Immunità paradossale

Quello squarcio azzurro di cielo. Così terso, così intenso, incorniciato dai rami di un pino. Quel dolce oscillare delle fronde, così rilassante, così irreale. E quei volti che facevano capolino nel suo tratto di cielo. Rovinavano la perfezione della scena. Ma cosa volevano? L’unica cosa evidente era che quelle facce impertinenti di sconosciuti laceravano il suo idillio.

Si era svegliata in ritardo, che novità. Le sue tre quattro sveglie erano suonate almeno una decina di minuti prima, ma erano state deliberatamente ignorate. La coscienza le suggeriva di alzarsi, ma lo stress per l’interrogazione imminente, e la stanchezza strascicata per la fine della settimana le impedivano di muoversi. Non mi bocceranno, si diceva. Non lo potrebbero mai fare. O forse si.

Decise che era meglio alzarsi e farsi una doccia. Non aveva fretta. Sara le diceva che doveva prendersi il suo tempo, che non doveva ignorare le sue necessità, che il suo tempo non correva di pari passo a quello imposto. Dunque lentamente si alzò con i vestiti in mano – quando si dice prendere qualcuno alla lettera -. Invece sua madre fretta ne aveva. Ma come al solito il tempo per lamentarsi non mancava. La ragazza si stava sciacquando il viso mentre le giungeva all’orecchio un blaterare monotonale.

Divertita si osservò sulla superficie dello specchio. Le filippiche di sua madre in genere la innervosivano ma in quel momento non si sentiva assolutamente toccata. Poteva con disincantato cinismo esserne esente – Sara sarebbe stata fiera di lei- anzi quasi si dispiaceva per tutto quell’affaccendarsi. Lei era immune, era diventata il nuovo “sapiens stoicus”,  niente poteva affliggerla oramai. Sua madre la salutò frettolosamente. A malapena la ragazza riuscì a risponderle. Ma cosa importava … si prospettava il classico imponente venerdì, lezioni, campanella , speranza per il weekend alle porte ma pomeriggio passato a studiare.

Diede un’occhiata veloce all’orologio,  a quest’ora sarebbe dovuta essere già alla fermata dell’autobus … pazienza si disse. Non poteva assolutamente uscire di casa in quelle condizioni. Al volo si passò uno strato di rimmel, un po’ di rossetto, copriamo pure quelle occhiaie, afferrata la borsa e via. Corse giusto in tempo e spinse cercando di entrare su quell’inferno di autobus, ambiente ottimale per le ricerche di sociologia.

Ma non le interessava che il tizio davanti a lei avesse l’alito pesante, che la suora si lamentasse dei giovani che andavano a quell’ora scuola e occupavano l’autobus con i loro zaini ingombranti, e che l’altro tipo dall’aspetto poco rassicurante la fissasse. Decise di ignorarlo e si isolò con l’ipod …  lei era superiore. Era una überfrau libera dalle convenzioni … o quasi. Bella l’illusione. Le ore passarono e dopo un’eternità di sofferenze uscì da scuola.

Approfittò dell’amica con il motorino per un passaggio a casa. “Com’è andata l’interrogazione?” “Non ne parliamo che è meglio.” “Dai siamo ad aprile hai ancora tempo per recuperare, invece domani sera usciamo? Così ti distrai e non pensi a lui.” “Mm va bene.” Tanto non m’importa di niente. Nemmeno di quel deficiente.

Ma poi quella macchia rossa. Quella macchina che non rispettava le precedenze. Rosso. Nero. Bianco. Blu. Adesso osservava il cielo. Era per terra supina, credeva. Pensava di sì, dato che l’azzurro incombeva sopra di lei. O forse era lei che stava sopra e il cielo sotto? Le veniva da ridere. La solita cretina. Ma non ci riusciva. Non riusciva nemmeno a muoversi, più precisamente non voleva muoversi, nemmeno ci provava -come sotto le lenzuola calde-. Chi l’avrebbe mai detto. Che assurdità! Non l’avrebbe mai immaginato la mattina mentre inzuppava i biscotti nel caffè.

Quanto sono sciocca, a diciassette  anni ti senti immortale. Il tempo probabilmente doveva scorrere da qualche parte, cosa le importava di lui, della scuola, dell’opinione altrui, di comprare quel vestito, di andare a quel concerto? Si sentiva terribilmente in colpa, era colpa sua, era l’incosciente inaffidabile di sempre , una delusione … Cosa avrebbe detto Sara la sua psicoterapeuta? E sua madre? Nemmeno l’aveva salutata bene.

Si vergognava, ma lei in fondo cosa c’entrava? Era sicura di esser diventata sorda, il silenzio fischiava. Pazienza. Cosa se ne faceva dell’udito se moriva?  Stava forse morendo? No, no … troppi colori. La consueta paranoica. Intravedeva attorno a lei un vorticare di sfumature che presupponeva fossero persone. Una leggera brezza calda le rinfrescava il viso, perché doveva essere sempre tutto così paradossale? Sorrise, non è niente, andrà tutto bene, lei era immune a tutto. Quello squarcio azzurro di cielo. Così limpido, intenso, incorniciato dai rami di un pino.

 FELIX

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