gente come Marv, personaggio amatissimo dallo stesso Miller, che fa di questo piccolo angolo di inferno il suo ambiente ideale. Dunque Sin City è una visione esagerata e stravolta della corruzione che è presente in qualsivoglia ambito della vita umana ed è perciò un posto dove il male regna, ma anche dove, grazie ai valori personali dei singoli, c’è ancora una briciola di senso del giusto. In conclusione, sono riusciti Frank Miller e Robert Rodriguez dopo più di vent’anni a far rivivere un brand considerato esaurito e, con esso, a intrattenere spettatori nuovi e vecchi? Ci sentiamo di rispondere con un sì e siamo molto felici quanto soddisfatti di poterlo fare.

 FRANCESCO PASSARETTI

DAVIDE RUBINETTI

Quando una casa discografica crea un genere musicale

La Motown è un’etichetta discografica fondata nel 1959 da Berry Gordy Jr. con 800$ presi in prestito dalla famiglia. Il nome Motown deriva da Motor Town poiché Detroit era una città con moltissime fabbriche, industrie e ciminiere.

In pochi anni iniziò a vendere molti più album di qualsiasi altra casa discografica, non solo grazie ai grandissimi cantanti e musicisti con cui lavorava (tra i tanti Stevie Wonder, Diana Ross, Marvin Gaye o i Jackson 5), ma anche e sopratutto perché tra gli anni ’60 e ’70 divenne un vero e proprio movimento culturale. Infatti, il successo che crebbe in quegli anni era anche dovuto alle contemporanee proteste contro la discriminazione razziale, che portarono alla stesura del “Civil Rights Act” sotto John Fitzgerald Kennedy nel 1964, vietando così qualsiasi discriminazione razziale. Ciò che rese importante e sopratutto riconoscibile questa etichetta discografica è il marchio indelebile negli arrangiamenti, nel linguaggio con cui gli strumentisti e i cantanti scrivevano e suonavano i brani. Nonostante gli stili interpretati fossero molti, lo stile Motown si sente sempre. Probabilmente questa sonorità tipica, che negli anni ’60 veniva chiamata ” The Sound Of Young America”, è dovuta prevalentemente dagli strumentisti che erano sempre gli stessi, o quasi.

Quindi i medesimi chitarristi che suonavano con Stevie Wonder, lavoravano anche con Marvin Gaye o Diana Ross.

Gordy, prima di fare o produrre musica, aveva tentato di fare carriera in altri ambiti, tuttavia dopo aver conosciuto William “Smokey” Robinson, musicista e compositore dei Miracles, iniziò a scrivere canzoni. Successivamente proprio con Robinson iniziarono a cercare artisti per la nuova casa discografica. I primi musicisti che approdarono alla Motown facevano parte della classe povera e lavoratrice di Detroit e dintorni.

La prima hit pubblicata dalla casa discografica fu proprio una dei Miracles (“Shop Around”) nel 1960, dopodiché i primi artisti o gruppi a essere stipendiati dalla Motown furono le Marvelettes, Marvin Gaye e Mary Wells; nel 1961 Stevie Wonder firmò a 11 anni il suo contratto con l’etichetta discografica. Due anni dopo pubblicò la sua prima traccia, “Fingertips Pt. 2”, che rimase in vetta alle classifiche degli ascolti per diverse settimane. Già si intuiva la genialità del piccolo Wonder, che diventò uno dei più grandi artisti del ventesimo secolo, capace di suonare tastiera, batteria, basso, percussioni e armonica a bocca, ma sopratutto autore e cantante di alcune delle più belle canzoni della musica moderna. Durante gli anni ’60 e ’70 la Motown Records godette di moltissima fama e molte sono le canzoni e gli album indimenticabili che furono pubblicati. Nel 1971 Marvin Gaye pubblicò What’s Going On che venne celebrato come miglior LP Soul mai registrato e occupa il settimo posto nella classifica stilata da Rolling Stones “I Migliori 500 album della musica moderna”.

Nel 1988 Gordy cedette la sua casa discografica alla MCA and Boston Partners, sancendo così la fine della Motown Records come etichetta indipendente, e quindi anche di un’era. Oggi Motown è parte della Universal Music Group.

Motown Records, la casa discografica che aveva risposto con il R&B, il soul e il funk dei neri al rock ‘n roll, rockabilly e Hard Rock dei bianchi, creando un sound nuovo, innovativo e personale. Infatti il Blues dei neri, che colpì durante i primi anni del ‘900, venne rubato ed elaborato dai bianchi, che avevano il Country come musica popolare.

Case discografiche come la Sun, in cui militarono artisti del calibro di Johnny Cash e Elvis Presley, facendo scalpore negli anni ’50 con pezzi dal sapore nuovo: il rock ‘n roll. Lo stesso fecero anche molti gruppi musicali inglesi che interpretarono il blues più tradizionale, dando origine al “British Blues”, una versione europea del blues afroamericano, di cui sicuramente gli interpreti più famosi sono gli Yardbirds, in cui suonavano Jimmy Page e Eric Clapton, che fondarono subito dopo rispettivamente Led Zeppelin e Cream. Ovviamente la controparte nera a questi musicisti bianchi era rappresentata (tra i più celebri) da Chuck Berry, James Brown, Sam Cooke e dagli anni ’60 in poi anche e soprattutto dalla Motown Records e dai grandissimi artisti che la frequentarono.

Chi già conosceva la Motown, riuscirà ad apprezzare questo articolo rendendosi conto della genialità e della bellezza della musica prodotta da questa etichetta un tempo indipendente.

 

 

A chi invece ha letto e scoperto per la prima volta gli artisti nominati in precedenza, consiglio, se si vuole spendere un po’ di tempo, di accendere il computer, accedere a Spotify o Youtube e di ascoltare qualcosa di nuovo!

 

 

RAFFAELE VENTURA

 

 

Anche il calcio italiano è in crisi

Italia-Uruguay 0-1. Era l’ultima partita del girone, ci sarebbe bastato un pareggio per passare il turno al secondo posto, dietro al modesto Costa Rica che ha sorpreso tutto il mondo del calcio, noi per primi, pur con un gioco di squadra ultradifensivo. Invece la sfortuna o il solito errore in marcatura di Bonucci, ha permesso alla formazione uruguagia di vincere e sorpassarci in classifica grazie ad un colpo di testa dopo un corner nei minuti finali, facendoci uscire anzitempo dal mondiale in Brasile. Tutto questo per la cronaca. Non che meritassimo di andare avanti, anzi, per dirla tutta è stato anche meglio che sia andata così, viste le prestazioni impalpabili mostrate dagli “azzurri”,  caratterizzate da un infruttuoso possesso palla assai più somigliante all’esaustiva“melina” italiana anni ‘60, che al veloce “tiki-taka” spagnolo. Ma questa seconda figuraccia mondiale  è solo l’ultima in ordine di tempo di una serie di sconfitte sportive maturate in ambito internazionale dalle nostre squadre, che evidenziano come il calcio italiano sia in crisi profonda. Certamente è giusto che si diano le colpe della sciagurata spedizione alle scelte tecniche  di Prandelli o all’inutilità in campo di Balotelli, ma le cause del fallimento italiano sono radicate nel sistema calcio nazionale. Negli ultimi 10 anni il nostro campionato ha perso ben tre posizioni nel ranking Fifa passando dal secondo posto al 5° con conseguente perdita di un posto in Champions League. Il ranking Fifa mensilmente aggiunge punti  alle nazioni in base ai rendimenti  delle squadre europee in Champions ed Europa League. E qui i numeri sono impietosi. Le squadre italiane negli ultimi 7 anni hanno raggiunto solamente 3 volte le semifinali di queste due manifestazioni ( Inter 1°

 

posto Champions 2010, Juventus semifinale Europa League 2014 e addirittura Fiorentina semifinale Coppa Uefa 2008 ).  Sicuramente rispetto agli anni d’oro, culminati con la vittoria di Germania 2006, il livello del nostro calcio si è

abbassato notevolmente a partire dalla serie A, non più competitiva come un tempo come dimostrano i ritmi blandi delle partite e la fuga dei talenti emergenti all’estero. Abbiamo visto tutti in che modo la Roma, considerata senz’altro la squadra con il gioco più bello e emozionante d’Italia, si sia fatta umiliare in casa dal Bayern Monaco, mettendo in evidenza l’abissale dislivello tecnico tra i due club. Ma il fatto più inquietante osservabile dalla partita di martedì scorso è la lentezza dei ritmi di gioco e la mancanza di velocità nella distribuzione dei passaggi da parte dei giocatori della Roma, sempre vincenti in patria. La colpa della disfatta deve essere  quindi attribuita a un campionato di bassa qualità, non allenante per le nostre migliori squadre, completamente impreparate a affrontare top team europei che fondano sulla rapidità e sul pressing la loro forza.

Di conseguenza, da un torneo di seconda fascia è difficile formare una nazionale di prima. Però il vero scandalo è che ben il 60% dei calciatori di serie A non sono selezionabili perché stranieri, quindi il cerchio si restringe a una quarantina di giocatori individuabili dal commissario tecnico. Si è parlato molto spesso di porre un limite a quest’importazione massiccia di non italiani ma inevitabilmente gli interessi economici delle società (leciti e non) e l’abilità truffaldina degli agenti sportivi prevalgono, e, non di rado, viene preferito un  talento argentino tarocco a un giovane promettente italiano in rampa di lancio. Non si può negare che i nostri club rispetto ai loro colleghi europei stiano soffrendo maggiormente la crisi economica. Nessuno è rimasto indifferente quando ha visto le prestigiose maglie di Roma e Fiorentina senza sponsor pubblicitario, ad alcuni avrà fatto anche piacere, ma bisogna ribadire che questa situazione deriva da scelte errate compiute a partire dagli anni ‘90 quando all’inizio dell’era delle pay tv i club italiani, come solito nel bel paese, si sono adagiati sugli allori, senza investire i soldi ricavati nella manutenzione degli stadi vecchi e nella costruzione di quelli di proprietà. Così mentre in Europa ci sono stadi magnificenti dotati di spalti pieni di pubblico in Italia ci teniamo gli impianti statali che cadono a pezzi. Il risultato?

 

 

I milioni di introiti che le arene garantiscono alle squadre straniere mancano in Italia, e se a questo si aggiungono  i prezzi irrisori con cui i diritti tv della serie A sono venduti all’estero, si potrà intuire che i fatturati delle nostre big sono di molto inferiori ai top team d ‘Europa. Ecco da dove proviene il deficit.

In conclusione, sebbene sia difficile trovare delle soluzioni per tornare ai livelli che competono al nostro calcio, l’importante è avere idee chiare e innovative, partendo dalla valorizzazione dei giovani provenienti dai vivai e dalla riduzione netta degli ingaggi onerosi dei calciatori che dissanguano letteralmente le società. Offrendoci in cambio spettacoli indegni come quello andato in scena in Brasile.

 MARCO CILONA

Intervista a un campione in riva al mare

 

 

Questa estate mi stavo riposando sulla amena spiaggia di Castiglione della Pescaia, nella verde Toscana. E avrei potuto tranquillamente continuare a farlo fino alla fine di Agosto. Tuttavia, la prospettiva di diventare direttore della Lucciola, mi spingeva a fare qualcosa per il nostro giornale. “No, no” pensavo “Non basteranno un editoriale e un articolo per il primo numero, troppo poco per il direttore. Cosa direbbero tutti quanti, sarebbe uno scandalo! Qui ci vuole… Cosa ci vuole? Ah! Ci vuole il secondo articolo!”. E visto che l’apatia post delusione ai Mondiali mi aveva fiaccato nel corpo e nello spirito, qualcosa mi ricordò che due ombrelloni dietro di me prendeva tranquillamente il sole Francesco Graziani, detto Ciccio, bandiera del calcio italiano, 122 gol in 289 partite, e uno scudetto, nella stagione ’75-’76, con il Torino; un quasi-scudetto con la Fiorentina nell’82; con la Roma due Coppe d’Italia fra l’83 e l’86, e la leggendaria finale di Champions dell’84 persa ai rigori contro il Liverpool, di cui molti ricorderanno il suo errore dal dischetto, dimenticando invece la spettacolare partita, sempre in Champions, ma con il  Torino, nell’annata ’76-’77, contro il Borussia Munchengladbach, dove il Toro in otto contro undici riuscì a pareggiare proprio grazie a lui, attaccante, che dopo l’espulsione di Castellini dovette improvvisarsi portiere, compiendo diverse parate decisive, compresa una miracolosa sul futuro Pallone d’Oro Simonsen. Campione del Mondo in Spagna nell’82, 64 partite e 23 gol con la maglia della Nazionale. In tutto 182 gol in 525 partite da professionista. Campione di quella leggendaria stirpe d’Italia di cui ora rimangono solo Totti e Di Natale, e per ora nessun degno erede.

E visto che costui prendeva il sole due ombrelloni dietro di me, mi è sovvenuto il pensiero: perché non intervistarlo? Così avrò quasi senza fatica il secondo articolo: io dovrò solo fare le domande, e sarà l’intervistato a parlare. Poi la fatica l’ho fatta ugualmente, scrivendo un’introduzione di un chilometro per il puro gusto di infrangere ogni regola del giornalismo. Pazienza.

Questo articolo è stato realizzato con la gentile collaborazione di Edoardo Martinelli, che ha filmato me e Graziani, diventando così il primo cameraman della Lucciola sotto la nuova gestione.

Ah, l’intervista è di inizio Agosto, quindi qualcosa è cambiato nel frattempo, ma credo sia interessante vedere quello che è successo con un po’ di senno di prima, anziché di senno di poi come si fa di solito.

 

– Cosa ne pensi sul fallimento dell’Italia ai Mondiali?

– E’ un grande dispiacere, ma forse siamo andati in Sud America con un po’ di presunzione, con l’impressione di essere più forti di quello che poi abbiamo dimostrato di essere. Non siamo stati  molto fortunati in alcune circostanze, però è anche vero che quando si perde con il Costa Rica è bene tornare a casa, vuol dire che è un Mondiale nato male… e poi finito peggio.

 

– Come mai due volte consecutive? (Sudafrica 2010 N.d.R.)

– E’ una pausa di riflessione quella che il calcio italiano deve fare, perché può succedere una volta, però, per la qualità di calcio di una nazione come la nostra, uscire due Mondiali di seguito al primo turno è francamente troppo. Credo che il calcio italiano si dovrà interrogare sul perché succedono queste cose: aldilà della sfortuna o del momento negativo, sembrano davvero eccessive queste due esclusioni così importanti all’inizio.

– Secondo te chi è l’uomo giusto per fare il miracolo di riportare l’Italia ad alti livelli?

– Io non credo che serva un miracolo. Credo che serva un pochino più di qualità da parte dei calciatori, un allenatore che più che allenare selezioni… un selezionatore bravo, che prenda i migliori, li assembli e li faccia giocare insieme. Io penso che Mancini sarebbe l’ideale, ma non so se lui ha voglia di misurarsi in questo momento con la nostra Nazionale.

– Si parla anche di Conte.

– Credo che Conte non possa essere l’allenatore della Nazionale, anche perché lui è un animale da campo: tutti i giorni deve lavorare, urlare, chiamare, discutere… All’età che ha, vederlo in Nazionale dove non si allena più ma si seleziona, mi sembra fuori luogo per lui. Io penso che, se ci si fa caso, tutti i grandi allenatori delle Nazionali sono gente che oramai con il calcio giocato ha poco ha che fare, che è quasi in prepensionamento. Fanno i selezionatori dall’alto della loro esperienza, frutto di un’età diversa. Insomma, a quarantacinque anni come li ha Antonio, andare a selezionare in una Nazionale mi sembra davvero troppo poco per lui.

– Parliamo invece di campionato: la favorita per il titolo chi può essere?

– Secondo me continua ad essere la Juventus: è in assoluto ancora la squadra più forte, perché non ha venduto nessuno, perché ha acquistato buone riserve rispetto a quelle che c’erano prima e che se ne sono andate, ha sempre grande entusiasmo… in questo momento la vedo ancora come la favorita.  Si è avvicinata molto la Roma, ma attenzione anche a Inter, Napoli e Fiorentina fra le sorprese d’alta classifica.

– Allegri potrà far meglio di Conte in Europa?

– Fare meglio ci vuole poco, perché l’anno scorso la Juventus è uscita al primo turno… Allegri farà meglio di sicuro. L’obiettivo della Juve non è quello di vincere la Champions ma di arrivare come traguardo massimo alle prime quattro… e io ho l’impressione che ci siano tutti i presupposti perché questo possa succedere. Ci vuole un pizzico di fortuna, ma in Europa la Juve può dare molto di più.

– Tra l’altro Allegri, con il Milan ha fatto il miracolo di vincere due a zero contro il Barcellona…

– Si, nonostante poi nella partita di ritorno sia stato eliminato, il cammino in Europa del Milan con Allegri è sempre stato molto buono, anche considerando che lui ha avuto solo per un anno una squadra fortissima, e gli anni successivi ha fatto un mezzo miracolo.

– Invece il tuo Torino quanto lontano può arrivare?

-Io credo che, nonostante stasera ci sia la partita di ritorno, il Torino abbia già passato questo turno in virtù della partita vinta in Svezia. Vincere questo turno vuol dire andare al prossimo, che è quello decisivo, e anche più tosto, visto che si cominciano a incontrare squadri più forti del Brommopojkarna. Io ci spero, perché riportare questa squadra nel calcio europeo  sarebbe davvero molto bello, per la storia del Toro ma anche per il calcio italiano. Il primo turno l’ha passato, deve passarne un altro per accedere alla fase a gironi. Speriamo ce la faccia.

(“Salto” dentro l’intervista per un attimo: non solo ce l’ha fatta eccome, ma anzi è l’unica italiana in Europa che ad oggi ci metta un po’di cuore, a differenza di altre cosiddette big.. )

– Peccato per Immobile.

– Beh, Immobile ha fatto un bell’affare. Io sinceramente non capisco come mai il nostro movimento calcistico si sia fatto scappare questo tipo di giocatore. La Juventus in modo particolare, visto che ne aveva la metà del cartellino e doveva soltanto comprare l’altra metà. Evidentemente non hanno creduto in lui. E’un peccato, perché vedere che il nostro capocannoniere emigra e va a giocare in Germania, un po’ dispiace…

– Hai dei programmi per il futuro? Continuerai a lavorare nel calcio?

– Io continuo a lavorare con Mediaset, ho un progetto che sto portando avanti con la Roma, per costruire delle scuole calcio in giro per il mondo, in particolare negli Stati Uniti, visto che la presidenza giallorosa è americana. Loro vogliono sviluppare la loro immagine e il loro brand, e magari trovare dei nuovi De Rossi, dei nuovi Totti, perché lì in America c’è in questo momento un movimento calcistico in crescita in maniera esponenziale. Un domani, magari…

– Forse un giorno saranno al nostro stesso livello.

– Si, se loro capiscono che ci devono essere le categorie intermedie, perché in America c’è la Serie A, come da noi, la seconda squadra, e poi non c’è la Serie B, la C e la D come da noi. Ci sono i campionati universitari, ma lì la competitività è scarsa. Addirittura tanti ragazzi cambiano sport: invece di continuare con il calcio passano al baseball, o al football. Se loro capissero questo, nel giro di quattro anni diventerebbero forti come l’Italia, perché lì l’80% dei ragazzi che giocano sono tutti Sudamericani: Messicani, Peruviani, Cileni, Honduregni, Brasiliani, anche Spagnoli… gli Americani sono circa il 20%. I ragazzi Americani a cui piace il calcio e che giocano a calcio sono più o meno il 20%. Ma tutti gli altri sono oriundi del calcio, che ce l’hanno nel sangue come lo abbiamo noi e che ci giocano come se fossero nei loro paesi di origine.

– E ai Mondiali ce l’hanno fatto vedere…

– E ai Mondiali ci hanno fatto vedere che il calcio Sudamericano è in forte crescita.

 

– Ultima domanda che mi sta a cuore perché io sono tifoso del Cagliari: con Zeman, dove può arrivare?

– Con Zeman mi viene da risponderti: o bene bene o male male. O è una squadra che diverte, fa risultati, crea problemi a tutti, oppure è una squadra che va incontro a un annata disastrosa. Le squadre di Zeman sono sempre così.

– Cinquanta e cinquanta.

– Si. Se indovina la stagione, se la società capisce le esigenze dell’allenatore e i giocatori si mettono a disposizione, con lui possono fare molto, perché con Zeman si impara a giocare a calcio. L’unico problema di Zeman è che lui spesso vede di buon occhio la fase di una squadra dal centrocampo in su, e spesso si dimentica che c’è una fase dal centrocampo in giù. Quando lui non trova quest’equilibrio va incontro a seri problemi, perché una squadra che prende i tanti gol che prendono le sue squadre è un problema se nemmeno ne segna.

– Come il 2-4 quand’era alla Roma contro il Cagliari…

– Appunto.

– Grazie e buone vacanze.

– Anche a voi, ragazzi.

2014-08-07 11.56.31

(Da sinistra a destra: Edoardo Martinelli, Graziani e il sottoscritto)

 

 

 

ALESSANDRO VIGEZZI

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