Hong Kong e una domanda: cosa possiamo fare veramente per cambiare il mondo?

ImmagineVoglio fare qualcosa di controcorrente. Voglio scrivere della rivolta di Hong Kong quando si è ormai spenta, e in pochi ne parlano ancora. Eppure, quello che sta succedendo laggiù ha davvero tutte le caratteristiche (o per meglio dire gli attributi) per essere interessante.

Prima di tutto perché ne possiamo trarre un ottimo insegnamento. È sufficiente porsi la domanda: cosa provano di più le persone che hanno occupato Hong Kong? Una profonda, idealistica tensione politica, o la soddisfazione di essersi guadagnati delle vacanze extra? Non penso possa esserci il minimo dubbio sulla risposta…

C’è però un altro motivo per cui quel piccolo territorio sulla costa del Canton, nella Cina Meridionale, è così affascinante: perché è, in tutto e per tutto, un’eccezione. A cominciare dalla sua storia.

Come al solito, cercherò di descrivere gli eventi nella maniera più aderente al vero che mi riesce, e basandomi per la parte tecnica sulle conclusioni degli addetti ai lavori. Di mio troverete riflessioni “più ampie”, e una partecipazione emotiva che non riesco a non provare.

ImmagineEx colonia britannica e porto franco, Hong Kong è diventata, durante gli anni ’60, quello che gli addetti ai lavori definiscono un vero e proprio “laboratorio sperimentale del neoliberismo”. Le peculiarità di questo laboratorio sono espresse al meglio nella parole del suo ideatore, l’economista Milton Friedman (non il più noto Alan…): “il Regno Unito è più produttivo di Hong Kong, ma abbiamo scelto di destinare circa metà di quella capacità produttiva ad attività a cui Hong Kong dedica solo il 15 o il 20 per cento”. Le attività che intende sono “spese sociali”, come cultura, istruzione, impegno politico e sanità.  Questo sistema ha fatto si che quella popolosissima metropoli di quasi dieci milioni di abitanti diventasse un polo finanziario di importanza mondiale, in grado di attirare immensi flussi di ricchezza di ogni provenienza geografica e (il)legale, grazie anche al suo status di paradiso fiscale. Sono state queste ricchezze a disegnare la sua meravigliosa e opulenta skyline, trionfo della modernità. Sono loro a muovere il traffico di oltre dieci milioni di container che passa ogni anno per il gigantesco porto. Sono loro a rendere il dollaro di una singola città l’ottava valuta più scambiata al mondo.

E’ per queste ricchezze che Hong Kong è e sarà una delle metropoli chiave per l’umanità nel futuro, e questo a prescindere da ciò che accadrà. Il suo vero nome, in cinese, è Xianggang, che significa letteralmente “porto profumato”. Se è vero che il denaro non puzza… Tutta quest’abbondanza, inoltre, ha determinato una distribuzione delle risorse non così iniqua come di solito avviene da quelle parti. E quando, nel 1997, Sua Maestà Elisabetta II decide di firmare la restituzione del suo piccolo gioiello alla Cina, sua legittima proprietaria, gli accordi presi sembrano fatti apposta per garantire uno splendido avvenire agli abitanti del “porto profumato”.

Immagine Stando a quanto stabilito, il passaggio definitivo a Pechino dovrebbe avvenire nel 2047. Nel frattempo, secondo la arcistranota formula “un paese, due sistemi”, viene lasciato alla città un ampio margine di autonomia: l’esecutivo viene eletto da un’assemblea di “grandi elettori” locali, e l’economia capitalista e il sistema giuridico basato sulla Common Law inglese rimangono inalterati. È questa una delle ragioni per cui Hong Kong è un’eccezione. Anzi, più che di una semplice eccezione, stiamo parlando di una vera e propria oasi nel deserto: ai cittadini hongkonghesi vengono garantiti tutti i diritti di stampo occidentale ereditati dalla Gran Bretagna, come la libertà di espressione, tanto per fare un esempio, o la tutela della salute. Tutte cose che in Occidente si danno per scontate (e chissà ancora per quanto), ma che sono pura utopia nell’autoritaria Cina e nella maggior parte delle terre dell’Estremo Oriente. Sembra un paradiso, per i fortunati abitanti di quella sorta di città-stato, non è così? Mi immagino gli uomini di potere a sganasciarsi dalle risate in qualche appartato resort, quando l’accordo è stato siglato.

Uno Stato è influenzato da tutti i poteri presenti nella società su cui è costruito, no? Suona abbastanza logico. E suona altrettanto logica la seguente domanda retorica: può forse non essere influenzato da quelli forti? Un potere, per essere forte, non può non agire spesso e volentieri al di fuori della morale e della legge (Machiavelli docet). E, quando lo fa, le sue azioni devono rimanere nascoste…

Sto tracciando il preciso ritratto, valido tuttavia per svariati soggetti, di quelli che sono i poteri forti di Hong Kong. Gli uomini forti, le cui ricchezze fanno rifulgere quella città. I più onesti sono speculatori finanziari. I peggiori vanno dai boss della mafia cinese a trafficanti d’armi e di droga provenienti da ogni contrada. La crème de la crème  di ogni paradiso fiscale. Ma anche di altri paesi in teoria meno “tolleranti”, compresa la nostra bella città. A causa dello spietato contesto dove se le sono guadagnate, esse sono direttamente proporzionali al numero di crimini commessi per accumularle e al grado di anonimato in cui questi uomini si mantengono. La verità è che non c’è alcuno Stato che non abbia un legame forte e duraturo con simili individui, anche se solo ogni tanto viene     fuori lo scandalo e l’opinione pubblica si infuoca. Essi dispongono di ricchezze tali da comprare intere nazioni, numerosi agganci e schiere di uomini fedeli, pronti a far rispettare in mille modi il loro volere. Ai politici conviene appoggiarli, e lo possono fare con scarse probabilità di essere scoperti da gente estranea a quel giro. Sono la scorza “mediatica”, e spacciabile per onesta, di questi homini boni. Addirittura, anche se solo in certi paesi, (e ogni riferimento a fatti, persone e cose è puramente casuale) possono mantenersi al potere anche doImmaginepo essere stati condannati in tribunale, se sono abbastanza abili nell’arte della demagogia. E quindi, naturalmente, anche la popolazione è complice di questo meccanismo. Non nel caso di Hong Kong, però. Perché i membri dei vari movimenti “Occupy” di quella metropoli si sono resi conto non solo di quanto il loro Stato fosse corrotto, ma i migliori tra loro (e qui sta la vera eccezione che rappresentano) hanno anche compreso fino in fondo quanto universale fosse la loro situazione. Questo è un tema estremamente sentito nella rivolta di Hong Kong, almeno quanto le più recenti questioni di democrazia. Ma andiamo con ordine, e riprendiamo con la narrazione.

I problemi del “porto profumato” hanno origine dal genere di potenti sopra descritto, i quali fanno ben di più del semplice piazzare maree di loro collaboratori nell’amministrazione locale: finiscono per fondersi quasi completamente con essa, rendendo la corruzione all’ordine del giorno.

Questa situazione è antecedente al fatidico 1997. Perché, quando il nuovo attore cinese irrompe sulla scena, la congiuntura cambia in meglio, dal loro punto di vista… Ragioniamo: sulla scacchiera ci sono tre pedine, ovvero i grandi investitori –  con relativi politicanti – la Cina e il popolo di Hong Kong . Perché la Cina si interessa così tanto a quella città-stato? E’abbastanza facile rispondere: dato che l’ex Celeste Impero ha un economia “comunista” (chiamiamola così…) e l’aspirazione neanche tanto segreta di essere la più potente delle nazioni,  i rispettabilissimi signori al suo comando hanno bisogno di grandi piazze finanziarie per confrontarsi con un mondo capitalista. Ai grandi investitori di Hong Kong, invece, conviene avere spalancate le porte della più grande economia del pianeta, in cambio della loro collaborazione. E se questo ragionevole accordo comporta delle ingiustizie per la terza e derelitta pedina, poco importa.

Vengono promulgate una serie di leggi volte al profitto dei primi due soggetti. In ambito economico, l’individual visit scheme, a favore degli acquirenti cinesi, e altre norme a favore dei costruttori – i quali sono ovunque il piatto forte della malavita – hanno causato la rovina della classe media, la distruzione di interi quartieri – soprattutto  quelli tradizionali – e delle ultime zone rurali. Lo Immaginescrittore Barry Eisler, che era stato sia nel “porto profumato” che nella vicina e analoga Macao, scrive a proposito di  quest’ultima nel suo romanzo “Rain Storm” : “…a Macao, quell’eccesso (di attività edilizia) aveva un che di misterioso e persino di vagamente minaccioso. Chi prendeva le decisioni? Chi falsificava le valutazioni di impatto ambientale per assicurare che quei progetti fossero approvati? A chi finivano le tangenti? Per molti versi, Macao era un mistero”. Credo che questa suggestiva e disincantata descrizione possa essere applicata anche a Hong Kong, dove tra l’altro gli affitti sono aumentati in maniera spropositata e le condizioni di vita sono sempre più dure. In particolar modo per i giovani.

Alla Cina, però, tutto questo non basta. Deve avere il pieno controllo di una città così determinante per i suoi piani. Il governo locale, seguendo le direttive di Pechino, inizia a pianificare l’introduzione di diavolerie come l’ “educazione patriottica”, eufemismo per dire “scuola imbevuta dell’ideologia molto strumentale del governo cinese, con annessa censura culturale, controllo dei mezzi di informazione e limitazioni alla libertà di espressione”. Negli Hongkonghesi inizia a nascere una profonda inquietudine. Loro, infatti, non sono solo parte integrante del mondo culturale cinese, e probabilmente più della Cina stessa, il cui governo ha sacrificato persino la cultura tradizionale sull’altare dei suoi interessi. Hanno anche sviluppato una forte identità occidentale, e un altrettanto forte attaccamento per quella libertà che (come ha detto il presidente di Taiwan, anche se forse non solo per nobiltà d’animo, vista la sua alleanza con gli Stati Uniti…) non deve essere monopolio dell’Occidente, ma patrimonio di tutta l’umanità. Quello che gli abitanti di Hong Kong iniziano a temere sempre di più è una deriva autoritaria “alla cinese” della loro società.

ImmagineNei famosi accordi del ’97 è prevista l’introduzione del suffragio universale entro il 2017. Quando la Cina annuncia di essere benevolmente disponibile a concederlo, a patto che i candidati alle urne siano scelti da Pechino, la misura è colma, e gli Hongkonghesi, dimostrando di essere un popolo sano, si ribellano. Dopo mesi di tensioni, il 22 settembre scendono in piazza, in decine di migliaia. Hanno un duplice sogno: ottenere la democrazia, e  sconfiggere la corruzione dilagante, la vera causa dei loro problemi sociali ed economici. E dalla connessione fra questi due obiettivi che si capisce l’eccezionale portata rivoluzionaria di questa protesta. Infatti per loro la democrazia  non sarebbe solo una meta,  ma anche un mezzo usato in maniera del tutto nuova e geniale per uno scopo specifico: creare istituzioni completamente nuove, con una classe dirigente indissolubilmente legata al contesto della rivoluzione in cui è nata. Sarebbero istituzioni in grado di tutelare la libertà di Hong Kong e i diritti dei suoi cittadini, e in esse i corruttori non troverebbero appigli. Perché, almeno per un po’, il livello di guardia contro questo genere di mali dello Stato sarebbe altissimo.

Un sogno, vero? E’ il sogno degli artefici della rivolta, che è riuscito a passare anche alle masse, vista la combinazione con situazioni di malessere molto meno “filosofiche”, e la percezione di un governo sempre più alieno rispetto a loro.

Ci sono diversi e interessantissimi motivi per cui l’effetto di questo sogno è stato così esplosivo, quando i giovani – ma non solo – sono scesi in piazza. Per esempio: in un paese dove gli scioperi e le proteste sono rarissimi, per non dire inesistenti, fare un’occupazione di diversi mesi fa notizia e fa effetto. ImmagineSoprattutto se non si occupano le scuole, ma le strade, dove tutti mettono piede tutti i giorni. O ancora: in una città dove i servizi funzionano, il traffico scorre agevole, i mezzi pubblici sono in orario e le strade sono pulite, togliere tutte queste comodità farebbe notizia e farebbe effetto. Si, farebbe. Perché il bello è che i manifestanti non l’hanno fatto! Le strade sono pulite e ordinate come sempre, sono stati creati itinerari specifici per la circolazione, e i vigili urbani e gli ausiliari possono svolgere il loro lavoro con lo scrupolo di sempre e molti aiutanti in più. I simboli di quella rivolta non sono sporcizia, graffiti, mozziconi di sigaretta e bottiglie rotte per terra. Si tratta di una precisa strategia: gli occupanti non vogliono dare al governo pretesti per intervenire pesantemente, presentandosi come dei vandali, bensì dimostrarsi più civili di uno Stato tanto corrotto. Questo però non vuol dire che siano degli smidollati. Tutt’altro. La lotta, laggiù, è durissima. La polizia non era abituata ad affrontare questo genere di problematiche, e all’inizio, quando si è trovata di fronte a quelle folle oceaniche, è stata così presa dal panico da essere disposta ad allearsi (guarda, guarda) con le triadi, i clan mafiosi cinesi.

Nonostante le migliaia di sfolgoranti luci elettriche che illuminano le notti di Hong Kong, il dedalo di vicoli all’ombra di quegli immensi edifici è per larghi tratti oscurissimo, e pullula di luoghi ideali per tendere agguati a individui isolati o a piccoli gruppi. Gli assalitori sono professionisti: fanno del male a pochi, tanto e gratuitamente, per far nascere il terrore in molti. Inafferrabili, emergono dal buio, attaccano e spariscono. I manifestanti però resistono, nonostante lo scarso supporto da parte della comunità internazionale, e il conseguente entusiasmo segna l’apice dellaImmagine protesta. Il sogno sembra a un passo dall’essere coronato.

Ma il governo di Hong Kong non cede. Né tantomeno cede il governo di Pechino: se così facesse, incoraggerebbe una tale marea di episodi simili sul continente… Dal punto di vista loro e dei vari uomini potenti alle loro spalle, gli occupanti possono strepitare quanto vogliono: le leve di comando sono sempre in mano loro. I risultati non arrivano. I manifestanti perseverano, ancora e ancora, e i risultati continuano a non arrivare. Almeno non quelli che speravano loro: infatti iniziano a perdere consenso, perché l’occupazione, anche se civilissima, causa comunque una flessione delle attività commerciali difficilmente tollerabile in tempi di crisi. Nel frattempo la polizia si è riorganizzata, e supportata dagli uomini delle triadi, inizia a esercitare una seria pressione, pur senza sporcarsi troppo le mani.

Devono essere molto umani i pensieri che iniziano a ricorrersi nella testa dei giovani in piazza: “A che scopo continuare con la nostra rivolta se non porta a nulla?” “No, bisogna resistere ancora, e alla fine il governo cederà…”. Ma il governo non è minimamente toccato, e non cede. A che scopo allora, sopportare anche la violenza dei malavitosi?

ImmagineLa rivolta declina, e la sua fine è segnata dal gesto delle frange più estremiste, che tentano di entrare in Parlamento per forzare la mano ai suoi membri. Impresa non facile anche per un abile terrorista. Il governo ha finalmente un pretesto per utilizzare la mano pesantissima, e l’inutile peggio sta per accadere… quando i leader (sto parlando di Lester Chum, Alex Chow e soprattutto Joshua Wong, persone che hanno dimostrato grandi abilità, ispirandosi al pensiero degli ideologi della rivolta: l’uomo di Chiesa Chu Yu-Ming, il sociologo Chan Ki-Man e il professore di diritto Benny Tai) con grande lucidità, decidono di sacrificarsi: si consegnano alle autorità ed esortano gli studenti a sgomberare le strade. Quasi tutti si dimostrano abbastanza intelligenti da obbedire.

Ora a Hong Kong è tornata una quiete inquieta. Chi è sceso in piazza non si rassegnerà tanto facilmente, nonostante la delusione. Ma nemmeno il governo demorderà. E, alla luce di quello che è accaduto, non credo possano esserci molti dubbi su chi sia più forte.

Da questo marasma emerge un bruciante interrogativo: era davvero il metodo giusto per conseguire i propri obiettivi? Lì nel “porto profumato”, il “metodo Occupy” è stato portato al massimo livello di efficacia. Eppure, come tutte le altre proteste ispirate a quella del 2011 a New York, ha ottenuto poco.

Persino quando l’occupazione investe tutta la città, ed è condotta con i metodi più efficaci, appoggiata dalla stragrande maggioranza della popolazione e soprattutto sentita da tutti coloro che vi partecipano, persino allora chi ha potere è sempre più forte.

ImmagineCome abbiamo visto, il sogno degli (ex) occupanti di Hong Kong è di duplice natura. È sulla battaglia alla corruzione che vorrei focalizzare l’attenzione. Perché, se molti paesi sono democratici (almeno formalmente), in tutti vi sono corruzione e criminali ricchi, potenti e al di fuori del palcoscenico mediatico. D’accordo, in Italia ci sono le mafie. E svariati demagoghi che le hanno fatto, le fanno e le faranno da parafaccia. Ma in Giappone non c’è forse la yakuza? E il partito liberal-democratico, che ha governato la terra del Sol Levante più a lungo di quanto non abbia fatto la Dc da noi, non è forse uno dei più corrotti del mondo? In Cina ci sono le tiradi. Perché non dovrebbero avere i loro uomini nell’amministrazione e nella finanza? Negli Stati Uniti c’è una ricca fauna di lobby, per molti versi ancora più pericolose. Nella Russia c’è l’Organizacjia, in America Latina i Narcos. E potrei continuare ancora a lungo.

Ci si può chiedere a cosa servono parole, idee e convinzioni di fronte a tutto questo. A cosa servano proteste e manifestazioni. Non credo si possa seriamente pensare che siano completamente inutili. Di sicuro, un governo ci pensa due volte prima di agire in maniera contraria alla volontà della gente, che in questi modi si mostra nella maniera più diretta finora conosciuta. Tuttavia, come si è potuto vedere, questo non basta. Di sicuro, se vi partecipano un gran numero di persone motivate, servono a creare un duraturo contesto politico, sociale, e anche culturale. Se però ad avere il potere è gente estranea a questo contesto, allora neanche questo è sufficiente.Immagine

Ora, premesso che la corruzione e l’oppressione ci sono sempre stati e sempre ci saranno, per affrontarle servono uomini che le combattano sul loro stesso livello. La rivolta di Hong Kong non ha infatti affrontato quel mondo sommerso che doveva sconfiggere, almeno nelle intenzioni dei suoi ideatori. È su due livelli che bisogna combattere per la libertà. Chissà quanti uomini combattono sottotraccia questa battaglia. Ma non possono fare molto, se la mentalità della gente fra la quale vivono non è come quella che gli Hongkonghesi hanno dimostrato di avere.

C’è una cosa che non ho ancora detto di questa rivolta: il suo nome. “La rivoluzione degli ombrelli”. Gli stessi ombrelli che gli occupanti hanno usato per difendersi dal lancio dei lacrimogeni e dal caldo soffocante, e che hanno anche un significato simbolico: la difesa del singolo individuo da un ambiente ostile. Forse ognuno di noi deve costruirsi l’equivalente – mentale, culturale e non solo – di  un ombrello.

In quanto a mentalità, l’Europa sembra aver già dato da un bel po’ di tempo, e quella che si sta delineando come la società del futuro non sta contrastando il processo di inaridimento politico, economico e culturale. E non è così solo da noi. Per fortuna che nel mondo vi sono ancora eccezioni, come Hong Kong. L’ideogramma cinese per dire “crisi” è composto da due ideogrammi, che significano pericolo e opportunità. E chissà che, proprio da quel contesto di crisi, non esca fuori qualche uomo di spessore, verrebbe quasi da dire un eroe, in grado di affrontare i tanti pericoli che la libertà delle persone di tutto il mondo corre sempre di più.

 

 ALESSANDRO VIGEZZI

 

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