Da Ventotene a oggi: il sogno di Spinelli

Scontata nei carceri di Milano, Lucca, Viterbo e Civitavecchia la pena cui era stato condannato dal regime fascista per attività di opposizione politica, e trascorsi due anni di confino nell’isola di Ponza, nel giugno del 1939 l’intellettuale e politico romano Altiero Spinelli venne trasferito nella vicina Ventotene. È qui che, grazie al contatto con altri esponenti dell’antifascismo di sinistra, in particolare con il giellista Ernesto Rossi, all’evolversi del contesto bellico, a nuove letture e ad un approfondimento filosofico già avviato negli anni precedenti, egli compì la sua definitiva maturazione politica che, da iniziali posizioni comuniste, lo sospinse verso un socialismo liberale arricchito dal lungimirante progetto di creazione di una Federazione europea. Queste idee videro la loro compiuta formulazione in “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”, breve scritto, concepito da Spinelli e Rossi e redatto dal filosofo Eugenio Colorni, anch’egli al confino, fra il 1942 e il 1943. I temi trattati in questo breve opuscolo – diffuso sul continente da Ursula Hirschmann, moglie di Colorni prima e di Spinelli poi, e, in seguito alla liberazione dei confinati nell’agosto ’43, dagli stessi autori con la fondazione dal Movimento Federalista Europeo di cui l’opera costituì il manifesto – non  ebbero un impatto immediato né sul movimento di liberazione nazionale né, tantomeno, sul panorama politico italiano postbellico; tuttavia, la lunga battaglia di Spinelli per l’applicazione delle sue idee federaliste, culminata con la presentazione del “Progetto di Trattato sull’Unione europea” (TUE o “Progetto Spinelli”), e l’evoluzione storica del continente europeo hanno, a più riprese, svelato la concretezza e l’attuabilità di essi, giustificandone un’attenta analisi alla luce del mutato contesto politico mondiale. Tale contesto, che, per molti versi, sembra essere andato incontro alle speranze di Spinelli, in realtà, si rivela estremamente distante dagli assunti teorici che stanno alla base del Manifesto, e anzi restituisce tutto il loro valore ad istanze spinelliane che nell’Europa degli ultimi settant’anni sono rimaste disattese e che potrebbero costituire il fondamento di una risanamento di un’Unione in crisi politica, oltre che economica.Immagine

Poco coerente con i propositi di Spinelli è, infatti, l’attuazione di quattro (unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati membri, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi sovranazionali) dei sei punti programmatici del MFE (la creazione di esercito unico europeo è per ora un progetto la cui realizzazione è ancora lontana e la politica estera europea, a dispetto di istituzioni che lo potrebbero lasciar pensare, non è unica), se non è parte di un progetto di più largo respiro politico e sociale, come quello del Manifesto di Ventotene. La grandezza del Manifesto e dell’uomo politico Spinelli non risiede, infatti, nella mera teorizzazione di un’Europa unita e nella formulazione di proposte economiche ad essa finalizzate, ma nella conciliazione di queste con un programma politico animato da una fortissima carica ideale ed allo stesso tempo da un’analisi storica rigorosa. Il risultato è uno scritto vibrante di tensione etica e di pragmatismo politico, uno scritto che nasce da una totale messa in discussione di ogni semplice preconcetto ideologizzante che sia filosofico, storico o religioso ma che allo stesso non perde mai di vista la realtà storico-sociale, base di partenza per qualunque percorso politico. È la dialettica continua fra ideale e reale, fra possibile ed impossibile, identificata da Max Weber in Il lavoro intellettuale come professione come propria dell’agire politico, ad emergere tra queste righe, una dialettica che è venuta meno nell’Europa di oggi, un’Europa che, proiettandosi nella semplice reazione alla contingenza economica e accettando il passato senza una continua analisi critica di esso, perde la trazione sia verso un fare ideale, nel suo essere depositario di una carica etica, che verso un fare concreto, nel suo essere azione su una processualità storica.

Una tale impostazione, astratta dalle ideologie che nel corso del ‘900 avrebbero vissuto una lunga ed inesorabile crisi, rende il documento universale, nei suoi valori e anche nei suoi contenuti, riattualizzati di fronte al mutare degli scenari. E in questa direzione è andato tutto il cammino politico di Spinelli, il quale, consapevole dell’evoluzione storica a lui imprevista, intercorsa fra il 1943 e l’immediato dopoguerra, non ha tardato, tuttavia, a riproporre le idee del Manifesto nei momenti che più gli sembravano favorevoli, come in occasione del discorso di Marshall ad Harvard (5 giugno 1947), del Congresso dell’Aia (7-11 maggio 1948) o della riunione di un primo parlamento europeo democraticamente eletto (1979), a dimostrazione di una perenne attualità del documento.

ImmagineE oggi, in un’Europa in cui le fragili istituzioni unitarie hanno dimostrato, per limiti di natura preminentemente politica, di non saper fronteggiare la pesante crisi economica la portata dell’intero piano Spinelli-Rossi riemerge prepotentemente in tutta la sua profondità. Punto cardine, più volte ribadito, del Manifesto di Ventotene è infatti la necessità di una leadership politica che, nei limiti del possibile, affronti il processo storico nei suoi caratteri sovranazionali ed universali, e non in quelli particolari e nazionali.  In questo senso la creazione

di una federazione europea, e non di quell’ibrido federale-confederale che è l’odierna Unione Europea, è, per Spinelli, solo il primo effettivamente realizzabile passo verso un’ideale federazione mondiale volta a garantire la pace mondiale, come già teorizzato, secondo l’interpretazione federalista di Giuliano Marini, contrapposta a quella confederalista di Norberto Bobbio, da Kant. Spinelli è, però, un politico, non un filosofo e, quindi, come egli stesso ammette, è attratto più dal “pensiero pulito e preciso” dei federalisti inglesi, a lui e a Rossi consigliati dal grande economista liberale Luigi Einaudi, che non dal “contorto federalismo ideologico di tipo proudhoniano o mazzininano” o dalle utopie cosmopolite kantiane. Egli ritiene che, affinché la classe politica sia in grado di guidare efficacemente il processo storico, sia necessaria una notevole solidità strutturale. Perciò, si oppone tenacemente ad ogni forma confederativa, in quanto considera ogni confederazione, per sua stessa natura, debole e non in grado di amministrare gli interessi comuni dei vari paesi, visto che la sovranità degli stati viene mantenuta inalterata.

Ecco che, per Spinelli, esempi come quello della Confederazione Tedesca o della Società delle Nazioni sono, oltre che inutili, dannosi, nefasti, dal momento che pretendono di garantire il diritto internazionale senza violare le sovranità degli stati membri e senza poter contare su una forza militare capace di imporre le sue decisioni. Tali riflessioni sono segnate dai fallimenti del sogno wilsoniano, fallimento reso manifesto dall’incapacità di ostacolare efficacemente azioni che ne violavano lo Statuto (l’occupazione italiana dell’Etiopia l’episodio più noto), ma sono valide ancora oggi, in un momento in cui le Nazioni Unite, oltre che l’Unione Europea, più simile ad una confederazione che ad una federazione, stentano ad esprimere una linea politica unica e decisa, confliggendo gli interessi particolari dei singoli stati. La preminenza degli interessi nazionali e la conseguente debolezza dell’Europa è evidente in politica estera, per esempio laddove alcuni stati membri richiedono una forte azione dell’Unione nei confronti di una Russia percepita come minaccia concretamente vicina, mentre altri, legati economicamente al gigante eurasiatico, cercano di evitare lo scontro frontale con Mosca, cosi come in politica economica. In quest’ultimo settore, in particolare, gli interessi nazionali sono quanto più contrastanti l’uno con l’altro e non riescono a dare luogo ad azioni condivise e benefiche per l’intera comunità.Immagine

Anzi, a distanza di settant’anni dal termine del secondo conflitto mondiale, il campo economico ha preso il posto di quello bellico: il rischio di estensione dell’egemonia militare del più forte sul più debole, paventato da Spinelli, che arriva finanche ad evocare la possibilità di una terza guerra mondiale – nel caso in cui dovesse essere mantenuta l’assoluta sovranità di tutti i singoli stati e, con essa, le condizioni necessarie e sufficienti degli altri due conflitti- si è fatto concreto in economia dove, la Germania, ormai potenza economica, non più bellica, funge da arbitro, pur essendo la sua azione mitigata dai pochi organismi sovranazionali realmente funzionanti come la Bce, della politica dell’Unione, a discapito di stati che per la loro povertà o per la loro intrinseca debolezza politica non sono in grado di far valere i loro interessi. E così tante altre decisioni, di ambito europeo e non nazionale, che, nelle idee di Spinelli, anche post-Manifesto (si veda il TUE), sarebbero dovute essere di competenza di un parlamento sovranazionale, sovrano e democraticamente eletto, sono invece prese da istituzioni non democratiche o in incontri diplomatici multilaterali, – fortemente criticati da Spinelli per tutta la sua vita – se non addirittura da organi nazionali.

In questo contesto – in cui il Parlamento Europeo non detiene pieno potere legislativo, ma solo la facoltà di utilizzare la procedura di co-decisione, che, col trattato di Lisbona, è diventata procedura legislativa ordinaria – poco  è stato fatto per annullare quella lunga parabola percorsa fra ‘800 e ‘900 dagli stati nazionali, paragonati, nel Manifesto, ad “un’organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne”. Più in generale, la struttura caotica delle numerosissime istituzioni europee, sviluppatasi nel corso degli anni con innumerevoli trattati frutto di compromessi e mediazioni fra gli interessi particolari dei vari stati, come oggi si configura, non si presta al progressivo svuotamento delle sovranità dei vari Stati, auspicato da Spinelli.

Inoltre, completamente disatteso non è soltanto lo spirito che anima la seconda parte (“Compiti del dopo guerra. L’unità europea”) del Manifesto ma anche l’insieme di proposte politiche contenute nella terza parte (“Compiti del dopo guerra. La riforma della società”). Qui Rossi, membro del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, poi “Partito d’Azione”, più di Spinelli, ricollegandosi alla precedente critica dei movimenti comunisti, espone una serie di misure che, superando i totalitarismi e le vecchie istituzioni conservatrici, dovrebbero essere decisive per “la riforma della società” in senso socialista e dell’Europa in senso federalista. Nonostante le debolezze emerse nel dopoguerra il Partito d’Azione e, con esso Rossi e Spinelli (vi aderì fra il ’44 e il ’46), fu latore di una visione moderna della politica, una visione improntata ad un forte senso critico non in grado di accettare la degenerazione della Russia sovietica, e tesa alla ricerca di una soluzione alternativa alle ideologie dominanti all’epoca, un’alternativa fra fascismo e comunismo prima, fra Russia ed America poi. Ne consegue che tante delle idee espresse nel documento qui trattato e altrove siano oltremodo valide ed attuali. Tra queste si ricordano un’accettazione critica e sofferta della proprietà privata, da valutare “caso per caso”, l’importanza data alla scuola pubblica, come luogo di limitazione delle disuguaglianze sociali, la necessità di provvedere a forme di assistenza basilari per la conservazione della dignità umana ed in generale un pensiero che sia “razionale”, demistificatorio e lontano da ogni preconcetto dottrinario. L’asse portante è, tuttavia, come già ampliamente evidenziato, costituito dall’abbandono di ogni logica che sia particolare e nazionale in favore di una mentalità europea se non mondiale.

ImmagineE così, anche le misure di ambito nazionale, secondo Spinelli, e in ciò sta la sua originalità e la sua attualità, devono essere sottomesse alla questione federale, unica vera priorità. Proprio per questo l’ex confinato di Ventotene abbandonerà presto il Partito d’Azione, agendo “affinché tutti i problemi della sua vita politica vengano impostati partendo da questo nuovo angolo visuale (quello dell’MFE), a cui finora sono stati così poco avvezzi”. Egli è il primo a superare in maniera netta “la linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari” e per crearne un’altra, con più profonde radici etiche, la linea che separa coloro “che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale” da coloro “che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari” – in gran parte direttamente interessate al raggiungimento di questo fine, come in un’altra parte del Manifesto argomentato – “e,  anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”.

Un progetto del genere è forse meno utopico di quanto sembrerebbe: la storia ha dimostrato che, nonostante non sempre le forze politiche abbiano cavalcato l’onda dell’unità europea, alcuni passi in avanti sono stati fatti. E, come molte proposte pratiche di Spinelli (il TUE, per esempio, nelle sue linee generali, anche se in una forma diversa è diventato un trattato internazionalmente riconosciuto), anche lo spirito del Manifesto di Ventotene e la sua sostanza federalista possono essere accolti. Il messaggio spinelliano di guardare non all’utile individuale, nazionale o particolare ma a quello collettivo, sovranazionale ed universale è destinato a tutti e può essere perpetuato in ogni epoca. L’Europa di settant’anni fa non si è rivelato lo scenario adatto per metterlo in pratica. Forse può esserlo l’Europa di oggi.

 

DANIELE MARCELLI

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