Necrologio

Ho preso una valigia e sono partito. Senza meta, senza soldi e senza dignità. Ho lasciato una moglie, un paio di figli e un prato sempre falciato. Ho rincorso un treno, un autobus e un taxi. Ho chiamato un ostello per dormire la prima notte ma essendo il periodo di punta era già tutto prenotato. Ho sonnecchiato in stazione e son stato svegliato da un magrebino che ha provato a vedermi un po’ di coca. L’ho comprata e poi sparsa per le strade della città, ho tracciato un percorso sull’asfalto. Come Gretel quando seminava le sue mollichine, come per formare una nuova linea da percorrere. Ho pensato a quanti cocainomani mi avrebbero bestemmiato dietro se solo sapessero. Se solo qualcuno sapesse. È che ho iniziato a capire quanto sia stanco di spiegare. Quanto sia difficile e inutile. Come se le mie parole fossero un eco lontano, qualcuno presta l’orecchio ma l’ascolto è sempre passivo e mai ben definito. Il messaggio non è mai come l’originale, è distorto, falsato, quasi incomprensibile.
Ho preso la valigia e sono arrivato qui. Un viandante solitario, ben diverso da quello di Friedrich, che aveva difronte un’immensa scogliera, io solo una periferia buia.
Sono in un quinto piano, un monolocale dismesso, lenzuola giallognole, un cucinotto arrugginito e un letto che scricchiola sempre. Mi sono detto “va bene così”.
Mi bevo un whisky mentre leggo il necrologio della giornata, nomi sconosciuti di donne e uomini probabilmente con una vita noiosa come la mia, senza sintomi. La mia vita era sempre stata incorniciata, un uomo di buona famiglia, con una moglie rispettabile, due figli con un’ottima media scolastica e giornate che si basavano su lavoro, giacca e cravatta. Non c’era niente di peggio di uno come me. Una persona normale, una vita comune, niente di particolare, nessun amore cercato e rincorso durante l’adolescenza, nessuna sigaretta spenta nel balcone nel sentir girare la chiave nella porta di casa, nessuna bottiglia nascosta nell’anta del mio armadio, niente di niente. La mia gioventù era evaporata come una goccia d’acqua esposta a troppo calore. Perduta. Rubata.
Non mi sono mai perdonato di non avere vissuto.
E mentre sprecavo le mie giornate non riuscivo a rendermi conto dello scorrere del tempo. Rimandavo, rimandavo come se la vita fosse una serie infinita di occasioni pronte per essere colte e che sì, sicuramente sarebbe arrivato anche il mio momento.
Sessantatré anni nell’attesa di qualcosa, di qualcuno che strattonasse il mio braccio e mi dicesse “guarda lì, lo vedi? Inizia tutto da lì” e io avrei visto qualcosa di magnifico e sarei corso, corso fortissimo per andare incontro alla vita e abbracciarla. Avrei sorriso a qualcosa che mi avrebbe dato felicità. Perché io lo sapevo che qualcosa c’era, ci doveva essere per forza qualcosa. I poeti non potevano aver inventato tutta quella gioia e quella tristezza, e la religione da qualcosa di magico doveva pur essere nata? Invece io rimanevo sulla soglia della mia vita aspettando, ma nessuno strattonò mai il mio braccio, nessuno mai mi portò dove cominciare ed essere. Così ora capisco, sorridendo, capisco che non inizia né finisce nulla, che nessuno ha doti più di me né minori delle mie. Solamente un po’ di fantasia. Quella non si acquista, non si compra, non si trova. Per me il grigio rimarrà sempre grigio, non si trasformerà mai in un gigante arcobaleno.
Questo monolocale orrendo non si trasformerà mai in una casa dei sogni.
Non sono vuoto, non sono stupido e nemmeno pigro.
Sono triste e solo, non sogno, non sono e non sarò. Sono un illuso e non potrò mai diventare altro. Chiudo il necrologio e mi sdraio, una pasticca, due, tre.

L’indomani qualcuno vide sul necrologio uno spazio bianco, un uomo senza nome. Non capì.

ALICE SAGRATI

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