Vapore

Non c’era certezza, quella mattina; premevi il naso (freddo, freddissimo) contro il vetro della finestra in soggiorno; guardavi i raggi del sole riflettersi sulla strada, lontana. Sicuramente è colpa della luce, pensasti; rende chiaro tutto. Chissà… La visione sull’esterno cominciava ad annebbiarsi, a causa del vapore prodotto dal tuo respiro lento e profondo; ti sentisti meglio, allora, in quelle immagini indefinite.

Sapevi, eppure non avresti voluto.  Continuavi a pensare, rimanendo in una sorta di apnea esistenziale; il movimento dei tuoi occhi era rapido, attento, affilato. Che cosa eri?

Intanto, il profumo del caffè pronto in cucina aveva raggiunto ogni stanza; andasti a vedere. Nell’essere – così – in solitudine nel tuo caos, ti accorgevi di tutto: ricordo che ti distraesti, e ti fermasti a guardare sul muro i giochi luminosi che si venivano a creare con le fessure delle tapparelle, socchiuse; hai sempre amato la penombra, e quei tagli di luce. Credevi potessero rappresentare l’esistenza, almeno un po’.

Proseguisti verso il caffè; ‹‹ Una pausa ›› dicesti sottovoce, come se ti stessi giustificando con qualcuno in particolare. Ti sedesti, rannicchiandoti, sul cuscino della sedia in legno; abbracciavi le tue stesse gambe, nude, poggiando la guancia destra sulle ginocchia; ti faceva sentire a tuo agio, quella posizione. Osservavi la parete. Che cosa stava accadendo? Fondamentalmente sapevi di non voler essere compresa; non in quel momento. Desideravi, però, che lui potesse condividere il tuo respiro – questo sì. Non ci sarebbe stato bisogno di spiegazioni; di altro. Ecco perché.  Sapevi, pensavi; ma non c’era certezza.

Finisti il caffè, amaro. Una volta poggiata la tazzina nel lavandino, camminasti in punta di piedi in direzione del soggiorno – di nuovo. Con una mossa confusa e poco aggraziata (sorprese anche te un tale gesto inusuale), ti buttasti sul divano – stanca. ‹‹ Oggi non voglio essere me; anche perché non lo sono ›› dicesti, ancora, come se parlassi con qualcuno lì – con te.

Ti sistemasti, sdraiandoti. Ricordo che ti girasti sul fianco sinistro, rivolgendo il viso verso l’interno, sui cuscini; stendesti le gambe, come per cercare, per toccare qualcuno sul fondo. Chiudesti gli occhi nel tentativo di cedere ad un sonno sereno che, da tempo, non riuscivi ad avere. Contraesti lievemente le sopracciglia. Forse volevi piangere; forse. Di sicuro ti avrebbe fatto bene.

Ricordo anche che la tua schiena e i tuoi fianchi si muovevano seguendo il ritmo scandito del tuo respirare così, in quel modo dolce e fragile. Il tuo corpo chiedeva aiuto, in silenzio; senza saperlo.

Il suono forte delle pulsazioni del tuo cuore non ti permise di addormentarti. Ma perché tanto terrore?

Fosti percorsa da un brivido; non era solo freddo, ne eri perfettamente consapevole. Nonostante fosse una mattina di gennaio, la tua pelle era tepida sotto quelle coperte. Profumavi di buono, di grazia.

Ricordasti di quando tutto era diverso, di quando alcune persone non esistevano nella tua vita. Chi, di preciso? Sentivi che “il Divenire” (come lo definivi tu) dovesse avere qualcosa di necessario, se non tutto. In fondo, eri felice di come stessero procedendo alcuni progetti, alcuni piani. Ti accorgesti che ti mancava, pur essendo lì – sì. Ti rimaneva, però, la sicurezza di sapere che alcune cose non potevano cambiare; non dovevano cambiare. Non sarebbero cambiate.

 

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