Addio al liceo

Sono stati cinque anni lunghi e pieni, animati dalle bizzarrie e dall’estro dei nostri compagni e professori, e conditi dai loro colpi di genio ed eventuali strafalcioni bipartisan.

Il nostro pane quotidiano sono state clamorose rimonte notturne prima dei compiti in classe, di tale portata da far impallidire l’orgoglio di Nibali, improvvisazioni di argomenti affatto complessi di fronte alle quali i migliori musicisti jazz, sconsolati, appendono i loro strumenti al chiodo, pianificazioni strategiche di futuri programmi di studio alternate a più realistici momenti di ozi di Capua, stravaccati sul divano, da causare la disfatta di almeno una dozzina di Annibali.

Tornano alla mente con insistenza gli accordi internazionali prima del test più tosto dell’anno, siglati sulle note di “Tu passi, vero?” “Certo” “Guarda che l’hai promesso!” “Non dar adito al seme del dubbio che alberga in te” (frase evidentemente detta sotto effetto di bestiali dosi di doping pre-compito, in grado di aumentare notevolmente le prestazioni intellettuali, ma solo quelle), mentre poi cala il silenzio e nessuno si arrischia a passare, secondo l’antico detto “ognun per sé”… nemmeno quelli che hai salvato dalle sabbie mobili, o ai quali la volta scorsa hai fatto integralmente il compito, evitando loro una sensazionale bocciatura del tipo “rimbalzo all’anno precedente”.

Si rimembra l’attesa disperata della consegna dei compiti in classe corretti, con gli occhi che si accendono dell’ingordigia del pirata che arraffa il ricco bottino di fronte a un gran voto, mentre davanti a un prefisso telefonico controfirmato dal demoniaco professore di turno lo sguardo si muta in quello fiero e altero del samurai che non perde la sua dignità nella più nera sconfitta. Le ore passate a tentare di risolvere il più insolubile problema dell’algebra, ovvero come mai un otto o un nove alzino la media di ben 0,12 decimi, mentre un solo cinque ha la misteriosa proprietà di spalancare un buco nero matematico in cui una media infarcita dei più bei voti viene livellata a poco più dell’insufficienza appena ricevuta. I suggerimenti scritti in arabo sulla lavagna appena prima della verifica, le imitazioni dei professori, i rimproveri del docente che gira la testa verso di te proprio nel momento in cui, dopo tre e più ore di spiegazione della letteratura barocca, pensi di poterti rilassare un secondo senza rischi, scambiando una parola con il tuo compagno di banco, che a differenza tua rimane pietrificato e immobile a mo’ di scultura di Prassitele, come se avesse vaticinato da tempo la tua disfatta.

Riaffiorano sulla soglia della coscienza le note messe a te che sgranchisci le gambe, mentre alle tue spalle un amico fa esperimenti di balistica con le palline di carta che ha plasmato la notte prima, sminuzzando più di cento quaderni, testando al contempo sul banco il nuovo ordigno nucleare di Kim Jong-un, mentre la classe intera è intenta a lanciare fuochi d’artificio frammisti a lazzi osceni da quattro anni di reclusione con la condizionale.

Vengono rievocati i gesti di eroica generosità compiuti mentre tutti guardavano puntualmente dall’altra parte, nonché le brillanti risposte alle domande del professore durante la lezione, perennemente dette a mezza voce per la meraviglia di fronte al proprio genio e altrettanto pedissequamente inguattate e gridate con voce stentorea da qualche commilitone nei paraggi, abile a far la faccia dello strenuo difensore del copyright. L’odore di canna, tabacco, tabasco e altre piante rarissime che aleggia su certi angoli del cortile, degno delle più esclusive fumerie portuali di Canton. Gli attimi di gloria alle assemblee d’Istituto. I corsi pomeridiani nell’ora in cui la città intera è immersa nella siesta postprandiale, e tu, proprio tu devi faticare, con il pranzo in digestione che zavorra lo stomaco e le più alte facoltà intellettive. Le interrogazioni in cui si gira intorno alla domanda secondo la consolidata tattica a “orbita di Plutone”. I dribbling alla Messi della professoressa d’italiano, che fa “Questa figura retorica è un’ana…?” e tutti rispondono “Anafora!” mentre lei proferisce trionfante “Anastrofe!”. I mangiatori di spiccioli, a.k.a. distributori automatici, stracolmi di Bounty con le praline e fagiani arrosto con spezie avvolti nel culatello all’entrata a scuola, e sventrati alla fine della prima ora come se fossero passati gli Unni, ad eccezione degli ambitissimi cracker di soia e ghiaia. La guerriglia a inizio anno per i banchi migliori. I bagni con le porte “ad apertura automatica”. Le assenze del docente di educazione fisica, e le conseguenti partite di pallavolo in cortile sotto il sole nel giorno del buco dell’ozono. I professori che spiegano per paradossi ed enigmi, fra appelli alla virtù della classe degni dei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte. Il Vietnam di test di fine quadrimestre, almeno due per materia, dopo che i docenti hanno passato un’intera annata a insegnarci il metodo e l’organizzazione. La sveglia alle otto e ventinove in punto. La torre di Babele delle giustificazioni.

E poi i folgorati momenti di comprensione e di passione verso ciò che si studia, le teorie personali e le intuizioni nel duello a distanza con i grandi del passato di cui impariamo il pensiero e le azioni. L’orgoglio di apprendere materie tanto più importanti quanto più calunniate. Il lavoro duro sui libri, quello che fa crescere davvero, mischiato a vaghi sogni e speranze sul futuro.

Solo ora che il futuro è infine arrivato e bussa alla nostra porta ci rendiamo conto davvero di quanto ci mancherà tutto questo. La nostalgia, il rimpianto, non vanno di moda. Evitiamo questi sentimenti come la peste, altrimenti dovremmo fare i conti con tutto ciò che rende spesso malinconico il nostro presente, e questo non possiamo tolleralo, perché potremmo addirittura provare a trasformarlo in qualcosa di migliore, e questo ci spaventa a morte. Però in momenti come questo sono inevitabili. Solo chi non ha vissuto questi anni non può provarli. Addio, dunque, o Liceo Manara. Spero di dimenticarti il meno possibile, e di rimanere almeno un po’ com’ero quando ho vissuto tra le tue mura e tra i tuoi banchi, insieme ai miei compagni. Ciao IIIB.

ALESSANDRO VIGEZZI

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