C’era, una volta, Light

Light se ne stava lì, appollaiato sul davanzale consumato della finestra della sua cella… della sua stanza. Ormai conosceva a memoria il paesaggio che si ritrovava a fissare per ore, da anni. Delimitato dagli spigoli di una comune finestra, quel viale era rimasto intatto, immutato, contrariamente alla persona che continuava a fissarlo imbronciato, dal sottile vetro opaco che rigidamente lo estraniava da quel quadretto urbano. In ogni centimetro degli otto metri percorsi dall’asfalto e dal prato modesto che lo costeggiava, si potevano scorgere le migliaia di impronte delle fantasie che avevano calpestato quel suolo, alcune più impolverate di altre. Aveva il vizio di lasciarsi prendere dall’immaginazione, qualche volta. Bastava che socchiudesse appena gli occhi per vedersi passeggiare sul tappeto scricchiolante di foglie secche in compagnia di quella dolce fanciulla così attraente, così sfuggente… Sdraiati verso il cielo erano soliti farneticare ore e ore su quanto di poco affascinante l’umanità si impegnasse a creare, e su come l’avrebbero arricchita, insieme. Sognavano epoche passate e avventure emozionanti, lasciandosi avvolgere dall’entusiasmo e dallo stupore. Eppure quelle sensazioni erano scandite troppo velocemente dalle lancette dell’orologio a cucù appeso sulla carta da parati color senape. Così, tutte le volte che il gufo orgogliosamente cantava l’ora, le fantasie di Light sparivano lungo il vicino orizzonte di nebbia che delimitava il viale. E di nuovo le quattro mura della sua tana… stanza, come se il ragazzo sul vetro si divertisse a svegliarlo bruscamente istigando in qualche modo quel dannato pennuto. Infatti non appena nei suoi occhi riaffiorava la realtà, ad incontrare per primi la sua attenzione erano gli angoli della bocca del tipo di fronte a lui, tesi leggermente verso l’alto, quasi ad abbozzare un soddisfatto sorriso, nonostante fossero  poco avvezzi a modellare quel tipo di curva. Si sentiva piombare improvvisamente in una materia che a lui non apparteneva, lui che con le sue dita di cenere non riusciva a trattenere i suoi sogni. Tutto era contiguo nello spazio che lo circondava, nessuna apertura nei muri… solo superfici scollate e scheggiate dalla paura e dalla assuefazione. Proseguiva la sua vita lasciandosi sorpassare dal tempo, senza preoccuparsi della posizione nella quale si sarebbe piazzato. Indifferente, dall’alto di una pila di cuscini, si divertiva a sputare sentenze e giudizi contro il tipo di individuo che sarebbe dovuto essere e contro quella fanciulla che continuava a sfuggirle, lei… non abbastanza interessata da frantumare il vetro della finestra e rimanere con lui, evidentemente. E così aveva rinunciato a scoprire quale sarebbe stato lo sviluppo della sua trama… della sua vita, bloccato nell’eterno fermo immagine di una pellicola inceppata. Lo rassicurava aver potuto stabilire il finale adatto a lui così precocemente, e avere la libertà di inebriare i suoi occhi di appaganti desideri che non lo avrebbero mai deluso. Eppure, le ammaccature e le chiazze vermiglie sulle pareti, non erano parte della decorazione della carta da parati. Light se ne stava lì, appollaiato sul davanzale consumato della finestra della sua stanza, con il capo appoggiato al vetro. Ormai conosceva a memoria il paesaggio che si ritrovava a fissare per ore, da anni. Le fantasie che un tempo avevano passeggiato sul suo piccolo mondo non lo sfioravano più in quel momento, tranne una. Il calore del sangue fluente alleviava la gelida sensazione sofferta dalla sua guancia schiacciata sul vetro. Il paesaggio specchiato nei suoi occhi continuava a girargli in testa ma riusciva a vederla… questa volta non sarebbe stato necessario per le sue dita di cenere cercare di trattenerla. Sarebbe rimasta a cullarlo, sul tappeto di foglie, fino al momento in cui non si sarebbe lasciato rapire dal sonno.

GINEVRA

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