Le fragili speranze della Conferenza di Parigi

L’ecosistema è a rischio: la COP21 prova a rilanciare la lotta alle emissioni di gas serra

“Homo sum: humani nihil a me alienum puto” “Sono un uomo: non c’è nulla dell’uomo che non mi tocchi.” Così scriveva Terenzio, eppure sembra che ora all’uomo non interessi più ciò che lo riguarda da vicino. L’essere umano, specie vivente, autoproclamatosi padrone del pianeta Terra, che lo ospita e gli dona la vita, è un animale arrogante e stupido. Avido al punto da scegliere di coprirsi gli occhi, sembra completamente disinteressato e sordo alle urla di dolore (ormai affiancate da quelle di rabbia) che il pianeta sta lanciando, sempre più prossimo ad una situazione di non ritorno. La Terra sofferente da troppo tempo, cerca invano di avvertirci: la cappa di anidride carbonica nell’atmosfera, creata dall’uomo stesso, che sta facendo sballare gli equilibri di un sistema di per sé naturalmente perfetto, minaccia la vita di tutti, inclusa quella del colpevole. Ma noi preferiamo non pensarci, troppo attaccati al denaro e a questa economia ormai infetta, malata del cancro della stessa società che proprio essa contagia. L’ignoranza dell’uomo sta mettendo a rischio la vita del nostro pianeta, ma le istituzioni non sono mai sembrate davvero interessate. Fino ad ora.

Il testo approvato alla Conferenza sul clima di Parigi, terminata lo scorso 13 dicembre, parte da un presupposto fondamentale: “Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta”. Richiede pertanto “la massima cooperazione di tutti i Paesi” con l’obiettivo di “accelerare la riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra”. Nell’accordo, che entrerà in vigore nel 2020, i paesi firmatari si impegnano a limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Tuttavia, non vengono fissati dei limiti nazionali alle emissioni.

Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, i tagli promessi sono insufficienti ma l’accordo prevede inoltre che ogni cinque anni, a partire dal 2018, siano esaminati i progressi fatti nella riduzione delle emissioni da parte di tutti i Paesi, per assicurarsi che l’obiettivo globale venga raggiunto. Scienziati e ambientalisti criticano l’accordo per diversi motivi. Fissare il primo controllo nel 2018, infatti, è rischioso a causa della quantità di emissioni che potranno essere prodotte in questi tre anni, che potrebbero compromettere il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo. Inoltre non è stato stabilito un calendario che porti alla progressiva, ma totale, sostituzione delle fonti energetiche fossili. Si deve però far presente che, a differenza di sei anni fa, quando l’accordo si era arenato, questa volta ha aderito tutto il mondo, o quasi, compresi i più grandi inquinanti: oltre all’Europa, gli Stati Uniti, l’India e la Cina. L’accordo sul clima di Parigi, infatti, va considerato di portata storica non solo perché universale, in quanto approvato da quasi tutti i paesi della Terra (195 Stati), ma perché gli stessi hanno riconosciuto che il riscaldamento globale è un fenomeno di dimensioni mondiali e quindi va affrontato insieme, e da tutti.

Sicuramente gli accordi presi non sono Immaginesufficienti per evitare danni irreversibili al pianeta: tanto sono impegnativi ed ambiziosi gli obiettivi che l’accordo si prefigge, quanto deboli e scarsamente credibili sono i mezzi proposti per realizzarli; sarebbe necessario introdurre delle sanzioni, da applicare qualora uno stato non rispettasse gli accordi. Inoltre, si dovrebbe puntare sulle energie pulite, energie che aiuterebbero la riduzione delle emissioni di gas serra, senza danneggiare ulteriormente gli equilibri della Terra.

Come affermato da Roberto Palea, presidente del Centro Studi sul Federalismo “il fatto è che un accordo internazionale può “fotografare” una situazione statica ma non serve per governare una realtà dinamica, in continuo movimento e largamente imprevedibile qual è quella climatica. È impossibile che 195 Stati riescano a esprimere “insieme” qualsiasi politica comune nel settore ambientale, senza preordinare un’istituzione sovranazionale cui venga demandata l’attuazione di detta politica comune, adeguatamente finanziata. I miglioramenti che si produrranno, sicuramente insufficienti, non saranno la conseguenza di misure comprese nell’accordo di Parigi ma il risultato delle iniziative individuali degli Stati, della logica degli eventi e dell’azione delle forze del mercato (così come, d’altronde, è successo con il protocollo di Kyoto).” Sapere, però, che questo accordo ha coinvolto quasi tutti gli stati del mondo fa sperare in un cambiamento effettivo e, forse, imminente.

CHIARA CATALDI

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