I tormenti di Costantinopoli

Una breve analisi dei motivi dell’attentato ad Istanbul del 28 giungo 2016

Sembra di rivivere l’atmosfera vagamente kafkiana del pur divertentissimo film “Lo chiamavano Jeeg Robot”, dove esplosioni e stragi si susseguono in background, recepite attraverso i riverberi dei notiziari televisivi; un sottofondo al quale ognuno è assuefatto con una normalità un po’ surreale. Tuttavia, il sangue dei 41 morti e dei 230 feriti di ieri, nella città chiamata un tempo Nuova Roma, impone almeno di non rimanere ignari del perché sia stato sparso con tanta disinvoltura.

Nonostante finora non siano state trovate prove definitive, l’affiliazione degli attentatori allo Stato Islamico è quasi certa: questo perché i signori di Daesh (così è noto l’Isis nel mondo musulmano) da un anno a questa parte hanno tutti i moventi possibili per prendere di mira i discendenti di Solimano il Magnifico. Secondo gli addetti ai lavori, la situazione geopolitica è al momento questa: fino all’altroieri, il più che premier Erdogan e i vertici turchi hanno appoggiato sottobanco i devastatori della Mezzaluna un tempo fertile, favorendo, attraverso un blando controllo del confine siro-iracheno e della frontiera balcanica, il copioso afflusso di uomini, armi e denaro provenienti dalle cellule europee alle dipendenze del Califfo. Lo hanno fatto perché la feroce pressione dell’Isis contro i Curdi e Assad era per loro estremamente conveniente, dissanguando nel primo caso delle milizie (vittime peraltro, dei martellanti bombardamenti di Ankara ufficialmente diretti contro i jihadisti) pericolosamente vicine agli indipendentisti del Kurdistan turco, e contribuendo nel secondo caso alla progressiva polverizzazione della Siria, di cui Erdogan, famoso per i suoi progetti espansionistici, sperava di inglobarne gli staterelli che avrebbero dovuto formarsi a seguito della lunga e distruttiva guerra civile.

Da allora, però, sono sopravvenuti alcuni mutamenti cruciali che hanno spinto i turchi a innestare la retromarcia: innanzitutto l’isolamento internazionale derivato da una simile politica, ben nota in via ufficiosa a tutte le principali potenze in campo. Gli Stati Uniti non hanno potuto tollerare che un’alleato storico, per di più membro della Nato, favorisse lo stesso terrorismo islamico contro cui tutte le amministrazioni a stelle e strisce sono impegnate fin dall’11 settembre 2001. I rapporti con l’Alleanza Atlantica si sono gradualmente deteriorati, ed Erdogan, nonostante le manovre e le contromanovre volte ad assicurarsene un indiretto aiuto o quantomeno un tacito laissez-faire, e nonostante il

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Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan

peso strategico dello stato anatolico nelle trattative mediorientali, ha finito per ritrovarsi sempre più isolato. Gli alleati regionali degli Stati Uniti si sono anch’essi alleati all’ostilità dello Zio Sam: l’Egitto, a causa del sostegno turco ai Fratelli Musulmani dell’ex-presidente Mohammed Morsi, esautorato da Al-Sisi; Israele, per via dell’endemica ostilità di Erdogan alla propria causa; la new entry tra gli amici degli americani, l’Iran, in quanto storica rivale della Turchia per l’egemonia su quelle terre. L’unico Paese con cui l’asse ha retto è stato l’Arabia Saudita, la quale, nonostante la sempre più controversa alleanza con gli Usa, era unita all’ex Sublime Porta dal comune interesse a favorire le mire di Daesh, per le ragioni di cui abbiamo trattato negli articoli La tomba di Lawrence e La strategia del terrore.

 

Inoltre, la linea dura decisa l’anno scorso da Putin contro i terroristi non troppo distanti dall’espolosivo limes caucasico russo, e in aiuto del prezioso alleato mediterraneo Assad, ha posto notevoli bastoni fra le ruote dei piani di Erdogan. Ne è derivata una crescente tensione diplomatica fra le due potenze, sfociata con l’abbattimento del jet russo del 24 novembre dello scorso anno, a cui sono seguite pesanti sanzioni economiche da parte del Cremlino; è facile desumere come queste abbiano aggravato la già asfittica posizione turca.

Quando infine, nel corso della prima metà di quest’anno, lo Stato Islamico ha cominciato a cedere seriamente su tutti i fronti (è recentissima la notizia della riconquista di Falluja da parte delle forze armate irachene), il governo turco ha capito che l’equazione era cambiata: meglio scaricare un alleato in crisi e abbandonare i vecchi obiettivi ormai troppo distanti, piuttosto che rischiare di rimanere emarginati al futuro tavolo delle trattative. Ankara ha così chiuso le frontiere ai traffici dell’Isis, cominciato a indirizzare i propri attacchi aerei contro gli obiettivi ufficiali e iniziato il processo di disgelo con i vari Stati a cui aveva pestato i piedi.

Gli uomini del Califfo non potevano certo tollerare il tradimento di un Paese tanto fondamentale per la sopravvivenza della propria organizzazione: le svariate cellule terroristiche rimaste sul suolo anatolico dopo la militarizzazione dei confini hanno dato il via a una serie di sette (e ora otto) cruenti attentati, sia a scopo punitivo sia per rilanciare l’immagine di Daesh dopo le ultime, ingravescenti difficoltà.

ImmagineL’ultima strage a suon di bombe e raffiche di kalashnikov è stata compiuta presso lo scalo Ataturk di Istanbul, uno dei principali hub del traffico aereo da e per l’Europa, e ha visto vittime sia tra le forze dell’ordine che fra i civili turchi e stranieri, questi ultimi chiave di volta per ottenere un’eco internazionale amplificata. Una strage che fa sprofondare nel panico i concittadini di Erdogan, minando il prestigio del presidente e facendo crollare i proventi del turismo nell’ultima settimana del Ramadan. Questa è stata la (vincente) contromossa dell’Isis.

I 41 uccisi e i 230 feriti sono stati il risultato di tale conflitto tra controparti dotate entrambe di freddezza calcolatrice, che programmano lacrime e lutti in termini operativi. Non ci resta che attendere, nel prossimo notiziario, gli echi delle prossime reazioni.

ALESSANDRO VIGEZZI

 

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