C’era una volta un juju

In uno dei passi più crudeli ed ingloriosi della storia della filosofia, Hegel descrive l’Africa come una terra priva di razionalità, dove gli uomini vivono solo secondo passione, crogiolandosi nello stato di natura come selvaggi, senza una cultura e senza una storia degne del loro nome. Le affermazioni che il filosofo ha fatto sull’Africa durante le sue lezioni – compendiate nelle “Lezioni sulla filosofia della  storia” – sono famose per la loro ottusità e prive di qualunque interesse didattico. Rappresentano tuttavia con estrema precisione il pregiudizio antropologico che l’Occidente ha avuto in età moderna nei confronti delle culture africane o asiatiche. L’uomo europeo, nel solco della peggiore lezione di Isocrate, si è per lungo tempo reputato intellettualmente superiore agli altri da un punto di vista culturale, dove con cultura si intende anche il modus vivendi, la capacità di relazionarsi con gli altri, con il mondo.

C’è un dato che spiega molto bene questa mentalità. I coloni francesi (i coloni, non di certo gli intellettuali di più alto rilievo) erano soliti definire “giocattoli” – joujoux, in francese – gli oggetti religiosi delle popolazioni dell’Africa occidentale. I talismani in legno ed ossa di animale, le maschere di zucca dipinte con tinte tribali, i tamburi in pelle di capra che accompagnavano i riti magici delle tribù, tutto l’artigianato africano in  generale, religioso e non, era, per i coloni, solo un joujou: un giocattolo per bambini. La mentalità eurocentrica dei coloni li spingeva automaticamente a respingere i simbolismi africani poiché incomprensibili ai loro occhi, quasi ridicoli. La venerazione di un simbolo che non ci appartiene rende la venerazione stessa quasi buffa agli occhi delle masse che non vi credono. Per molto tempo gli europei hanno ridicolizzato le religioni sciamaniche o animistiche dell’Africa o del Sud America fino a renderle immagini commerciali, stereotipi, veri  e propri  joujoux, giocattoli. Il modo in cui i coloni  francesi ridicolizzavano le religioni tribali ricorda quello in cui Celso era solito ridicolizzare il cristianesimo ai suoi albori,  ed intelligenti pauca.

Del discorso hegeliano sull’Africa andrebbe ignorato tutto fuorché la consapevolezza che le popolazioni africane, nelle loro religiosità tribali, hanno un rapporto più passionale con se stessi ed il mondo naturale rispetto agli occidentali, laddove con “passionale” si intende non-razionale, estatico, dionisiaco. Hegel vedeva questa componente passionale delle religioni tribali come sintomo di una cultura inferiore: questo fu il suo errore imperdonabile. Nietzsche, forse, ne sarebbe rimasto incantato, data la  suggestione filosofica che gli procurava la figura di Dioniso. Le religioni tradizionali sciamaniche e animistiche sono indice di una più stretta vicinanza tra gli uomini e la natura, dove la realtà fenomenica del mondo è divinizzata, cessa l’alienazione dell’uomo  da se stesso ad opera della dicotomia ontologica e si entra in una dimensione in cui tutto il reale è reso divino, ed è quindi denso di simboli, totem e tabù che a noi occidentali, irrimediabilmente scettici e cristiani nel modo di ragionare, risultano astrusi e infantili, ma che hanno la medesima dignità culturale dei nostri simboli, dei nostri totem e dei nostri tabù. Chiunque si rivolga alle antichità greche e latine non può sdegnare le civiltà africane senza cadere in una pesante contraddizione : Dioniso   era  nero.  I  riti  africani  mirano infatti  al raggiungimento di stati dionisiaci, puntano allo squarciare il velo di Maya. Fu Nietzsche a notare che nella tragedia eschilea “tutto l’esistente è reso divino”. Ogni religione panteistica divinizza l’esistente più di quanto non faccia una religione monoteistica come il cristianesimo, che sdegna la vita secondo la carne nello stesso modo in cui il platonismo sdegna il soma. Le religioni tradizionali dell’Africa, ridicolizzate dai cristianocentrici coloni francesi, sono quelle che al giorno d’oggi più si avvicinano ai culti dionisiaci, posti alla base di un ampio pezzo della nostra cultura. La storia del pensiero occidentale ha poi deviato il suo corso verso un rapporto più razionale con la realtà, meno impulsivo, più mediato, ed ora una mentalità di questo tipo esce fuori dagli schemi della nostra cultura fino a rendersi incomprensibile.

Ci sono alcuni casi  di cronaca che mostrano con chiarezza le incomprensioni profonde che nascono tra queste due opposte, chiamiamole così, “categorie dello spirito”: quella occidentale, di stampo  cristiano,  e quella tribale, di stampo animistico. Vengono ora esposti. Torniamo per un attimo ai coloni francesi. Con il tempo il termine joujou è mutato in juju e si è allargato fino a comprendere non soltanto l’oggettistica religiosa, ma la totalità delle religioni dell’Africa Occidentale. Spesso gli elementi tribali si  sono commisti al cristianesimo  in  seguito  alla colonizzazione, dando origine ad una complessa religiosità che cerca di unificare queste due realtà spirituali estremamente differenti. In numerose popolazioni ancora molta importanza  è  data, comunque, alla  componente  tradizionale  della religione: la natura è considerata divina, mossa da piccole divinità, spiriti, demoni. Il juju è dunque tuttora estremamente importante nell’Africa francese. La passionalità di queste religioni ha sugli  individui risvolti non ascrivibili alla  psicologia  occidentale, e crea traumi che spesso essa non può risolvere, poiché non arriva a comprenderli. Porre l’attenzione su questi risvolti traumatici aiuta a comprendere quanto notevoli siano le conseguenze pratiche di un discorso che potrebbe, invece, sembrare astratto.

Il juju ha ricevuto l’attenzione della stampa negli ultimi anni, quando è stata scoperta la relazione tra questo e la tratta delle prostitute nigeriane in Italia. Entriamo nel merito. In primis bisogna notare che, a differenza dei flussi migratori clandestini, una tratta, dal punto di vista dei trafficanti, non ha come fine il viaggio stesso, ma lo sfruttamento dei migranti una volta giunti a destinazione. Mentre il trafficante guadagna facendosi pagare per il viaggio, lo schiavista delle tratte, perché di schiavismo si parla, trae il suo profitto successivamente,a lungo termine, per molto più tempo. Le interviste di migranti coinvolti nella tratta e interrogati coincidono nel descrivere il modo in cui essa si alimenta. Nel Paese di origine chi desidera partire  si  rivolge   ai  trafficanti,  che  non  pretendono denaro ma debiti: una volta giunto in Europa, il migrante dovrà lavorare per il trafficante fino a risarcire la somma di 30000, 35000 euro. Fin qui nulla di strano. Uno dei modi che i trafficanti hanno per garantire l’obbedienza di coloro che partono è farli partecipare a un rito tribale – qui entra in gioco la religione, il juju – in cui uno sciamano lancia dentro i migranti un demone, che li ucciderà qualora non onorino il loro debito. Non è, ovviamente,  l’unica garanzia che i trafficanti hanno, ma non è neppure la meno importante. A noi occidentali può  sembrare assurdo, ma è proprio così. Una banale ricerca su Google confermerà il dato riportato. La questione è un’altra: come è possibile che una tale credenza sia così profondamente radicata in un essere umano.

Il juju utilizzato come ricatto esistenziale ricorda il sacrificio di Ifigenia. La natura è divina, l’uomo attraverso un  processo sciamanico –  divinatorio, nel caso di Agamennone – riesce a interagire con le sue forze profonde, con le sue divinità e con i suoi spiriti, ma ad una condizione. Tantum religio potuit suadere malorum, verseggia Lucrezio dalla sua spiaggia epicurea. A lui il noumeno non interessa perché è, appunto, noumeno. A noi invece cosa interessa? Lo spirito o la carne? Qual è il valore della nostra parola, se poi ridiamo di un giuramento fatto in nome del juju? Seguiamo il mondo quale esso ci appare o il mondo quale pensiamo che sia? Il timor Domini cristiano si trasforma qui in un timor daemonis di fronte a cui l’uomo è annichilito, impotente, sottomesso. Ma il juju non è metafisico come l’Inferno cristiano, il juju è interno alla natura, non è nient’altro che la natura nella sua rappresentazione: è la sottomissione della componente spirituale dell’uomo alla componente fenomenica del mondo. Per questo motivo ci appare tanto assurdo, perché noi siamo abituati esattamente al contrario.

Il metodo utilizzato dai trafficanti, ai nostri occhi un vero e proprio joujou, è estremamente efficace. Garantisce l’obbedienza quasi totale di coloro che arrivano vivi in Europa. I migranti coinvolti nella tratta, uomini e donne, che vengono ricoverati o accolti in istituti o ospedali prima di aver estinto il proprio debito vengono distrutti dal terrore della vendetta juju. Subiscono tracolli fisici e mentali. Sentono il peso della parola data e mancata, il soffio di uno spirito che li ucciderà per aver infranto il giuramento. L’uomo, di fronte all’imminenza  della morte, soffre terribilmente . Il juju è per loro una certezza incrollabile, pongono nel credo una fede tale da non lasciare la possibilità di salvarsi: il demone li ucciderà, perché sono certi che esso esiste. È in un certo senso il prezzo da pagare per vivere in un mondo di simboli e spiriti. “Uno stesso dio sono Ade e Dioniso”. Se dove la realtà è sottomessa alla metafisica nasce l’alienazione dell’uomo,  dove essa è divinizzata  nasce la sua tragedia.

MATTIA SCORZINI

 

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