Spazio di costruzione

Se un qualsiasi testo scritto dovesse essere osservato a distanza, si perderebbe gradualmente la capacità di distinguere le parole che lo compongono; si riuscirebbe – però – a individuare ancora in modo netto quegli spazi bianchi che intercorrono tra di esse, che le affiancano quasi fossero le loro strutture “ossee” – le loro “radici”.

Quello che può essere definito “vuoto” è – in realtà – il luogo migliore per far sì che avvenga una sorta di “costruzione autonoma” da parte del lettore; quegli interstizi sono fessure attraverso cui guardare e creare una dimensione testuale a sé stante, un “oltre-letterale”.

Con questa premessa si può assimilare meglio l’affermazione manzoniana inerente il “vero poetico” e – ancor di più – in riferimento al ruolo che Manzoni stesso attribuisce alla poesia, confrontandola con la storia: egli dice che quest’ultima “ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno” e che – invece – la prima è il mezzo con cui si ha l’occasione di “creare nel senso più serio, e forse nel solo serio, della parola” perché “ogni segreto si rivela” (“Lettre à Monsieur Chauvet”).

Dunque anche Manzoni individua questi spazi tra ciò che è manifesto esteriormente e formalmente, e ciò che nessuno può davvero cogliere – se non con procedimenti di costruzione; la sua peculiarità è che ha dedicato l’intera esistenza a tentare un’unione armonica tra il vero e la “creazione poetica”.

Il riconoscere questo compito  come unico della poesia (o delle forme artistiche in generale – parlando in termini più ampi) è fondamentale: bisogna rendersi conto di quanto la storia, i dati certi e obiettivi – universalmente validi, trovino in realtà dei limiti intrinseci legati – appunto – alla loro naturale azione di riportare solo “ciò che è come è” o “come si conosce”; come gli spazi tra le parole, dunque, le voragini presenti nei racconti storici non possono essere colmati se non modellando, ipotizzando, quel qualcosa che nessuno – a posteriori – sa per certo, quindi può nascere solo da una facoltà alt(r)a, propria di pochi: la sensibilità artistica.Cogliendo lui come spunto, si può ricordare anche un’altra personalità chiave della cultura letteraria, che ha espresso un concetto simile: il poeta inglese romantico John Keats (inizi dell’Ottocento); egli fonda la propria poetica sulla “negative capability”, ovvero la capacità – unica del poeta – di cogliere sensibilmente e di immaginare ciò che ogni altro essere umano qualsiasi non potrebbe identificare affidandosi alle sole facoltà basilari che possiede per analizzare il mondo reale e concreto. Un’abilità – quindi – puramente plastica. Per avvalorare questa sua affermazione, Keats dice anche che il poeta è “come l’acqua, che prende la forma del proprio contenitore” e perciò che annulla se stesso per entrare in quella dimensione celata, per esprimere e manifestare quelle “melodies unheard” – più “dolci” di quelle che chiunque riesce a sentire.

In questo tipo di dimensione, il vuoto può diventare il terreno più fertile su cui dare vita all’ignoto, al recondito, su cui far sì che si manifestino quelle sensazioni – quelle emozioni – che le testimonianze storiche non possono farci giungere in altro modo che non sia sotto forma di ipotesi conseguenti a dati.

A conclusione, cito la quinta di copertina del saggio “Il Vuoto”, ad opera dell’architetto/saggista/giornalista politico Fernando Espuelas: “il vuoto in architettura è garante di regola, senso e composizione, funziona anche da stimolatore emozionale. Il saggio indaga il vuoto sia come concetto assoluto, sia nella sua concretezza materiale”.

Ecco, quelle “radici di spazio” – che siano tra le parole di un testo, nei racconti storici, in edifici architettonici – costituiscono la principale linfa che anima il respiro dei sensi e delle emozioni.

ARIANNA VARTOLO

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