L’importanza di chiamarsi muone

Parliamo di piogge. Forti precipitazioni che invadono l’atmosfera, investendo l’aria a una grande velocità, per poi ricadere sul suolo. Componente essenziale di tutti gli ecosistemi, ma anche causa di notevoli disagi nella nostra vita quotidiana. No, non sto parlando dell’ennesima cataclismica bufera d’acqua piovana che metterà a serio rischio il vostro fine settimana per una volta esente da gravosi impegni, a cui viene quasi meccanicamente associato  l’ennesimo  appellativo volto a sradicare definitivamente in noi la speranza di poter varcare la porta della nostra abitazione verso l’esterno – anche solo per andare a comprare del latte nello squallido alimentari sotto casa (come non scoraggiarsi, del resto, di fronte a “Caronte”, “Mefisto” o “Attila”?); mi sto invece riferendo alla “pioggia di muoni”.

Una pioggia concettualmente vicina a quella d’acqua a cui siamo abituati, con differenze – però – sostanzia li: è infatti invisibile a occhio nudo, è pressappoco impercettibile   ai  sensi  umani,   indifferente  al  vento (essendo costantemente rivolta in tutte le direzioni) e in grado di attraversare tutti gli oggetti con cui entra in contatto. Ma la più grande diversità, come è facile immaginare, sta nel fatto che sia composta da muoni. Bene, tali “muoni” non sono altro che particelle subatomiche – ossia piccoli frammenti di atomi – originate in alta atmosfera (10-15 km dal suolo) dall’impatto con l’atmosfera stessa di raggi cosmici (particelle dotate di alta energia) provenienti da stelle e galassie lontanissime – che prendono il nome rispettivamente di pulsar e quasar –, da resti di esplosioni di stelle, quali le supernove (magnetar), e dai buchi neri. Bene, dopo questa definizione degna di un ottimo film di fantascienza, passiamo alla “pratica”. Sì, perché soltanto ora potrete capire come degli enti così apparentemente insignificanti possano possedere un’importanza altrettanto straordinaria  per l’uomo. In base ad essi, infatti, vengono rilevate le “muografie”, delle vere e proprie radiografie di muoni, il cui funzionamento  è affine a quello  dei raggi x: proprio come nelle comuni radiografie, dove le ossa, essendo più dense della carne, “fermano” un numero maggiore di raggi,  esse presentano aree di densità più alta laddove vi sono più muoni. La più recente evoluzione della tecnica di rilevazione muografica ha addirittura permesso di realizzare una vera e propria mappatura tridimensionale delle densità di muoni in uno specifico oggetto; ed è, dunque, grazie  a  tale  “tomografia muonica” che è stato possibile applicare una scoperta scientifica in apparenza solo “teorica” e priva  di effettiva utilità per l’uomo alla risoluzione, invece, di molti problemi reali, più vicini di quanto si possa inizialmente  pensare.

Qualche esempio? I muoni possono innanzitutto aiutare nella ricerca di falde acquifere nascoste e, in zone aride o caratterizzate da violenta siccità, costituiscono di sicuro un elemento essenziale per la sopravvivenza , eliminando la dipendenza di quell’area geografica dall’attingere a piogge, corsi fluviali o altre risorse che possono rivelarsi insufficienti:  ebbene sì, se la pioggia si fa desiderare si utilizza questa inusuale tipologia di precipitazione per cercare l’acqua. Sta avvenendo  a Guadalupa, nelle Antille francesi, dove un progetto dell’Università di Rennes ha come obiettivo  la ricerca di cavità d’acqua al di sotto del vulcano spento di La Soufrière. Rimanendo in ambito di vulcanologia, come dimostrato dalla muografia al monte Asama, eseguita nel 2007 dai ricercatori dell’Università di Nagoya (Giappone), i muoni che precipitano in direzione quasi orizzontale possono rivelare molto  della  struttura interna di rilievi vulcanici.  La muografia non può evidenziare la struttura profonda di un vulcano, come una camera magmatica, ma solo parti relativamente poco profonde: non ci consente di sapere quando effettivamente possa avvenire un’eruzione, ma offre dettagli utili per capire in che modo possa manifestarsi permettendo, in alcuni casi, di prevenirla. In particolare le immagini muografiche riescono a evidenziare zone a bassa densità sotto un deposito di magma solidificato  e a indicare possibili vie d’uscita per il magma. Si tratta, comunque, di un ambito del quale potenzialità ed effettivo campo d’azione devono ancora essere integralmente carpite e in particolare, attualmente, la ricerca internazionale sta vertendo sul migliorame nto degli apparati sperimentali (i “rivelatori”) e su un generale aumento della risoluzione delle immagini muografiche.

Non basta? Bene, i muoni sono ormai un’importantissima risorsa anche nel campo dell’archeologia; nel 1966, infatti, lo statunitense Luis Alvarez, premio Nobel per la Fisica soltanto due anni dopo, chiedendosi come mai la piramide di Chefren avesse solo una camera di sepoltura (la “camera di Belzoni”) mentre la piramide vicina di suo padre Cheope aveva una struttura interna più complessa, ebbe l’intuizione di utilizzare la muografia per individuare eventuali  camere nascoste, aprendo così la  strada al ricorso di tecniche di fisica delle particelle per indagare su antiche strutture. Kunihiro Morishima  è tornato con la sua équipe franco-giapponese in quegli stessi luoghi e, sfruttando contemporaneamente tre diverse tecniche di analisi basate sui  muoni, più avanzate di quelle utilizzate – senza, in realtà, risultati – da Alvarez, sono riusciti a visualizzare un grande vuoto all’interno della piramide di Cheope e a determinarne forma e dimensioni. Struttura e ruolo di tale ambiente non sono indagabili con la scienza, ma è  sicuramente emblematico poter pensare a una sempre crescente contestualizzazione della teoria scientifica  nello specifico ambito pratico, con tempi e modalità molto diversi da quelli che si potrebbero comunemente pensare.

Ma torniamo all’ambito teorico. Ebbene sì, perché i muoni non smettono di sorprenderci anche sotto questo punto di vista. Li abbiamo descritti come frammenti di raggi cosmici: in quanto tali, essi viaggiano  alla velocità della luce (2,2 micro-secondi). Dunque, secondo i dettami della fisica classica, i muoni si disintegrerebbero poco dopo la loro comparsa (a 1,52 × 10-6 s). Ora, immaginiamo di trovarci in montagna e di contare i muoni presenti. Replichiamo tale azione anche a livello del mare. Ci accorgeremmo che il numero di muoni che decadono è sempre lo stesso e che, addirittura, i muoni presenti al livello del mare sono in numero più elevato.

Oltretutto il tempo al quale in media essi impattano con il suolo è circa dieci volte maggiore di quello preventivato. Di conseguenza si potrà affermare che è avvenuta prima di tutto una dilatazione temporale – della quale noi non risentiamo per la banale motivazione che ci spostiamo a una velocità di gran lunga inferiore a quella della luce –, oltre a un aumento di massa. Bene, proprio grazie ai nostri cari muoni avremo dimostrato, più o meno consapevolmente, i fondamenti sui quali Einstein – sì, proprio lui – basò la sua teoria della relatività.

I muoni, dunque, forniscono una grande occasione per intendere la scienza non più alla stregua di “libro polveroso”, come chiusa in se stessa e nel linguaggio indecifrabile dei laboratori, ma come strumento per decifrare la natura, una natura – come diceva Galilei – che è “libro aperto”, una natura che l’uomo ha bisogno di conoscere e rispettare in quanto parte di essa e della quale deve essere sempre attento a sfruttare ogni potenzialità.  Che lo vogliamo  o no, la scienza fornisce il modello di futuro più sostenibile e intelligente che l’uomo possa immaginarsi. Perché,come afferma Piero Angela, “la velocità della luce non si decide ad alzata di mano, a maggioranza”.

Ora credo di star divagando troppo. Sarà meglio andare a fare due passi. Ma forse mi conviene prendere l’ombrello,  ché piove.

 

ALESSANDRO IACOVITTI

 

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