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A Selene

Selene,

i pensieri, finché non vengono scritti, sono solo pensieri che si confondono con l’aria appesantita dallo smog di una città fin troppo grande per i nostri piccoli sogni, e quindi entra in gioco la scrittura, e io insieme a lei.

Io non sono nessuno. Cioè, qualcuno sarò sicuramente, però ancora non sono sicura di Continua a leggere

Metamorfosi

Metamorfosi incosciente. Ho iniziato ad aver freddo alla punta delle dita, poi alle mani, alle braccia, al petto, poi il freddo è scivolato alle gambe e salito al viso. Ma soprattutto è penetrato nel cuore. E lì si è fermato. Il mio cuore, non avendo mai conosciuto ciò, decise di non giudicare senza aver prima pienamente provato. Lo assorbì dalla mia pelle e ci si immerse. Innocente. Credendo di essere più forte. Non potrà mai testimoniare se fu un bene o un male, intrappolato ancora in un eterno gelo.

ELEONORA PAPOTTO

I corpi sbiaditi

Osservare, l’osservare è una cosa diversa dall’avere gli occhi aperti. Ho provato ad aprire gli occhi e a togliermi di dosso la loro pigrizia, dovuta un po’ all’abitudine e un po’ alla noia. Mi sono accorta di quanto sia interessante accorgersi delle piccole cose, delle piccole persone, che poi sono dei piccoli personaggi. I personaggi che mi circondano e che grazie all’attenzione di qualcuno che si è levato lo sguardo pigro di dosso diventano importanti e li leggi nei libri e li vedi nei film. Camminando mi trovo accanto ad un ragazzo. Continuo accanto a lui. Lo ascolto, sì, perché parla al telefono. È fuori per lavoro e abita in una casa con le finestre rosse, dice che a Roma si riconosce la sua casa con le finestre rosse. È tutta sua quella casa. Chiude la chiamata. Si gira, continuo dietro di lui, lui controlla se qualcuno lo sta seguendo. In effetti ci sono io, ma continuo camminando e non mi fermo. Lui si era girato ma non si era accorto, lo faceva sempre prima di ritirare al bancomat, “non si sa mai”. Ritira e ricomincia la corsa, sì, perché va veloce, sempre per quello che gli permettono i pantaloni da cui sbucano le mutande grigio-verde. Fa passi lunghi ma scoordinati, sì, perché oltre al fatto dei pantaloni ha un braccio rotto e quindi un gesso pesante che gli parte dalla mano e arriva fin sotto la spalla. Il gesso lo nasconde un po’ sotto la felpa larga, sul blu. Quando cammina fa rumore, “blablablasdrushsrushdilndlindlin”, parla al telefono, poi smette, trascina un po’ i piedi e c’è un continuo rumore di chiavi, quelle della casa con le finestre rosse. Finita una chiamata ne aspetta un’altra, ma stavolta non di lavoro, stavolta aspetta con ansia, un po’ agitato. Aspetta, ma poi non ce la fa più, la chiamata la fa lui. Ci tiene a quella persona e anche se è agitato ha fretta ed è circondato da rumori che lui stesso provoca, parla in modo dolce, calmo. Si ferma, semaforo. Sono accanto a lui, occhi chiari chiari chiari, belli, verdi, un po’ azzurri, la pelle è abbronzata ma non scura. Guardandolo penso al papà di Arturo, il bimbo che a Procida era un principe, anche se si vestiva di stracci. Verde, lo lascio andare.

SOFIA NAGLIERI

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