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Dolore

A volte provo un dolore che parte dalla testa e si irradia alla punta delle dita. Un dolore che mi fa aprire gli occhi e mi urla qualcosa di preciso e ineluttabile. Un dolore che è un sottotesto quasi cutaneo. Lo posseggo vibrante tra le vene e i muscoli. Un dolore non meglio precisato che mi terrorizza.

Ma tace, talvolta. Ed è nei suoi momenti di silenzio che riesco a vivere (ridere, scherzare, stupirmi, gioire). Un dolore che sembra sempre essere troppo poco, che lo è sempre sembrato. Lo cullo come un cucciolo ferito, a volte lo nutro e poi provo rimorso per averlo dimenticato in quell’angolo. E’ il dolore che mi nomina. E’ il mio. E’ la mia fisiologia del dolore. Come quella volta in altalena, quando niente mi sembrava più che bello che dondolare, eppure dopo un po’ non mi bastava più. E’ quella canzone meravigliosa che pensi non ti stancherà mai. E’un segreto che ricaccio nel fondo e chiudo con ottocentomila lucchetti. Ed è sempre lì.

 

 ARIANNA BONORI

Espiazione

Avevo la scatola bianca stretta fra le dita quel giorno, la pioggia scendeva lieve, neanche fosse vaporizzata, neanche il cielo possedesse un impianto di irrigazione e fosse settato su “vaporized”.
Seduto sulla riva del lago, mi tolsi le scarpe e infilai i piedi nell’acqua gelida. Mi percorse un brivido, strinsi di più la scatola, e mi scese una lacrima. Immagino fosse dovuto per la reazione con il freddo. Il sole c’era ma era freddo. Tentavo di non osservarlo direttamente (studi liceali mi avevamo ravvisato sulla possibilità di danni alla retina) ma i giochi di luce mi affascinavano. È la pioggia ne stava tirando fuori di buffi. Poso per un secondo la scatola bianca sull’erba bagnata, e con entrambe le mani cominciai a tirare una corda, alla quale era legata un’altra scatola, ma delle dimensioni di un leone. Più che una scatola era una vera e propria cassa: mi è venuto in mente il leone perché sembrava di quelle usate per trasportare gli animali feroci. Con l’unica differenza che non aveva dei buchi per far passare l’aria. Tirai fuori dalla tasca una goleador alla frutta, cominciai a succhiare la parte rossa. Sapevo che avrei dovuto attenderla, e la mia pazienza quel giorno non conosceva limiti. Sarei potuto rimanere lì seduto un mese. Sarei potuto rimanere immobile per anni. Sarei potuto rimanere sulla sponda di quel lago per cinquantatre anni, sette mesi e undici giorni, proprio come scrisse Garcia Marquez.

Appena la girai mi venne voglia di correrle incontro e di baciarla. Gesù, quelle labbra le conoscevo come neanche me stesso. Le conoscevo così bene che avrei potuto elencarne ogni piega, ogni ruga, ogni sottile riga, sia di quello inferiore che superiore. E scommetto anche che, alcuni di quei piccoli segni presenti su quelle meravigliose labbra gliel’avevo procurato io con gli eccessivi baci. Si poteva quasi dire che le avessi create io quelle labbra così confortevoli così invitanti e consolanti.
Mi pose addosso quegli occhi freddi, svuotati di ogni goccia d’amore o pietà. Me li sentii addosso come macigni , ma l’avevo immaginato. Quello sguardo mi faceva paura. Non c’era in lei, nei suoi occhi, alcun segno del passato. Era puro e semplice disprezzo, e non si curava certo di celarmelo. Le tremavano le mani, ma era algida nel sostenere il mio sguardo. “Cosa vuoi da me, ancora?”. Era sicura. Sicura del suo dolore. Sicura nel suo approcciarsi al rifiuto. Poi volse la testa verso la cassa di legno e trasalì. La sua espressione si trasformò e mi guardò interrogativa.
“Elena. Non ti chiederò di interrompermi perché so come sei fatta. Conosco la tua immensa educazione e so che non lo faresti. Quindi ho solo un preambolo da farti. Dentro questa specie di enorme cassa per animali feroci, è racchiuso tutto il male che ti ho fatto. È grande, me lo riconosco. È talmente grande che supera il mio corpo e il tuo insieme. Così grande che se si abbattesse su una persona è probabile che la paralizzerebbe o la ucciderebbe. Il male che ti ho fatto è talmente grande che infatti hai notato solo questa. Ma, Elena..”  Presi la scatola bianca ponendomela sul grembo. “Elena quella che tu non hai notato è questa piccola scatola bianca. Nella sua purezza, racchiude tutto ciò che io sono in relazione con te, la bellezza e la commovente voglia di averti accanto. Non c’è relazione tra questa e il male che ti ho fatto. Ma la scatola c’è. È piccola ma c’è. Ed è qualcosa che riesco a portarmi sempre dietro, a portarmi ovunque… A differenza della cassa enorme. Per portarmi dietro il male che ti ho fatto ho dovuto chiamare una ditta di trasporti, pagare un conto salatissimo chiedere il permesso al parco. È di certo qualcosa che non farò mai più, Elena, perché mi costa troppa fatica. E perché è troppo più semplice, bello e leggero amarti. Portarmi dietro questa scatolina bianca. Che non pesa, non è d’impaccio e che…” Porsi la scatola nelle sue mani bianche ” E che è tua, e lo sarà per sempre” La lasciai così con la scatola bianca in mano e la bocca serrata, quelle labbra che conoscevo bene. Mi allontanai senza avere più nulla in mano.

Non avevo più nulla con me ed incredibilmente non mi sentivo affatto leggero.

 ARIANNA BONORI