Le origini della Shoah

In Germania, prima della comparsa del nazismo, l’antisemitismo esisteva da più di un millennio, così come in buona parte dell’Europa, ed era anche abbastanza diffuso nella società tedesca. Tuttavia, in epoca moderna risultava essere un fenomeno relativamente marginale, tant’è che non si erano mai verificati sanguinosi pogrom come in Russia. L’ostilità che si nutriva verso gli ebrei era più che altro dovuta a una sorta di “cattiva reputazione”, animata da antichi retaggi e pregiudizi che traevano origine dalla più classica paura del diverso. Come ha affermato Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nel corso del nostro viaggio: “La Germania del ’45 era molto più antisemita di quella del ‘33 (anno della presa del potere di Hitler  N.d.R.),  perché i tedeschi erano stati educati a provare avversione verso gli ebrei”. È evidente, quindi, che i governanti nazisti non si sono limitati a dare libero sfogo a un odio razziale preesistente, ma lo hanno manipolato, trasformandolo radicalmente tanto nella portata quanto nei fondamenti ideologici. Perché lo hanno fatto? Solo perché loro stessi e il loro Führer erano fanatici antisemiti? Certo, questa è una delle ragioni. Hitler e i suoi erano più di ogni altro affetti dal contesto antiebraico della loro epoca, per motivi che risiedono nelle loro esperienze di vita e nelle loro convinzioni per noi criminali. Tuttavia, non bisogna dimenticare che loro erano uomini di potere, anzi, i dirigenti di un apparato politico-amministrativo avanzatissimo come quello della Germania di allora, e che, di conseguenza, hanno sempre agito in base alle logiche del potere stesso. Ogni mossa che hanno compiuto l’hanno compiuta in funzione dell’effetto che avrebbe avuto a breve, medio o lungo termine, e ognuno di questi effetti era funzionale al raggiungimento del loro scopo supremo: la conquista e il mantenimento del potere. È questo il fine ultimo non solo di ogni dittatore, ma della stragrande maggioranza dei politici, aldilà della loro più o meno sincera fede in ideali più o meno aberranti. La stessa personalità di Hitler è esemplificativa in questo senso: in lui vi erano sicuramente dei nuclei di follia, ma attorno ad essi la sua mente si organizzava razionalmente, e la genialità della parte ascendente della sua parabola ne è la prova. La domanda che bisogna porsi, quindi, è non tanto “Perché Hitler e i suoi odiavano gli ebrei?” ma “Con quale scopo li hanno perseguitati?”. In altre parole: come potevano contribuire l’antisemitismo e la Shoah alla conquista e al mantenimento del loro potere? Per capirlo bisogna fare un passo indietro nel tempo, precisamente in quel tempo in cui i nazisti non erano che una minuscola cricca che aveva appena iniziato la sua ascesa.

 

La nascita dell’ideologia razziale

Quando nel 1930 la Repubblica di Weimar iniziò a collassare, diventò difficile distinguere le
luci dalle ombre. Si era in piena crisi economica oltre che culturale, e, come in ogni crisi di grande portata, la maggior parte delle persone, intellettualmente, si comportava come fanno le bestie impaurite, che cercano una via di fuga senza guardare dove vanno. Tutto ciò che faceva parte della loro epoca aveva deluso e amareggiato i tedeschi: le ideologie, i partiti politici, le istituzioni, i piani economici. La sconfitta nella guerra. Tutto era in bilico, tutti si sentivano frustrati e privi di prospettive. Nessuno credeva più in nulla. Quello a cui tutti inconsciamente aspiravano era non solo la soluzione alla loro miseria, ma un “grande sogno” che desse un senso alle loro vite come individui. Esiste un fenomeno sociale nella Germania dell’epoca, di cui gli storici hanno provato l’esistenza, che è quello della Kriegsjugendgeneration1 (la “generazione dei giovani di guerra”): si trattava di giovani che durante l’adolescenza avevano vissuto la Grande Guerra da casa, senza prestare servizio militare per motivi di età, e che quindi non avevano riportato nessuno dei traumi psicologici da essa derivanti, ma anzi ne erano stati plasmati ideologicamente, vivendola con divertimento ed esaltazione. Quale sarà stata la loro reazione alla fine della guerra? Noia, di fronte alla banalità della pace, e depressione, quando, di fronte alla crisi, non c’era nemmeno il senso di appartenenza a un disegno più grande che potesse servire di conforto in una vita spiritualmente (e spesso anche materialmente) miserabile. E questi giovani, dopo 12 anni, erano diventati uomini, la generazione protagonista della loro epoca. La Kriegsjugend-degeneration, per così dire.

Per arrivare al potere, i nazisti dovevano offrire non solo la soluzione a tutti i problemi sociali ed economici legati della loro epoca, e la figura di un uomo forte che avrebbe ripristinato l’ordine nel caos, ma anche quel “grande sogno” di cui scrivevo prima. E perché questo grande sogno fosse tale, essi dovevano sia far leva su un contesto culturale antecedente, sia apparire del tutto rivoluzionari rispetto ai sistemi di pensiero di quegli anni odiati da tutti i tedeschi che li avevano vissuti. Il grande sogno che hanno offerto era quello della superiorità della razza germanica. In pochi si sono accorti che si trattava di un grande incubo, perché era un sogno che faceva sentire i più speciali, parte del popolo eletto, e faceva balenare di fronte ai loro occhi, in contrasto con le loro privazioni, un futuro non soltanto prospero, ma anche… glorioso.

 

Fenomenologia di uno sterminio

ImmagineLa forza emotiva che un’ideologia politica è in grado di esercitare su un popolo può apparirci incomprensibile nel terzo millennio, immersi come siamo in una società nichilista, svuotata di ogni valore e individualista fino alla vigliaccheria, ma bisogna fare uno sforzo di immaginazione. Allora, scrive Lozowick: “…la vita privata del singolo non era importante (…); il piano su cui un uomo doveva essere messo alla prova e dimostrare il suo valore era quello nazionale, non individuale”.  Fu così che larghissimi strati della società tedesca, abbracciarono l’ideologia nazista, allettati sì dai promessi vantaggi materiali, ma soprattutto convinti dal fascino di un ideale. Volontariamente illusi, diventarono parte della piramide umana grazie alla quale Hitler raggiunse il potere assoluto, sfruttando il loro malcontento e il loro vuoto ideologico.

A quel punto, per i vertici del partito nazista si profilava una sfida non semplice: quella di provare a dimostrare la veridicità della loro ideologia e a metterla in pratica, modellando su di essa la loro politica estera e interna. C’era però un piccolo problema: nonostante la continua ricerca di inesistenti prove scientifiche, non fu naturalmente possibile dimostrare   in  alcun   modo   la   superiorità   razziale  dei tedeschi. Ma si sa, l’uomo è una bestia perseverante, che non si arrende certo alle prime difficoltà quando cammina sulla strada dell’inferno, e l’inventiva dei nazisti, alla fine, due modi li trovò: il primo era vincere la guerra totale contro gli stranieri nemici della patria. Obiettivo arduo e rischioso, ma non per questo messo da parte. Ce n’era, tuttavia, uno molto più abbordabile: individuare il perfetto, odioso contraltare dei puri uomini ariani, la contro-razza che per contrasto facesse risaltare la purezza germanica. Quanto era comodo, per i tedeschi di quell’epoca, trovare dei capri espiatori su cui si addossavano secoli di odio e pregiudizi, a cui attribuire le colpe di tutte le sofferenze che avevano passato! Quanto era confortante avere un nemico chiaro in un’epoca torbida, poter distinguere gli amici dai nemici, identificare i mali della propria società in una specifica, determinata categoria di individui… di cui quindi si poteva fare pulizia! Meglio di tutte le mie parole parla l’agghiacciante discorso che Himmler fece alle SS, il 4 ottobre del ’42, quando per la prima volta rese pubblico lo sterminio degli ebrei. Chi ha tempo e senno lo legga.

I pratica i nazisti, vista l’impossibilità di dimostrare “in positivo” la propria ideologia, avevano deciso di provarla “in negativo” nel modo che tutti sappiamo2. Abbiamo già parlato dell’importanza che aveva un’ideologia a quei tempi, ed è proprio questa importanza a spiegare la centralità della questione ebraica nella politica nazista, e a motivare l’insensata3 distruzione in tempo di guerra di una categoria economica estremamente florida quale era la comunità ebraica. In parole povere: lo scopo dei nazisti era il mantenimento e l’accrescimento del proprio potere; mettere in pratica la loro ideologia era imprescindibile per questo  fine;   l’annientamento   degli  ebrei  era  la  via  più efficace per provare la loro ideologia; ergo, l’annientamento degli ebrei era necessario. È incredibile ciò che un essere umano può arrivare a concepire…

A questo punto, però, può sorgere un dubbio ragionevole: dapprima per emarginare e in seguito per eliminare gli ebrei, i nazisti si sono serviti della collaborazione, attiva e passiva di milioni di cittadini non solo tedeschi, ma anche europei. Trasformare delle persone comuni, sia pure antisemite, in carnefici è cosa ben diversa dal propinare loro un’ideologia. Riflettendoci bene, tuttavia, ci si rende conto che forse il passo non è così lungo. Allora furono diversi i fattori a concorrere: uno di questi fu, ancora una volta, l’imprescindibilità dell’ideologia della superiorità razziale. In un regime totalitario la vita umana in quanto tale non ha nessun valore: è l’ideologia di regime a dare un senso alla vita degli individui. Se non si appartiene ad essa, non solo si è dei nemici della società4, ma la propria vita non vale nulla. Si viene subumanizzati. Nonostante molti tedeschi non fossero fanatici antisemiti, e nonostante molti di loro avessero amici, conoscenti, persino parenti tra gli ebrei, uccidere o contribuire all’uccisione di chi viene moralmente a contare poco più di un animale, e che per giunta la propaganda del sacro Führer dipinge come il più laido dei nemici, può non essere così difficile. È un discorso che vale sia per i militari, gli esecutori materiali, abituati a vedere in faccia la morte, sia per i burocrati che erano soltanto tenuti a firmare i documenti necessari… nonché per i comuni cittadini che dovevano semplicemente fornire dei nominativi. Non considerare umani gli ebrei e perseguitarli era la normalità nella società nazista, e non a causa del semplice indottrinamento: il vero motivo era molto  più  subdolo.  Come  sosteneva  Hannah Arendt, una delle più grandi pensatrici del secolo scorso riguardo a questo tema, in un regime totalitario sono altri i parametri morali applicati dagli individui: per la struttura stessa di una società totalitaria, anche in assenza di indottrinamento, si viene desensibilizzati a
quello che è il sentire morale che a noi, cittadini liberi, appare normale e inviolabile. Se poi si è persone comuni e benestanti, o peggio ancora se si è ai vertici di tale società, che agiscono lontani dal mondo reale, la coscienza si restringe ulteriormente, e subentra una morale di comodo in cui non si vede il risultato delle proprie azioni, e quindi si può arrivare a non comprendere emotivamente il dolore che si infligge.

 

Guerra e Olocausto

ImmagineL’ideologia nazista, inoltre, sdoganava l’indole predatoria come la naturale espressione della volontà di potenza insita nei superiori uomini ariani, togliendo ai militari ogni vincolo etico. Non è certo un caso se fu proprio durante la guerra che la ghettizzazione sfociò in sterminio. In tempo di pace sarebbe stato impensabile, ma in guerra le persone entrano quotidianamente in contatto con la sofferenza, fino ad assuefarvisi. Fra tanti morti, quanto potevano contare gli ebrei subumani e corruttori?

Non fu nemmeno un caso se lo sterminio accelerò vertiginosamente quando si iniziò a capire che l’esito della guerra sarebbe stato infausto: non si poteva sconfiggere i nemici esterni, ma ecco che sui presunti nemici interni l’inflessibile giustizia del Reich trionfava, eliminandoli per sempre e guadagnando consenso per proseguire la tragica lotta che, come ormai ben sapevano i nazisti, non avrebbe avuto altro esito che la distruzione dell’Europa. Collaborare a tale “operazione di pulizia”, per di più, legava indissolubilmente la sorte dei cittadini a quella del proprio governo, che molti difesero strenuamente perché sapevano che sarebbero stati giudicati come criminali dagli Alleati, se questi avessero vinto. Questo valeva anche per i collaborazionisti nei territori sottomessi al Reich.

Infine, il senso di accerchiamento5 derivante dalla guerra, che doveva essere tanto pressante per i cittadini tedeschi in patria quanto per i soldati al fronte, fece il resto, motivando la spietatezza nei confronti degli ebrei “nemici del Reich” con la necessità di non tradire i propri compatrioti, preservandoli da fantomatiche pugnalate alle spalle.

 

Più si esamina l’epoca nazista, e più appare come un negativo fotografico. Ciò che dovrebbe essere buio risplende di luce, mentre nuovi, inquietanti ideali si insinuano nei precedenti, sovrapponendosi ad essi, alterandoli, mutandoli in qualcosa di anomalo. L’amore per la propria patria diventa follia razziale, la gloria non è più sconfiggere gli eserciti invasori o rovesciare i tiranni, ma opprimere e massacrare civili inermi e disperati; la giustizia, che dovrebbe rieducare i colpevoli, arriva ad eliminare gli innocenti con sadica determinazione, mentre la libertà non è più che un fantasma evanescente. E dietro a questa immagine così angosciante non c’è altro che un immenso vuoto, creato dalle circostanze storiche, dall’odio e dall’indifferenza. Ad Auschwitz-Birkenau, in quell’aria gelida riempita dal suono dei nostri passi e dall’effimero fiato dei nostri respiri, si poteva quasi vedere un soldato nazista, immobile, in piedi fra i turbini di neve, prendere forma dal malessere del suo tempo, e dalla follia dell’uomo.

Continua a leggere: http://lucciolamanara.com/2016/02/27/la-storia-di-sami-modiano/

ALESSANDRO VIGEZZI

 

 

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