Dante e Svetonio: un rapporto complesso

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna

e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna (Dante, Paradiso, VI)

Questa terzina è l’incipit con cui Dante descrive il passaggio dell’aquila imperiale nelle

mani di Cesare. Caio Giulio Cesare: uomo politico lodato dalla storia antica e moderna, è una delle figure centrali della visione storico-politica dell’Alighieri.

Il cuore di Dante (e per questo Ugo Foscolo lo definisce ghibellin fuggiasco) batte per l’Impero. Questa visione politica trova completa esplicitazione nel De Monarchia e nel canto VI del Paradiso, canto politico incentrato sul Principato, apice di un climax ascendente iniziato nel canto VI dell’Inferno con la critica alla Firenze duecentesca e ripreso nel canto VI del Purgatorio con l’accusa all’Italia, “nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!”. Dante crede che tutto l’universo sia contenuto in Dio e che di conseguenza tutto, essendo in Dio compreso, abbia valore solo in virtù di Lui. Su tale concezione si fonda la teoria provvidenziale degli avvenimenti: ogni evento è manifestazione di un disegno divino che ha il suo perno nella nascita e morte di Cristo.

Da questo dettaglio deriva la centralità che Dante attribuisce all’Impero Romano: Roma è legittimata nel suo controllo politico del mondo dal fatto che Cristo, e quindi Dio, ha deciso di farsi giudicare dall’autorità imperiale. Questa scelta divina comporta anche la legittimità della monarchia universale, istituzione necessaria. La monarchia è un potere super partes, grazie al quale l’uomo ha la possibilità di raggiungere la piena realizzazione delle sue capacità. Ciò è garantito dall’esistenza di un unico Impero, a capo del quale il sovrano prescelto non potrà essere vinto dalla cupidigia che genera guerra ma, possedendo il controllo totale del mondo, permetterà il conseguimento stabile e duraturo della pace terrena.

Tale governo è per Dante rappresentazione dell’autorità divina che governa il cosmo, perciò il potere dell’imperatore dipende direttamente da Dio, il quale investe provvisoriamente del suo infinito e immenso potere un uomo. L’Impero è parte di un disegno divino e il motore di questo disegno è Cesare. Ma perché Cesare è motore di un disegno divino manifesto nell’Impero Romano, anche se egli non fu mai imperatore? Tale interrogativo è stato oggetto di numerosi dibattiti filologici, conclusisi con la risposta di Luciano Canfora, classicista, il quale ha evidenziato come la centralità di Cesare in Dante derivi dall’influenza di Svetonio. Dante ha letto Svetonio, e ciò risulta evidente nella descrizione di Cesare nel Limbo (è l’unico imperatore romano ad essere lì): “Cesare armato con li occhi grifagni” (Inferno, IV, 123). Questo ritratto emula la descrizione del personaggio nel De vita Caesarum: “Caesar fuisse traditur […] nigris vegetisque oculis” (cap. 45, I). Svetonio è necessariamente fonte dantesca, poiché è l’unico che caratterizzi Cesare soffermandosi sulla descrizione degli occhi.

Inoltre, Dante riprende l’errore nel definir lo imperatore: il poeta, nell’epistola VII indirizzata ad Arrigo VII, si riferisce al suddetto con l’appellativo “Caesaris et Augusti successor” e, nel canto VI del Paradiso, nella giunta di Giustiniano relativa al cammino dell’aquila imperiale definisce Cesare “portatore del sacrosanto segno” e nomina Augusto “secondo baulo”. Sia per Dante sia per Svetonio, Cesare è il “primo baulo”, colui che inaugura la serie di imperatori. Cesare è lo strumento della volontà divina in un cammino che porta alla fondazione dell’Impero Romano. Egli è di una tale importanza che i suoi traditori, Bruto e Cassio, hanno lo stesso contrappasso del traditore di Cristo. Per Dante tradire Cesare equivale a tradire Cristo; Cesare stesso è figura Christi, e senza di lui il piano divino sarebbe rimasto incompleto.

 

LUCREZIA LEMMA

 

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