Riflessioni di Viaggio

Progetto memoria di una storia europea. Il dramma del confine orientale italiano tra foibe ed esodo

 

Nuova immagineDecollo; macchinetta al collo e un libro in mano. Come cavalli che dormono in piedi sul far della sera i Caduti ruminano tra le proprie anonime tombe di ignoti; di qui ha inizio il viaggio di Paolo Rumiz, nel notturno sferragliare di una tradotta, verso il sorgere del sole, ove la memoria muore.

Atterraggio. Centoquaranta scompostamente rovesciati sul lastricato piazzale in pietra carsica ci fissano, sull’attenti, i Centomila di Re Di Puglia.

Con monumentale ieraticità stanno schierati sulla scalea, sbraitando un’esasperata imprecazione: PRESENTE.

Nessuno ode il grido, storditi dal riflesso abbacinante del cielo plumbeo sul piazzale, assuefatti alla ritualità della   retorica   cerimoniale.   Non   il   ritmo   dattilo dell’infrangersi di gocce, non il sapore del primo pomeriggio si può cogliere in una totale sinestesi del paesaggio.

Ottundimento delle percezioni. Ad un chilometro di distanza un’altra corona, tromba, divise, fascia tricolore, silenzio. L’epigrafe Im Leben und im Tode vereint disegna l’arcata d’ingresso del cimitero austro-ungarico. 14550 piccole lapidi riposano nell’umido prato circondato dal breve abbraccio delle mura perimetrali che accoglie tutto un Impero nella sua molteplicità culturale.

Abitanti di un luogo-che-non-c’è dormono, finalmente ricongiunti al sacro patrio suolo, fronte e frontiera nel Primo conflitto mondiale. Compartecipi di una medesima cultura, avversari all’insorgere dei nazionalismi, fedeli ad una coscienza di sé svincolata da ogni bandiera.

E’ la realtà del confine: un’identità che non è circoscritta ad un territorio, ma fluida e molteplice si fonda sull’interazione di diverse realtà sociali, culturali, economiche, su valori continuamente rimessi in discussione, su un’etnia che è un prodotto della storia, sulla produzione di significati condivisi.

La dogmatizzazione e l’assolutizzazione di tali caratteri comuni confluiscono in quei “sacri valori” sui quali lo Stato erige la propria volontà di potenza, destinando il multiculturalismo di confine a rimanere schiacciato tra i contrapposti nazionalismi.

E’ alla vigilia della Prima guerra mondiale che la complessità etnico-geografica della regione istriana esplicita i contrasti tra slavi e italiani, questi ultimi rivolti all’annessione al Regno d’Italia nella rivendicazione delle “terre irredente”. Ellissi temporale. Precise indicazioni di regia: maliziose zoommate interpretano la storia del confine. Testimoni, esuli e rimasti: lacrime.

Nuova immagineForse è necessario considerare una questione metodologica di fondo: il rapporto tra memoria personale e storiografia. Se, infatti, i protagonisti degli eventi accaduti, nel proprio particolare, possono mettere la storia in discussione, personalizzarla, d’altra parte il singolo non soppesa essa con una presunta nuova obiettività 1 in quanto non possiede maggior imparzialità rispetto al gruppo, né il gruppo rispetto alla Nazione. Se le molteplici memorie non possono essere condivise, tuttavia possono essere reciprocamente riconosciute.

La mancata contestualizzazione, l’assenza di coordinate storiche possono così provocare un’errata lettura della memoria personale, ora comportando un ormai sproporzionato coinvolgimento emotivo (che porterebbe nuovamente alla polarizzazione di contrapposti schieramenti), ora la totale desensibilizzazione nei confronti della storia nazionale per via di una “privatizzazione” dell’esodo come condizione unicamente individuale.

Citando poi un editoriale della rivista La Ricerca edita dal Centro di Ricerche Storiche Rovigno: “Esiste, oggi, un mondo che può e deve venir considerato degli esuli e conseguentemente uno che costituisce l’universo dei rimasti? O ci troviamo davanti a categorie che hanno perso il loro significato originale e pertanto rappresentano concetti vuoti giacchè inadeguati ad esprimere le situazioni reali? Categorie che prendono forma e vivono solo nei discorsi di natura politica (…)”2.

Viaggio è comprensione, ma che significato ha parlare di “dignità umana” nella totale dissoluzione della verità, in un paese fondato sul’amnesia3? Discorsi vuoti, targhe, applausi. Riconoscimenti istituzionali necessari e riparatori, per ritrovarsi di fronte l’Europa di cinquant’anni fa.

Riconciliazione significa prendere atto e accettare la memoria degli altri eppure vi sono ancora degli “indicibili”, fatti rimossi, ignorati, male interpretati sulla base di fonti insufficienti. Sin dal 1919 a Trieste prese le mosse il cosiddetto “fascismo di confine”. Con il trattato di Parigi (1919) il Trentino, l’Alto Adige fino al Brennero, Trieste, l’Istria, Zara e le isole del Quarnaro vennero annessi all’Italia, contrariamente alla Dalmazia e alla città di Fiume.

Quando l’anno successivo il trattato di Rapallo sancì l’annessione italiana di Zara e la definitiva rinuncia alla Dalmazia, 400.000 Slavi e Croati furono inglobati nello Stato italiano. Dal 1922, il regime Fascista diede inizio alla italianizzazione forzata del Confine Orientale: gli “allogeni” di razza slava, “inferiore e barbara”, dovevano essere eliminati.

Nel clima di feroce violenza diffuso dall’amministrazione squadrista e dalla polizia politica, sin dal 1923 venne impedito l’insegnamento di lingue straniere, nel ‘24 furono sciolti tutti i partiti, le associazioni ed i giornali sloveni e croati.

Nel 1927 il regime fascista impose l’italianizzazione dei cognomi. Era in atto una vera e propria “bonifica etnica” che comportò il sequestro delle terre ai contadini slavi in favore di quelli italiani e l’emigrazione di più di 50.000 sloveni e croati.

Nel 1941 con l’“Operazione Castigo”, agli ordini del maresciallo Göring, l’esercito tedesco invase la Jugoslavia e circa 800.000 sloveni e croati inglobati nel territorio rientrarono sotto la giurisdizione italiana. Ogni resistenza da parte dei civili fu repressa con fucilazioni, rastrellamenti, deportazioni nei campi di Gonars, dell’isola di Arbe e del Golfo del Quarnaro.  Intere popolazioni di villaggi e zone rurali potevano essere internate a titolo preventivo, precauzionale o repressivo4 .Nuova immagine

In questo contesto agli occhi della popolazione slava ogni italiano era considerato fascista e oppressore. L’8 settembre del 1943 l’Italia firmava la resa incondizionata con gli Alleati: la disgregazione dell’esercito italiano comportò l’occupazione della Venezia Giulia da parte della Wermacht e il totale rivolgimento della situazione al confine orientale.

Da qui comincia il nostro viaggio, dalle brutalità comuniste dei partigiani titini, dai 10.000 delle Foibe, dall’ “indicibile” sconfitta italiana che nemmeno la Resistenza ha potuto riscattare.

Con la legge del 30 marzo 2004 n. 92 La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del Ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani, che la “nuova” Italia del 1945 aveva cercato di obliare autorappresentandosi come paese vincitore, sollevandosi dalla responsabilità di aver collaborato con il fascismo, cercando, dopo il ’48, un interlocutore in Tito, leader dei paesi non allineati. D’altra parte, però, durante la guerra fredda le repressioni titoiste contro gli italiani rappresentano un argomento propagandisticamente efficace, a riprova della brutalità dei regimi comunisti. Si innesca dunque il paradosso che la bandiera dei profughi, per lungo tempo, viene fatta propria dalle forze dell’estrema destra, eredi del regime che, scatenando la guerra, è all’origine stessa del dramma .5

Ancora applausi, canzoni, ringraziamenti, saluti. Nessuno considera il destino degli esuli istriani come conseguenza, prezzo da pagare per la sconfitta italiana. La storia non può, non deve, essere subita dagli uomini come falsa coscienza, ossia nella forma delle ideologie, tantomeno come conflitto tra nazionalismi: è qualcosa che non ci appartiene più.

Cosa rimane dell’italianità dei “Rimasti” di Fiume? Una recita in italiano di ragazzi dallo spiccato accento croato, in una realtà culturale che ha perso il senso profondo della sua complessità etnica di base. E noi Italiani? O sarebbe meglio dire noi Europei? In nome dell’Europa, dobbiamo assumerci la fatica del ricordo di quell’evento con un linguaggio nuovo, che non sia più quello delle fanfare. Siamo stanchi di celebrazioni.

Preferisco evocare, riabilitare strumenti antichi come il canto, il verso, il sogno.6

 

ANNA PARLANI

 

1 N. Sponza, La memoria personale e il racconto nazionale, La Ricerca n. 61, giugno 2012

 

2 N. Sponza, Al di là degli Esuli e dei Rimasti: una riflessione sul nostro futuro, La Ricerca n. 44-45, giungo 2005

 

3 P. Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli 2014,  pg 153

 

4 Circolare del Generale Mario Roatta,1942

 

5 G. Oliva, Profughi, Mondadori, Milano 2005, p. 19

 

6 P. Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli, 2014 p.260.

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