Il nome di Umberto Eco

Il mese scorso, a Milano, è morto Umberto Eco, uno degli spiriti più grandi e profondi degli ultimi sessant’anni. Non avrebbe dovuto lasciarci adesso. Non è esattamente un periodo in cui abbondano menti acute e vivaci come la sua. Durante la sua vita in molti si sono scagliati contro le sue idee, e molti altri non ne hanno compreso la portata. C’è poco da stupirsi: anche in un liceo classico come il nostro non sarebbe strano trovare studenti che, pur apprezzando e comprendendo più o meno sinceramente le figure di letterati e filosofi, dentro di sé siano convinti che la letteratura e la filosofia non rivestano davvero importanza, ai nostri giorni… e questo pur confrontandosi quotidianamente con esse. Figuriamoci gli analfabeti di ritorno che imperano incontrastati nella nostra società. In ogni caso, per tutti costoro sarebbe consigliabile conoscere ciò che pensava Umberto Eco riguardo alla lettura e alla narrativa: “Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale. Leggendo romanzi sfuggiamo all’angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul mondo reale. Questa è la funzione terapeutica della narrativa e la ragione per cui gli uomini, dagli inizi dell’umanità, raccontano storie.”

Chi ha lo ha conosciuto lo descrive come estraneo a ogni cliché di studioso rinchiuso in una torre d’avorio, e racconta invece della sua doppia anima, in cui convivevano slanci di idealismo, associati a quella malinconia che è propria della grandezza d’animo, e una ilarità esuberante e pungente, che forse, oltre a essere una sua caratteristica genuina, era anche una forma di compensazione. Su un tratto della sua personalità sono tutti d’accordo: quell’inappagabile desiderio di conoscenza che si esprimeva non solo in un continuo perfezionamento del suo sapere, ma anche nella continua ricerca di confronto con ambienti, situazioni e persone sempre nuove. Maurizio Ferraris, suo amico e allievo, narra come una volta, in procinto di partire per importanti incontri con Sean Connery (sul set del film di Annaud tratto da Il nome della rosa, il suo primo e più famoso romanzo) e con il filosofo Quine, fosse entrato “in un bar dove conosceva tutti, parlando affabilmente con un tizio con una benda nera all’occhio come un pirata”. E il bello è che scriveva come pensava e viveva. Filosofo, artista della scrittura e uomo di cultura, è stato uno dei pochi esempi viventi di filosofia vissuta da uomo, con sincerità e franchezza. Ha consacrato sé stesso alla parola scritta, con diversi saggi, romanzi e pubblicazioni editoriali su L’Espresso, la Repubblica, il Corriere della Sera e molti altri giornali, incapace di scrivere, comincerità e franchezza ma iave per lA to ad nel panorama degli sceneggiati televisivi e di dire, qualcosa di banale o scontato.

Immagine

Guglielmo da Baskerville (Sean Connery), nel film “Il nome della rosa” (1986)

Ma in cosa consiste esattamente la grandezza del suo pensiero? Dove risiede la ragione per
cui era apprezzato da chiunque lo ascoltasse, facendo venire voglia di studiare, come raccontano, alle persone più insospettabili? L’unico modo per comprenderlo è leggere le sue parole indimenticabili. Ad esempio quelle de Il nome della rosa, romanzo avvincente e dalla qualità letteraria enorme, che riesce a coniugare in maniera sorprendente la riflessività e l’erudizione filologica  al  ritmo concitato e appassionante dell’azione. La storia è ambientata in una fittizia abbazia medievale, nel quattordicesimo secolo, dove si trova la più ricca biblioteca della cristianità, e dove si sta per tenere un incontro cruciale fra una legazione del corrotto papato di Avignone e i francescani in lotta per riportare la Chiesa all’originaria purezza e povertà (la loro battaglia non si è ancora conclusa, a quanto pare…), e che rischiano di essere tacciati di eresia ed eliminati. In quel lasso di tempo, il francescano ed ex inquisitore Guglielmo da Baskerville viene incaricato dall’abate di indagare sulla serie di omicidi che sta funestando il monastero. La vicenda viene narrata dal punto di vista del giovane allievo di Guglielmo, Adso da Melk, che con la sua ingenuità e il suo ardore riesce a far emergere tutti i significati nascosti del romanzo, spingendo il lettore a identificarsi in parte con lui. Gli avvenimenti si susseguono: gli scontri fra le due fazioni, le ulteriori uccisioni di monaci, l’entrata in scena dell’Inquisizione, la condanna di alcuni innocenti come capri espiatori, il proseguio dell’indagine di Guglielmo, fra ambigui indizi. Si scopre che i delitti sono legati alla labirintica e inaccessibile biblioteca, e che sono stati commessi da uno dei monaci allo scopo di impedire la divulgazione del contenuto del Secondo Libro della Poetica di Aristotele. L’opera del Filosofo, infatti, esalta il riso e l’ironia ad  armi  dell’intelletto,  e  viene giudicato dal misterioso monaco come mortalmente sovversivo per l’ordine della cristianità, fondato sul “timor di Dio”.

 

Aldilà della bellezza di questo romanzo, mentre lo si assapora ci si rende subito conto di quanto sia carico di profonde suggestioni. Proviamo a interpretarle a partire dal loro autore, che sappiamo essere esperto di estetica medievale e soprattutto, uno dei più illustri semiologi di tutti i tempi. Ma cos’è la semiotica? In parole povere, è quella scienza che studia i segni usati per comunicare, e le loro relazioni sia con gli altri segni che con la cosa reale a cui si riferiscono, detta appunto “referente”. Di conseguenza la semiotica è anche, per dirla con le parole più argute dello stesso Eco, la disciplina che esamina “tutto ciò che può essere usato per mentire”. Il che non è da poco. Secondo Eco, la relazione fra segno e referente non è assoluta, ma del tutto arbitraria, determinata tanto dal soggetto che interpreta il segno quanto dal contesto di segni (il codice) in cui esso è immerso, ovvero l’ambiente. Complicatissimo? Forse solo in apparenza: in partica Eco è stato capace di analizzare in maniera scientifica perché “tartufo” viene recepito come “der Teufel”, ovvero “il diavolo” da un tedesco, per fare un esempio terrestre, e perché, quando cerchiamo il significato di una parola sul dizionario, troviamo altre parole a spiegarcelo, in una serie sterminata di rimandi ad altri segni riferiti ad altre cose reali. È più chiaro ora?

Guglielmo da Baskerville, nel romanzo, non fa che interpretare segni estremamente frammentati, tentando di collocarli nel giusto contesto nel quale significhino qualcosa, e questo è ciò che fanno tutti, ogni giorno, senza rendersi conto dell’estrema competenza        e flessibilità di pensiero necessarie anche solo per intuire una parvenza di come realmente stiano le cose. Non è un caso che l’universo dei segni sia costituito dall’immenso labirinto della biblioteca, meravigliosa allegoria della vita, dove vi è il continuo rischio di perdere i propri punti di riferimento, e di non riuscire a risolvere gli enigmi essenziali per la propria sopravvivenza. Quante persone ritengono di avere in mano la verità, per poi ritrovarsi persi e senza una via d’uscita a un certo punto della propria vita?

Immagine

Rocca Calascio, in Abruzzo, set di parte delle scene de “Il nome della rosa”

Altro tema chiave è l’importanza dell’ironia e del rovesciamento comico, in un mondo in cui spesso e volentieri, dietro un’apparenza di serietà e di giustizia si celano crimini e paradossali mostruosità. L’ironia è uno strumento potentissimo, che ci rende coscienti dei nostri limiti e ci consente di rivalutarci costantemente. Emerge anche la problematicità del riso, nella critica neanche troppo velata a una società in cui troppo spesso si ride troppo, disprezzando ciò che è alto e precipitando nella bassezza generatrice di mostri dell’animo, ma ne si esalta anche il suo valore come arma per liberarsi da ogni falso idolo, smascherando ogni erronea relazione tra segni e realtà, una dolce medicina per rendere accettabile una vita in cui, come ci insegna la semiotica di Eco, le conclusioni a cui si giunge non sono mai definitive, ma necessitano di una continua reinterpretazione. Questa consapevolezza è ciò che distingue le persone che davvero fanno la storia: esse sono come Guglielmo da Baskerville, idealista ma non fanatico, menti fervide ma spesso incomprese e osteggiate dagli altri, e che però non rinunciano a tentare di percorrere l’angusto sentiero verso un mondo migliore. Il loro è un contributo silenzioso perché ignorato da chi non ne comprende l’importanza, ma è grazie ad essi se il mondo non precipita definitivamente nella catastrofe.

 

Umberto Eco ci avrebbe probabilmente fulminati se avesse saputo che abbiamo scritto così tanto riguardo a Il nome della rosa, perché riteneva che i suoi romanzi successivi fossero di gran lunga migliori, ed era conscio della particolare maledizione riservata agli scrittori, invariabilmente associati dal grande pubblico alla loro prima opera. Ci perdoni, non abbiamo potuto resistere. Ma non possiamo nemmeno dimenticare gli altri suoi splendidi scritti, come Il pendolo di Foucault, L’isola del giorno prima o Il cimitero di Praga, solo per citarne alcuni, nonché le sue trattazioni specialistiche e la brillante rubrica La bustina di Minerva. L’indagine critica era il suo mestiere, il sorriso la sua forza, la cultura la sua spada. Fine conoscitore di persone e acuto osservatore dei suoi tempi, ha descritto alla perfezione la realtà della nostra società dopo il crollo del muro di Berlino e l’avvento dell’era digitale, ossia la realtà di una società liquida, in cui le ideologie si sono spaccate in minuscoli frammenti, numerosi quanto gli individui, in cui Internet ha generato una sovrabbondanza dinamica di informazioni che non sempre risponde a qualità. Con opinioni fatte apposta per provocare e per indurre a riflettere, espresse con socratica, mordente perseveranza, ha sottolineato più volte l’imprescindibilità della formazione di una coscienza critica, soprattutto nei giovani, per orientarsi in questo oceano di informazioni che nessuno potrebbe sperare di arginare. A differenza della massa degli increduli e degli incoscienti, ha avuto il coraggio di puntare l’indice contro le falle della società digitale, colpevole di non occuparsi dei nuovi ultimi da essa creati, “i dannati della rete, ormai incapaci di sottrarsi al rapporto solitario e fascinatorio con lo schermo”, condannati a un infelice isolamento dagli altri e dalla vera vita. Un baratro, non dimentichiamolo, nel quale tutti rischiamo di cadere.

ImmagineQuasi tutto ciò che Umberto Eco ha scritto sembra rispondere alla definizione che egli
diede di romanzo, ovvero “opera aperta”, “macchina per generare interpretazioni”, valido in quanto evoca e fa emergere “le contraddizioni dell’esistenza” piuttosto che esporre delle conclusioni come fa un saggio. Lo stesso titolo de Il nome della rosa è un raffinato gioco letterario volto a esprimere proprio questa idea. Esso deriva dall’ultima frase del libro, stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, ovvero: “permane la rosa primigenia con il suo nome, noi abbiamo soltanto nudi nomi”. Un modo per dire che, per quanti segni possiamo interpretare correttamente, ci   sarà   sempre   qualcosa   che   non   riusciremo   a raggiungere, ed è per questo che la storia di una vita non   sembra    avere    alcun    significato   di    fronte   agli irrisolvibili misteri dell’esistenza. Questo ci racconta il finale, tragico ed epico, del primo romanzo di Eco, in cui forse, si può scorgere l’origine della sua intima malinconia: tutto finisce, e non si saprà mai perché sia esistito. Questa è la suprema metafora della condizione umana: se tutte le rose scomparissero, il nome con cui le chiamiamo perderebbe il suo significato. Vale per ognuno di noi. Vale anche per te, Umberto Eco, che hai saputo raccontarcelo. Tu adesso non esisti più, e rimane soltanto il tuo nome. Ma a parlare di te sono rimasti i tuoi segni, le tue splendide parole, e ad esse ci rivolgeremo quando vorremo contemplare la bellezza del mondo che tu vedevi. Grazie per avercene fatto dono.

ALESSANDRO VIGEZZI

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Google photo

Stai commentando usando il tuo account Google. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...