L’Ebola è un castigo divino?

Ebola. Sembra una di quelle parole che dicono i bambini, prima di imparare a parlare, vero?

Del resto, le lingue sconosciute che udivano i civilissimi Europei quando sono andati là, non sembravano forse dialetti barbari, versi di animali, o se andava bene, di bambini?

Ebola è il nome di un fiume nell’ex Congo Zaire. E’ sulle sue rive che per la prima volta, nel lontano 1976, si è manifestato il virus che porta lo stesso nome.

Ebola è un nome che sembra portare, con il suo suono, la crudeltà, il terrore e il mistero di quelle impenetrabili foreste da cui è emerso. Potrebbe sembrare che la sua apparizione sia semplicemente una disgrazia, un capriccio del destino. Ma non lo è: come ogni altra cosa l’Ebola non è scaturita dal nulla, ma è la conseguenza di qualcos’altro. E di che cosa? La nascita vera e propria del virus si nasconde nella nebbia delle mutazioni genetiche, ma motivi per cui questo virus si è manifestato ci riguardano un po’di più. Anzi, molto di più. Proviamo ha descrivere la concatenazione logica dei fatti. C’è bisogno di una pilloletta (chiamiamola così) di storia: nei secoli scorsi l’uomo bianco giunge in Africa, e vi trova le risorse di cui la sua società in costante crescita necessita per svilupparsi sempre di più. Vi trova anche delle popolazioni decisamente non in grado di resistere ad una sua invasione, a lungo andare. Decide così di assumere il controllo diretto di tali risorse, e quindi anche di tali popoli. Anche dopo che è finito il dominio politico europeo in quelle terre, è rimasto il dominio economico straniero, quello delle compagnie ora non più solo bianche, ma di tutti i paesi ricchi. E il fine ultimo del dominatore straniero è rimasto lo stesso: sfruttare le risorse che è venuto a prendersi. Per fare questo bisogna portare “civiltà e progresso” capillarmente in un territorio fino ad allora quasi mai toccato dall’uomo: questo significa invaderlo con opere artificiali e con uomini, e di conseguenza moltiplicare i punti e i momenti di contatto con il territorio stesso. In questo caso il territorio era costituito da magnifiche, splendide foreste pluviali. Che vengono spazzate via, (al danno ambientale pensiamoci le altre 23 ore della giornata, non adesso) per far posto mano a mano a miniere, qualche fabbrica, e soprattutto campi, campi sterminati in cui viene coltivato tutto quello che serve all’uomo ricco e che di solito non può coltivare nel proprio paese: banane, caffè, cacao, tabacco, cotone.

Ma anche grano, patate e frutta per i suoi paesi sovrappopolati (l’Italia, tanto per fare un esempio, copre solo circa la metà del suo fabbisogno alimentare con produzione propria).

Ah, quindi ad un ambiente naturale se ne sostituisce un altro! E allora cosa accade? Alcuni animali che abitavano il precedente ecosistema non si adattano, ma altri si.

E anche gli animali hanno i loro parassiti, i loro batteri e i loro virus, non è così? Gli uomini, che un tempo con questi animali entravano in contatto ogni morte di papa, adesso lo fanno quasi quotidianamente! Dopo che questi incontri si succedono per anni e anni, è fortemente improbabile che qualche virus non passi agli esseri umani. Molti sono innocui, qualcuno è poco più di un influenza, ma, giorno dopo giorno crescono le probabilità di incontrarne uno mortale. Come l’Aids. O come l’Ebola.

Come se la foresta si prendesse la sua vendetta. Ora il vendicatore è un aggraziato essere notturno, un volatore dell’oscurità, dall’aspetto che di solito si definirebbe mostruoso, ma che io trovo affascinante. E’ un pipistrello. Per la precisione un pipistrello della frutta. In alcuni individui delle sue tante specie (quelle esatte ancora non sono state identificate con certezza) l’Ebolavirus prospera senza dare sintomi. Un tempo questo animale percorreva gli spazi fra gli intricati alberi nel profondo della giungla. Ma ora la giungla non c’è più, e il cibo è nelle grandi piantagioni di quelle strane creature bipedi, dove le piante sono tutte uguali, ma le vivande sono abbondanti e appetitose. Al crepuscolo, i nostri divoratori di papaye e banane si fiondano felici sui campi coltivati. Gli agricoltori non gradiscono e le tentano tutte per scacciarli. Alcuni li uccidono e, per curiosità o per necessità, li mangiano. Pare che in alcuni luoghi, prima dello scoppio dell’epidemia, fossero sulla buona strada per diventare un piatto tradizionale. Si ha anche notizia, sempre risalente a quel periodo, di un bambino morso da un pipistrello, e che potrebbe essere stato il paziente zero. Fatto sta che il virus inizia a fare strage degli uomini. Non è la prima volta che accade: ci sono state altre epidemie. Ma finora si era trattato di comunità isolate nel cuore dell’ambiente tropicale, annientate  così rapidamente da non aver avuto il tempo di contagiare nessuno. Tuttavia, con il passare del tempo, era sempre più probabile che il virus colpisse un’area discretamente popolata, come le zone rurali di Guinea, Sierra Leone e Liberia. E l’uomo ricco, che è stato colui che ha fatto sì che quelle aree ad alto rischio si popolassero, per grettezza, per miopia e per egoismo, non ha pensato di proteggerle con un sistema sanitario moderno, che, per essere all’altezza di un compito così duro, doveva essere addirittura migliore di quello di un paese civilizzato.

Le modalità di trasmissione da uomo a uomo del virus sembrano essere fatte apposta per colpire e distruggere una società povera, con poca copertura medica e con scarso livello di igiene, e tendere invece a risparmiare una società come la nostra. L’Ebolavirus per fortuna (come quasi tutti quelli della sua famiglia) non è in grado di trasmettersi per via aerea, ma solo per contatto diretto con alcuni fluidi corporei, come urine, escrementi, sangue, o con carcasse infette. Provate a immaginarvi come siano molte zone dell’Africa, e le conseguenze saranno chiare. I morti e i contagiati in quei tre paesi sono ormai migliaia.

Io non sono uno scienziato e neanche uno storico, e nemmeno ho toccato con mano quello che sta accadendo, come tante persone che hanno avuto il coraggio e la possibilità di agire e di andare a combattere lì. Questo è solo il modo in cui ho cercato di spiegarmelo, sforzandomi di essere più oggettivo possibile. Da Roma, si può solo intravedere il riverbero di cosa sta accadendo in quella parte di mondo, quel raggio di luce che, nella poesia dell’immenso Leopardi, attraversa la siepe e ci fa sognare.

Le immagini e i pensieri di questo riverbero fanno provare meraviglia: paesi bellissimi, in cui una semplice fosso divide caotiche città da una natura ancora lussureggiante. Chi era già stato là altre volte ci dice che fin da subito, quando atterrano nelle capitali si nota qualcosa di diverso: il nervosismo. Un panico diffuso, soprattutto nelle zone sicure. Le città sono ancora più caotiche del solito. Un caos, come ha fatto notare amaramente qualcuno,  febbrile. E avvicinandosi alle periferie, si sente un suono dapprima indistinto, poi sempre più intenso: i canti funebri e le preghiere di gruppo che si succedono ininterrottamente. Per fortuna l’Ebola non è come la peste, altrimenti sarebbe la fine. I villaggi sono una successione di capanne, piccoli palazzi, boschi e piantagioni. E centri sanitari: tende ermetiche o edifici isolati. Sono centri internazionali, frutto degli sforzi di alcuni paesi avanzati e di alcune tra le poche ONG efficienti, come MFS o Emergency. Sono volontari stranieri che si avvalgono anche di volontari autoctoni. La sanità locale, priva di mezzi e conoscenze, è collassata al primo colpo, e i pochi dei suoi medici si sono salvati.

E’ qualcosa di irreale vedere quegli uomini in scafandri bianchi immacolati, vedere la tecnologia e i display luminosi dei loro strumenti a poca distanza dalle turbe di gente povera e inquieta. Sembrano alieni. Sembrano calmi, sicuri di sé e del loro futuro, in mezzo a quelle persone sudate, che non lavorano più perché non sono più in grado di pensare ad altro se non all’epidemia.

Ebola è una parola leggera, soffice, apparentemente senza senso, al punto da sembrare l’inquietante lamento di un folle. E di sicuro non è solo il corpo degli uomini che colpisce, ma anche le loro menti.

E’ devastante in un ambiente caratterizzato da ignoranza, superstizione e ingiustizie. Il responsabile del perché l’ambiente sia così, agli occhi di chi lo abita, non possono che essere i governi locali, lontani dalla popolazione e tirannici quando si tratta di spremerla, prepotenti e corrotti, portatori di guerre civili e mai di benessere. E quello che ora accade sembra tratto da un libro di Marquez, maestro nel rappresentare la pazzia dei pazzi e delle persone cosiddette normali: molti pensano che l’Ebola sia un complotto del governo per togliere di mezzo, con il veleno, gli avversari politici e i poteri locali che li ostacolano, avvelenando anche la popolazione, o come copertura, o perché schierata contro di loro. E per fare questo avrebbero chiamato i loro misteriosi alleati occidentali, quelli che girano per le strade con quegli inquietanti scafandri bianchi, con quegli strumenti angoscianti e mortali, per ungere la gente. E’ una reazione istintiva, alla rabbia per i soprusi subiti e per la miseria in cui si vive, alla paura della morte e del diverso. Molti medici sono stati attaccati e le loro attrezzature distrutte, e a metà settembre, in Guinea, un team di otto volontari è stato massacrato mentre cercava di illustrare le norme di prevenzione, sentite della gente come le menzogne propagandistiche dei propri nemici e assassini. E non è tutto: molti sciamani del luogo, con un gran seguito, quando non sostengono la tesi del complotto, dicono che l’Ebola è uno spirito del male, al quale nemmeno loro possono rimediare. Affermano che in ogni caso, visto che negli ospedali si muore comunque, è meglio stare proprio letto, circondati dai propri cari. Togliendo così ogni ostacolo al virus.

Anche i malati di Ebola, nei centri sanitari, stanno in scafandri pressurizzati, questa volta trasparenti, con appositi tubi a tenuta stagna per far passare le attrezzature mediche. Sembrano ingoiati da strani insetti sconosciuti, con molte zampe. I volontari raccontano che è straziante non poter usare il contatto fisico per confortare i pazienti. Lì si combattono battaglie con piccole probabilità di vittoria. La malattia incuba in una ventina di giorni, durante i quali non si è contagiosi. Quando si manifesta sembra un’influenza, con febbre e dolori. Poi però sopravvengono vomito ed edemi, e una sofferenza intensa e costante. Infine, nella maggior parte dei casi, arriva la febbre emorragica. Si sanguina anche all’esterno, ma soprattutto all’interno, negli organi. La morte è una liberazione, e può sopravvenire o per disidratazione (che è l’unica che finora si è in grado di affrontare) o per i danni agli organi interni. Appena un terzo dei pazienti curati ce la fa, e sarebbero molti di meno senza le terapie di sostegno ( la storia di James Kollie è da leggere). I nomi dei vaccini in sperimentazione sono fantascientifici: ZMapp, Chad3. Ma ancora non sono utilizzati sul campo.

L’Ebola è un castigo divino? Sembra di no. Molte colpe sono sicuramente dei paesi avanzati, quelli dove la malattia non sembra che abbia le caratteristiche per potersi diffondere. Almeno non nel fisico. Nelle menti la follia sta già arrivando. Come è noto, per ottenere il consenso la maggior parte dei politici non esita a far leva sugli istinti della gente e sulle paure degli ignoranti. Molti sono convinti che gli odiati migranti porteranno l’epidemia in Italia e in Europa, arrivando a Lampedusa, a meno che il governo non li fucili tutti o per lo meno li rimandi indietro. Tuttavia, a parte il fatto che i paesi colpiti sono marginali rispetto alle rotte migratorie, basta documentarsi per capire che il Sahara è una barriera quasi insormontabile: anche se l’incubazione è lunga, il viaggio dalla Guinea (la più vicina a noi) alle coste del Mediterraneo, lo è molto di più. La malattia si manifesterebbe in pieno deserto, prima della metà del viaggio, uccidendo in pochi giorni il malato e l’intero gruppo con cui si sia messo in viaggio. Il Sahara non si attraversa in legioni di gente, ma in piccoli gruppi, e come è accaduto nei villaggi sperduti nelle precedenti epidemie, sarebbero isolati. Il virus morirebbe con loro. Un migrante, per portare l’Ebola da noi, dovrebbe contrarla in un paese mediterraneo, e questo è impossibile, perché non ci sono le condizioni ambientali. Inoltre, per le sue modalità di contagio fra uomo e uomo, la nostra società è troppo pulita. Ma a Fiumicino, a una bambina che era stata in Uganda (lontano migliaia di chilometri dall’epidemia) è stato impedito di entrare a scuola dai genitori dei suoi compagni. Una cosa che spero si commenti da sola.

Non penso nemmeno che l’Ebola possa essere la nuova Aids: questa infatti, per uccidere impiega mesi, ora addirittura anni, nei quali si è contagiosi. L’Ebola invece pochi giorni.

Questo pericolo sembrerebbe dunque essere remoto, lontana dai “colpevoli” paesi ricchi, flagello di popolazioni meno sviluppate. Ma non è così. Gli sforzi della comunità internazionale per isolare l’epidemia in alcune sacche ben definite si stanno dimostrando per nulla sufficienti, così come quelli per scoprire una terapia specifica. Come ha detto Gino Strada, è possibile che essa arrivi da noi. Non nei barconi, ma in prima classe. Negli aerei. Non attraverso i medici volontari, che vengono riportati in patria per essere curati: c’è troppo controllo.

Più probabilmente attraverso uno dei tanti uomini d’affari che si recano nelle aree  cosiddette sicure in quei paesi per monitorare le loro compagnie. A quel punto potrebbe davvero sembrare una vendetta divina. Ma continuerebbe ad essere l’effetto di una causa. Curiosamente, mi viene da pensare alle parole dell’Agente Smith in Matrix, rivolto a Morpheus: “Ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate, finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura.”

Forse un’epidemia sarà davvero il prezzo che i paesi ricchi pagheranno per la loro prosperità, basata sull’impoverimento di quelli più poveri. Ma se accadesse non sarebbe per un disegno superiore, ma la conseguenza delle proprie debolezze. Con scarsa lungimiranza si sono create le condizioni perché una simile epidemia si verificasse, e con scarsa lungimiranza si potrebbero non adottare le misure perché arrivi da noi. Che non sono solo controlli e quarantene, ma anche dotare quei paesi delle armi per combattere le loro malattie, varie e terribili, e di un’economia sostenibile che diminuisca le possibilità di entrare in contatto con esse. Anche a prezzo di impoverirsi per realizzare tutto questo. Altrimenti, con il passare degli anni, aumenteranno sempre di più le probabilità che emerga un nuovo virus, magari più aggressivo e più contagioso dell’Ebola. Che arriverebbe da noi attraverso gli aerei, perché bisogna controllare i migranti.

Forse l’Ebola è un messaggio divino, un ultimo avvertimento. Forse vuole dire alle nazioni civilizzate: “Colpisco quelli che voi non difendete. Continuate a fare così, e prima o poi qualcosa troverà la strada per colpire anche voi”.

Speriamo che sia chiaro…

ALESSANDRO VIGEZZI

Da vedere: gli interventi di Gino Strada a Servizio Pubblico  https://www.google.it/?gfe_rd=cr&ei=RU9mVMG6CMOO8QeDzYDwBw&gws_rd=ssl#tbm=vid&q=intervento+di+gino+strada+a+servizio+pubblico+ebola+novembre+2014 il primo risultato:


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