La folla fra Aristofane e Le Bon

La folla è un’entità di difficile definizione: un insieme di “vespe scatenate”, citando Melantone. Quelle stesse vespe della commedia aristofanea “Σφηκης”, le quali, come da titolo, entrano in scena come sostenitori di Cleone. E non è un caso che proprio Cleone sia il primo nella storia della letteratura ad essere chiamato demagogo (da Tucidide 4, 21, 3 anche se il δημαγωγός riferito ad ἀνήρ è da interpretare differentemente dal significato che diamo noi oggi al termine), ma non sicuramente il primo ad accattivarsi le simpatie della folla grazie all’abile oratoria e a proposte populiste. Nel mondo greco tutti, o quasi, potevano essere demagoghi. Anche il salsicciaio dei “Cavalieri”, un’altra commedia aristofanea, lo può essere: gli bastano “manicaretti di parole […], una voce ripugnante, origini basse, volgarità”. In realtà non è poi così semplice diventare trascinatori di masse. Anzi, spesso è necessaria una specifica e rigorosa preparazione: così valse per tutti i dittatori del ‘900 che fondavano il loro potere proprio sulla persuasione di gruppi umani così manovrabili. Lenin e Stalin, Hitler e Mussolini, tutti lessero molto attentamente “Psicologia delle Folle” dell’etnologo e psicologo francese Gustave Le Bon; il dittatore italiano, in particolare ne era un profondo estimatore, tanto da considerarla un’“opera capitale” a cui spesso fare ritorno. Egli, in effetti, vorrebbe incarnare “il tipo dell’eroe caro alle folle”, il “Cesare”, teorizzato da Le Bon, come il Cleone tucidideo o il Ferrer manzoniano.

ImmagineMa prima di giungere a Manzoni e a Le Bon, per parlare della folla moderna è necessario partire dalla sua nascita, ovvero dalla rivoluzione francese, “esperienza vissuta dalle masse”, secondo l’espressione di Lukacs. Esperienza che, forse, non avrebbe fatto cambiare idea a Voltaire, ma che molto probabilmente avrebbe stupito lui e il suo aforisma “Tutto per il popolo, nulla attraverso il popolo”, che così bene incarna il suo ideale di dispotismo illuminato, tanto diverso dall’idea di Rousseau di popolo sovrano. Nel loro complesso, gli anni immediatamente successivi alla presa della Bastiglia sono stati forieri di significative evoluzioni dell’esperienza umana – pur con le loro contraddizioni – grazie anche al contributo della folla. Tuttavia, anche in quegli anni la massa costituiva un elemento irrazionale e imprevedibile, tanto che lo stesso Robespierre, nel febbraio del 1793, tuonò contro gli affamati che riempivano le strade di Parigi chiedendo pane, accusandoli di essere sobillati da infiltrati inglesi o da aristocratici. E sono proprio gli eventi dell’89a segnare la consapevolezza da parte degli intellettuali dell’affacciarsi sulla scena della storia di questa nuova entità, che fino a quel momento era rimasta latente, affiorando soltanto di tanto in tanto e per ragioni esclusivamente legate all’interesse contingente e non a un più ampio disegno di cambiamento degli equilibri sociali e politici.  Così fin da subito si è cercato di addossare alla folla delle caratteristiche precise e determinate che, proprio per la sua indeterminatezza, non ha. Due sono, in questo periodo e poi per sempre, le opinioni dominati. L’una, favorita dalla censura e dalla propaganda successiva al Congresso di Vienna tendente a demonizzare e demagogizzare il giacobinismo e i suoi leader, vuole la massa instabile, violenta, suggestionabile, fatalmente eterodiretta e imprevedibile. In particolare, alla base di qeusta linea di pensiero vi è l’idea che la somma di mille menti non dia la razionalità di una, bensì un soggetto con facoltà intellettuali minori rispetto a quelle del singolo e dalle reazioni emotive di gran lunga amplificate. Questa fu, e in parte lo è ancora oggi, la visione dominante, canonizzata dal filosofo danese Søren Kierkegaard con la celebre sentenza del suo Diario: “In ogni campo e per ogni oggetto sono sempre le minoranze, i pochi, i rarissimi, i Singoli quelli che sanno: la Folla è ignorante”, e fatta propria anche dal Manzoni, come risulta evidente nei capitoli dei Promessi Sposi che si focalizzano sulle vicende di Renzo a Milano. Il figlio di Giulia Beccaria, descrivendo la folla milanese diffusamente e accuratamente, e ampliando un tema già trattato da Scott in “The earth of Midlothian”, denota come nel corso della prima metà ‘800 quella marea indefinita risultò maggiormente comprensibile ai romanzieri che agli storici e ai sociologi. La folla manzoniana è, dunque, un “vortice” irrefrenabile, volubile, inumano, ma anche ottuso e irragionevole oltre che irrazionale, preda dell’incontrollabile oralità, aspetto questo su cui più volte l’autore lombardo pone l’accento: “come dicevano”, “così dicevano”, “gridarono cento voci”, “si grida” etc…

ImmagineE forse è proprio l’oralità come aspetto caratterizzante del δεμος una delle cause dell’avversione per Cleone, – che, come detto, era un demagogo, abile a sfruttare le debolezze del volgo ateniese – da parte di Tucidide, storico così rigoroso che, stando alla sua stessa affermazione, ha appurato ogni informazione, senza accettarla dal primo che capitava (e bisogna considerare che  le versioni delle varie persone che assistevano allo stesso evento non coincidevano mai). La conclusione del passo appena citato dalle storie tucididee, e cioè il riferimento alla storia come possesso per i posteri, evidenzia un’altra grande differenza tra l’Ateniese e la folla, che, come ci narra Manzoni, è così poco attenta al futuro e così tanto al presente, da causare danno, in tal modo, soltanto a se stessa. Il romanziere milanese presta molta attenzione anche alla manovrabilità della moltitudine e all’influenza che hanno alcuni leader, come il vecchio che “spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse”. Si tratta, dunque, di una di quelle figure che “per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promuovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura”. Egli è uno di quei rifiuti della società che si mischia alla moltitudine con l’unico scopo di diffondere la cieca violenza. E’ quindi un simbolo, l’emblema di una figura tipo, e perciò, nonostante acquisisca attraverso la descrizione del suo aspetto una certa fisicità e consistenza, rimane indeterminato, senza costituire un personaggio che semplicemente non può esistere nella folla manzoniana, che limita ogni individualità. Un’immagine simile a quella del vecchio la ritroviamo qualche decennio più tardi nella novella di Verga “Libertà” con “una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie”, che risulta ancora più vaga e sfumata del vecchio, così come lo è la folla, che qui è soltanto un insieme di nomi e di grida indistinte, confuse e ripetitive, ma anche cruente e feroci. Questa è dunque la stessa conclusione a cui arriva Le Bon col suo saggio, nel quale ogni aspetto della moltitudine, dai sentimenti alle credenze, è analizzato minuziosamente. L’altra opinione, secondo la quale la folla è espressione di un’anima collettiva e di un movimento di affermazione reale della democrazia, è sostenuta da Jules Michelet e, dopo di lui, da tutti gli storici di ispirazione democratica o dichiaratamente marxista che si siano occupati del 1789 o di altri momenti di forte presenza delle masse sulla scena della politica.

ImmagineEventi come la Comune parigina del 1870 o, per l’Italia, i moti per il prezzo del pane di fine secolo, duramente repressi dall’esercito, rappresentano infatti dei veri e propri spartiacque non solo nel consolidamento dell’eterna paura della folla, ma anche nell’evolversi di una diversa considerazione sulle potenzialità e sulle effettive condizioni delle masse popolari. Tra gli storici e dei sociologi che esprimono giudizi più o meno positivi sulla presenza e sull’importanza della folla nei mutamenti storici, nessuno parla, ovviamente, di eterodirezione, né tanto meno di presenze impreviste e sgradevoli il cui unico scopo sia stimolare l’aggressività della massa-mostro. Interessante è anche la folla in Baudelaire, folla perennemente “figura segreta”, secondo la felice definizione di Benjamin, della sua poesia: essa “è iscritta nella sua creazione”, nel suo ritmo nervoso, ondulato e spezzato, non è mai rappresentata ma, almeno una volta, una sola ma molto efficace, è nominata e se ne descrivono gli effetti che si provano ad essere parte, sicuramente non gli stessi che provava Renzo nel bel mezzo del tumulto di Milano: “Il piacere di essere in mezzo alla folla è un’espressione misteriosa del godimento della moltiplicazione del numero”. È sicuramente questo un dibattito che non avrà mai fine, l’unica cosa certa è che, come evidenziato da G. Rudè, sia la teoria manzoniano-leboniana che quella marxista “hanno un importante elemento in comune: entrambe sono stereotipe, entrambe presentano la folla come un’astrazione priva di ogni realtà fisica, e non come aggregato di uomini e di donne in carne ed ossa”. In ogni caso, la storia sta a dimostrare che, pur nella sua irrazionalità e nella sua incontrollabilità, la folla possa essere artefice di grandi cambiamenti di grandi rivoluzioni. E a Voltaire si potrebbe obiettare che non è possibile migliorare le condizioni di qualcuno se non le si conoscono dovutamente, che non ci si può far interpreti di una volontà non propria, che non si possono soddisfare i desideri delle masse senza prima indagarli. E chi più del popolo conosce il popolo? Non di certo l’élite intellettuale a cui pensava Voltaire, da identificare con l’odierna borghesia illuminata. Questa non potrà mai attuare da sola gli interessi della massa, che a sua volta, se priva degli strumenti idonei per operare razionalmente, rischia di perdere di vista quel bene comune che dovrebbe ricercare come scopo.

ImmagineMa se in un caso si raggiunge una dicotomia insolubile fra Stato e massa e, conseguentemente, si giunge a una perdita da parte del cittadino di ogni forma di riferimento etico-sociale, fenomeno questo a cui molti moderni Stati liberali sono andati incontro, nell’altro la volontà generale, rimane tale e può tendere, in un lento ideale cammino di perfezionamento del giudizio. Anche se, come sosteneva Rousseau, “il giudizio che la guida non sempre è illuminato” e “una moltitudine cieca, che spesso non sa quello che vuole, […] raramente sa ciò che è bene per essa”. Questo perfezionamento, nella migliore delle ipotesi, porterebbe alla nascita di un unico ens rationis sociale e statale in grado di esprimersi e giudicare autonomamente e consapevolmente in vista del bene comune. Ciò, tuttavia, è utopia, e Rousseau lo sapeva bene. Tanto che introdusse, per “questa sovrumana impresa di educazione e di trasformazione dell’uomo in cittadino” (Abbagnano), la figura mediatrice del legislatore, non facendo, in questo modo, altro che sostituire l’élite volteriana con un demiurgo che, per quanto privo di poteri istituzionali, è pur sempre necessario per indirizzare la democrazia russoviana verso la rettitudine di giudizio. La questione resta irrisolta. In fondo le vespe, direbbe Aristofane, non hanno una ragione e mai la avranno, ma un Protagora o un Socrate, suoi acerrimi nemici, subito opporrebbero l’idea di una παιδεία a chiunque estendibile, anche alle vespe. E allora è necessario il legislatore russoviano per investire nella παιδεία?

 

 DANIELE MARCELLI

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