Divorare il pianeta

Inizia l’era dei cambiamenti climatici: i dati sull’ambiente e le possibili vie d’uscita

La mattina ci svegliamo. Ci laviamo, ci vestiamo, facciamo colazione. Quando usciamo di casa ci spostiamo quasi sempre in macchina o in motorino. A pranzo, come a cena, consumiamo i cibi convenienti e dal buon sapore che la nostra industria alimentare ci fornisce in abbondanza. Usiamo computer e smartphone con il medesimo scopo di trasmettere e ricevere informazioni. Appena cala il buio, la nostra casa si illumina con la modica pressione delle nostre dita sugli interruttori. Guardiamo la televisione. Se sentiamo freddo, grazie a un semplice giro di manopola il gas caldo può affluire nei nostri apparecchi di riscaldamento e riempire la nostra casa di tepore. Quando andiamo a dormire, a poca distanza dal ronzio soporifero del frigorifero e degli altri elettrodomestici, in quanti, anche solo per un momento, si sono resi conto di star divorando il proprio mondo?

Vedere l’acqua scorrere come creata all’interno del lavandino; prendere il cibo quasi fosse generato ex nihilo dagli scaffali dei supermercati. Queste sono le immagini cristallizzate nel nostro inconscio. Gesti connaturati, che accettiamo acriticamente senza capire che essi sono solo l’ultimo anello del sistema produttivo e tecnologico di cui l’umanità si serve fin dalle Rivoluzioni Industriali, e che questo sistema ricava energia (elettricità e calore per le macchine e cibo per gli uomini) rendendo il pianeta gradualmente inabitabile, inquinando la terra, l’acqua, l’aria e intossicando i nostri stessi corpi. Abbiamo fatto addirittura indigestione di film in cui scenari apocalittici puniscono la hybris tecnologica dell’Uomo e la sua danarosa imbecillità, eppure di rado riusciamo a preoccuparci sul serio di questo difetto basilare. Una volta per tutte proviamo, con socratica ostinazione, a chiederci perché.

In sintesi, potremmo concludere che i nostri nemici interiori sono quattro: la pigrizia, il cosiddetto realismo, l’ignoranza e l’indifferenza. Tutti insieme, i Magnifici Quattro danno vita al più grande complesso di rimozione che l’umanità (non) ricordi, nel quale un patetico desiderio di comoda inattività si traveste da sano realismo, per indurre alla non modificazione del nostro stato di incoscienza, da cui consegue una sostanziale indifferenza emotiva. Affascinante, vero? È un meccanismo valido riguardo a ogni questione importante che non interessi le masse. Nel caso specifico, esso si fonda su due inconsapevoli articoli di fede: che il collasso del nostro ecosistema sia remoto e distante, e che nessuno possa fare nulla per impedirlo. Demolite queste due convinzioni, il meccanismo si indebolirebbe sensibilmente, e la gente non potrebbe più continuare a rimanere inerte.

ImmagineImmaginiamo di metterci degli occhiali, ma non degli occhiali normali. Le lenti di fronte ai nostri occhi dovranno essere simili a quelle di Matrix: dovranno consentirci di dare uno sguardo più profondo alla nostra realtà, di scorgere l’architettura che la sorregge, permetterci di vedere i più distanti eventi presenti e renderci in grado di intravedere il futuro verso il quale ci stiamo muovendo con troppa inesorabilità. Queste lenti, per fortuna, non appartengono al mondo della fantascienza. Anzi, a dire il vero si possono reperire con grande facilità: i loro nomi sono Cultura e Informazione. Attraverso di esse è possibile saggiare il disegno più ampio che governa e collega molteplici notizie e accadimenti in apparenza sconnessi.

Indossiamole, dunque, e usciamo di casa. Guardiamo il cielo. Inspiriamo l’aria, sentiamola sul nostro viso: è bello poterla respirare senza mascherina, come sono costretti a fare gli abitanti di molte grandi metropoli asiatiche. Il tepore del sole è gradevole, forse anche un po’ troppo per la primavera. Chi non ha presente il detto “non esistono più le mezze stagioni”?

Scrutiamo attraverso i nostri occhiali: sapremo così che da anni si susseguono, inascoltate, non catastrofiche previsioni di lunatici invasati dalle teorie complottiste, ma rilevazioni statistiche di miriadi di organizzazioni, associazioni scientifiche e ambientaliste, con lo scopo di metterci in guardia. Ricercatori universitari, esperti affermati e attivisti di ogni nazionalità lanciano tutti lo stesso allarme: “Global warming is going into overdrive”. Queste sono state le parole di Eric Hoaltus, uno dei più celebri meteorologi statunitensi. Si riferiva ai dati raccolti dalla Nasa di questo febbraio, il più caldo dal 1880, che è riuscito a battere il gennaio più rovente di sempre, il quale ha sua volta ha superato il 2015, uno degli anni più torridi in assoluto.  La temperatura è risultata essere di 1,35 gradi superiore alla media; nelle regioni prossime ai poli, la Siberia e il Canada settentrionale, ha superato gli standard invernali di venti gradi. La restrizione dei ghiacciai di ogni latitudine non fa più notizia. L’ultimo inverno, qui in Italia, in pochi hanno sciato.

Coloro che stanno monitorando il battito cardiaco del nostro ecosistema hanno rilevato quasi all’unanimità che negli ultimi anni i fenomeni meteorologici estremi, ovvero le siccità, le inondazioni, gli uragani tropicali, le trombe d’aria nostrane, sono cresciuti di oltre il 30%. Da tre anni, qui nel Belpaese, la Confagricoltura dichiara ogni estate lo stato di emergenza: il calore e la scarsità delle precipitazioni, associati ai temporali violenti ed estemporanei, causano crolli sempre più gravi nella produzione dei nostri prodotti tipici, dall’uva alle olive, dalle pesche ai pomodori e ai cereali. L’aspetto più inquietante, tuttavia, è che lo stato di salute del nostro pianeta sta peggiorando con almeno 15 anni di anticipo rispetto alle previsioni in base alle quali sono state elaborate le clausole dei trattati internazionali per la diminuzione delle emissioni. Clausole insufficienti anche per le antiche stime, nonché evase sistematicamente da molte delle maggiori economie del pianeta, fra cui Cina e Usa, nonché eluse da ogni gruppo d’interesse legato agli idrocarburi.

Ma non curiamocene, e riprendiamo a camminare per strada. Incrociamo un africano che tenta di venderci dei fazzoletti, scurissimo di pelle. Ne compriamo un pacchetto per solidarietà e guardiamo avanti. Ecco, ce n’è un altro sul marciapiede opposto. Tiene sotto braccio una spropositata quantità di aggeggi di plastica multicolori. La sua pelle ha tonalità più chiare, forse proviene da qualche Paese un po’ più a Nord, dallo Sahel magari.

ImmagineCon ogni probabilità sono entrambi giunti qui attraverso la flotta immane di imbarcazioni piene di persone derelitte e stravolte che, giorno dopo giorno, si rovesciano in mare aperto o vengono individuate dalle navi di soccorso al largo delle nostre coste. Quasi tutti pensano di sapere da dove vengono i loro equipaggi, tutti credono di comprendere perché vengano, e in pochissimi si interrogano su quale sia la causa di ciò che li spinge a lasciare le loro terre. Proviamo a dare una risposta a tutti questi interrogativi apparentemente risolti. Da dove vengono? La risposta comune è un generico “dal terzo mondo”, o “dall’Africa”. La risposta giusta è che attualmente i migranti che sbarcano sulle nostre coste provengono da due aree principali: il Medio Oriente (la Siria in particolare) e l’Africa subsahariana.

Perché vengono? Fuggono dalla miseria, dalle guerre, dalla scarsità di risorse, dalla precarietà di una vita costantemente a rischio: una condizione psicologica inconoscibile per chi non l’abbia vissuta. E quali sono le cause profonde di tutto questo? Ebbene, questo marasma è più correlato di quanto non si creda alle carenze della nostra strategia ambientale: nel caso dei migranti mediorientali perché il terrorismo islamico che sta destabilizzando quelle terre è finanziato dalle spietate dittature arabe del Golfo, affinché non causi loro problemi e combatta per procura i rivali sciiti, e noi a nostra volta finanziamo i Sauditi e gli altri sceicchi comprando da loro ogni giorno migliaia di barili di petrolio.

Non solo, ma le nostre continue ingerenze su quei territori, ingerenze inevitabili vista la nostra dipendenza energetica dagli idrocarburi ivi estratti, hanno avuto l’unico effetto di rafforzare, in un circolo vizioso, da un lato i brutali autoritarismi che pretendono di essere l’unica alternativa all’estremismo islamico, dall’altro le formazioni jihadiste che asseriscono di combatterli.

Nel caso degli africani, stiamo contribuendo al loro apocalittico esodo con i tubi di scarico delle nostre macchine. Perché i cambiamenti ambientali innescati dall’effetto serra stanno ormai sconvolgendo in maniera irreversibile i delicati equilibri ecologici delle aree tropicali, altamente sensibili.

La desertificazione è la prima piaga: distrugge le terre fertili, scatenando flussi migratori e conflitti allucinanti per risorse come l’acqua o le riserve alimentari. Il Sahara si sta allargando di oltre un terzo della sua estensione. Chiazze desertiche stanno apparendo persino in Sicilia.

La seconda piaga sono gli uragani, sempre più numerosi e devastanti, che distruggono foreste e campi, alimentando quella micidiale spirale che vede gli agricoltori, in   fuga   dalla   desertificazione,  incendiare  o disboscare ferocemente nuovi territori per le loro coltivazioni solo per vederli isterilirsi dopo qualche anno e ricominciare da capo.

La terza piaga colpisce il mare: negli oceani surriscaldati i pesci migrano o si estinguono, mentre le meravigliose barriere coralline, piene di vita, perdono i loro colori smaglianti, disseccandosi e causando la morte di miriadi di organismi.

ImmagineNello stesso Mediterraneo si stanno verificando alterazioni rovinose: la fauna ittica è ridotta ai minimi termini a causa dell’aumento della temperatura, delle spaventose concentrazioni di catrame e di altre sostanze tossiche, della pesca incontrollata e distruttiva e della colonizzazione massiccia di specie aliene provenienti dai tropici. La crescente aridità dei terreni aggrava costantemente l’abuso di fertilizzanti, i quali, scaricati in mare dai fiumi, provocano un’eccessiva proliferazione di alghe, le quali a loro volta esauriscono l’ossigeno marino e condannano i pesci all’asfissia. Si tratta di fenomeni documentati, tanto più ignorati dall’opinione pubblica quanto più descritti nel dettaglio, e che minano la biodiversità la stabilità, la solidità economica non solo delle nostre terre, ma soprattutto di quei Paesi sfortunati da cui già dreniamo ricchezze in mille altri modi, causandone direttamente o indirettamente la povertà e la barbarie.

Non ci sentiamo responsabili? Immaginiamo le molecole di gas serra, generate dalla combustione all’interno dei nostri milioni di motori, fluttuare accanto a noi, per poi salire in cielo a miliardi, verso altitudini indescrivibili. Immaginiamole fluire nei venti e nell’azzurro, e dirigersi a Sud, sempre più a Sud, fino immergersi nell’abbacinante luminosità equatoriale. Immaginiamole mentre assorbono il riflesso di quella luce, rimandandola verso il suolo, sempre un poco di più, infondendo energia all’inferno in espansione molte miglia più in basso, polverizzando quel sublime colore verde, così vitale, nel quale vivono moltitudini di uomini. I nostri fratelli, scuri di pelle e di disperazione, che raccogliamo a migliaia nel mezzo del Mediterraneo, sono braccati dai mostri e dai demoni che abitano quell’inferno, demoni che noi abbiamo dato alla luce e che continuiamo a nutrire con cura. I migranti sono solo un segno premonitore di un castigo divino che ci colpirà più presto di quel che crediamo.

Contro il “realismo”

È divertente notare come interi popoli abbiano creduto con fede incrollabile all’Apocalisse quando era vagheggiata per via mistica, mentre ora che essa non solo è scientificamente dimostrata, ma si sta già verificando, l’umanità intera neghi la sua evidenza, sprofondando nell’apatia. Ma ora, grazie ai nostri occhiali speciali, ne avvertiamo l’incombere, l’angosciosa  prossimità,   la   straziante  sensazione di aver realizzato troppo tardi la verità.

L’unica cosa che ci darà pace, a questo punto, è anche l’unica certezza che abbiamo maturato: dobbiamo agire, altrimenti non lo farà nessuno. Le nostre classi dirigenti, salvo pochissime eccezioni, hanno ben poco interesse a riformare da cima a fondo il nostro sistema: il loro scopo è mantenersi al potere, e per loro è molto più conveniente agevolare i grandi investitori che traggono le loro ricchezze dalle falle del sistema stesso, evitando al contempo contrariare le masse maggiormente preoccupate che la via verso il baratro sia comoda piuttosto che del baratro stesso.

I nostri governanti si sentono a posto con la loro coscienza, perché proteggono la nostra economia da uno sforzo improbo (infatti non avrebbero mai il coraggio di imporre ai ricchi e alle lobby i sacrifici che impongono ai più umili), e ritengono di garantirci la prosperità. I loro maggiori alleati, oltre alle varie cricche e agli indifferenti, sono coloro che amano definirsi “realisti”. Questi ultimi si schierano apertamente dalla loro parte, affermando che, soprattutto in un periodo di crisi come questo, la salvaguardia degli “equilibri economici” viene prima di tutto, che bisogna mantenersi competitivi, difendere l’indotto generato dagli idrocarburi e via blaterando. Quello che non capiscono è che il nostro sistema economico fa parte di un sistema globale grande quanto l’umanità, e che questo sistema a sua volta poggia su un altro ancora più grande: l’ambiente. Se l’ambiente crolla, noi crolleremo con lui. Non si può tagliare il tronco e sperare che la chioma resti in piedi.

Smantellate dunque la non importanza e la non urgenza della questione ambientale, sopravviene l’interrogativo più bruciante: come si può evitare il crollo? I realisti torneranno alla carica, insistendo che non esiste alcuna alternativa concreta agli idrocarburi come fonte di energia. Ma sappiamo bene che non è così: interi paesi producono la quasi totalità della loro energia elettrica sfruttando le rinnovabili. Gli Stati scandinavi sono il caso più noto, ma parecchi altri stanno seguendo il loro esempio. Esistono efficienti mezzi di trasporto a idrogeno, o meglio ancora completamente elettrici, e la ricerca sui biocarburanti sta dando risultati sorprendenti, e ne darebbe ancora di più se fosse adeguatamente finanziata da governi illuminati.

Messi alle strette, ai realisti resta un ultima carta da giocare, un ultimo appiglio su cui far leva: la comodità. Travestita e razionalizzata, naturalmente. Sosterranno che non potremo mai essere come la Svezia, che è impossibile per un qualunque cittadino lottare contro i poteri forti che difendono lo status quo, che non esistono comportamenti efficaci per mettere in atto il cambiamento, perché purtroppo la gente sarà sempre uguale e certe cose funzionano e funzioneranno sempre così, e non ci si può far nulla. Si sbagliano. Certe cose funzionano così perché siamo noi a farle funzionare così, e se continuiamo a immaginare che domani non sarà possibile cambiare, nulla cambierà neanche dopodomani e neanche fra trent’anni.

ImmagineAllora sarà troppo tardi, e malediremo noi stessi e la nostra idiozia, prima di un’agonia lenta e atroce. Se tentiamo, quantomeno avremo una possibilità; se non tenteremo, saremo sicuramente spacciati. Alziamo il tiro: così almeno una parte dei nostri obiettivi li raggiungeremo. Il realismo dev’essere nella tattica, non negli ideali. I cosiddetti realisti gongolano trionfanti, con un ghigno che esprime tutto il masochismo della loro ideologia, quando domandano come può un qualunque cittadino, in concreto, provare a lottare contro l’inquinamento. Si rifiutano prendere in considerazione, che, anche escludendo l’attivismo in senso stretto, esistono molti modi per nulla complessi e molto efficaci. Ecco i primi che vengono in mente: diventare consapevoli  delle  falle  del  sistema,  di  chi  le sfrutta e di come le sfrutta è il minimo indispensabile. Come fare? Leggendo e informandosi. E rendere gli altri consapevoli e provare a stimolarli ad agire è ancora meglio.

Evitare di comprare l’ennesimo fuoristrada che non sfiderà mai un sassolino sul liscio asfalto è un’altra buona azione. Come riuscirci? Usando i piedi e i mezzi pubblici.

Conoscere i modi in cui vengono prodotti gli alimenti, prediligere il mercato al supermercato e i prodotti a chilometro zero a tutti gli altri è un notevole passo avanti.

La possibilità di votare in un referendum contro i paladini del petrolio, poi, è il massimo, la via di accesso al paradiso. Nel ’68 il problema non si sarebbe nemmeno posto.

E se la vicinanza della catastrofe, la silenziosa presenza dei potenti iniqui, il laido rictus dei politici che istigano i cittadini a disertare la democrazia, l’indifferenza dei propri compagni non sono una motivazione sufficiente, si può pensare al mare. Quel mare così blu e sfolgorante in cui amiamo tuffarci, d’estate. Io penso a quello in cui mia nonna è cresciuta: figlia di un ammiraglio, ha imparato a percepirne la meraviglia.

Penso ai suoi racconti di quando si immergeva nel mare terso e limpido, al tramonto, e l’acqua era ricca di pesci e crostacei di ogni specie, di alghe colorate, di molluschi di ogni forma e dimensione, e poteva trovarvi dei ricci di mare dal sapore squisito, da mangiare senza il timore che fossero contaminati. Quando calava la notte, ad ogni bracciata si accendeva una scia fosforescente di plancton, dalla luce misteriosa e suggestiva, come se rispecchiasse il bagliore delle stelle.

Ora il mare è meno affascinante: quasi ovunque è ricoperto da schiume nauseanti, invaso da alghe morte, torbido di giorno e tetro la notte. I pesci sono pochi, e ci sono giorni in cui da ogni onda si emana un penetrante odore di benzina. Penso che vorrei vivere in un mondo in cui la natura sia quella, sublime, in cui sono vissuti i nostri nonni, è che forse non potrò. Il futuro si apre, ignoto, davanti a noi: dobbiamo fronteggiare le sfide che i nostri tempi ci pongono, altrimenti saremo inadatti alla sopravvivenza, e in senso letterale. Pensiamoci, quest’estate, quando guarderemo il mare…

ALESSANDRO VIGEZZI

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