C’era una volta Super Mario

Storytelling e videogiochi: è vero che sono un medium “di serie B”?

«La trama in un videogioco è come la trama in un film porno: ti aspetti che ci sia ma non è così importante»

Così la pensava John Carmack nel 1993, e lui di videogiochi ne capiva parecchio: chiunque abbia una conoscenza anche solo poco più che superficiale della materia collegherà infatti prontamente questo nome a DOOM  (della id Software, 1993), titolo che, grazie alle sue innovazioni tecniche e a un gameplay semplice e immediato (condito da una sana e abbondante dose di genuina, ingiustificata e ignorantissima violenza), attuò, al momento della sua uscita, una vera e propria rivoluzione in campo videoludico. Niente da dire sulla sua affermazione: l’obiettivo finale di un videogioco è intrattenere, e se la trama si riduce a un banale espediente narrativo, utile soltanto a dare la possibilità al giocatore di “maciullare” orde di demoni utilizzando le armi più disparate, poco male.

Questo però ha portato la stragrande maggioranza dei “non giocatori” a considerarlo come un medium “di serie B”, bollando l’assenza di un intreccio solido come conseguenza diretta e necessaria di quanto detto. Tale assunto, tuttavia, è fallace: non solo molti videogiochi sono ricordati e amati dagli appassionati per la loro trama, ma essi hanno dato la possibilità agli sceneggiatori più capaci, grazie alla loro particolare natura, di dare libero sfogo alla propria creatività, e di inventare dunque un linguaggio narrativo inedito e che nulla ha da invidiare a quello di libri, fumetti, film e quant’altro. Quello che caratterizza infatti questo mezzo è l’immersività: mentre nei media appena citati il fruitore è un semplice spettatore, che assiste alle avventure di qualcun altro, nel videogioco egli è chiamato a svolgere una parte attiva nella vicenda; è lui che si aggira per le stanze di una casa infestata cercando disperatamente un’uscita, è lui che imbraccia il fucile e sente i proiettili fischiare a un centimetro dalle sue orecchie, è sempre lui a indossare l’armatura e a combattere contro un temibile drago sputafuoco per salvare la principessa.

Caratteristica, questa, che non è passata inosservata agli sviluppatori più intraprendenti e che venne sfruttata appieno in Half-Life (della Valve, 1998): il gioco in questione, uno sparatutto in prima persona, si basa su una trama estremamente banale (in un laboratorio sotterraneo segreto in New Mexico un devastante incidente apre un varco dimensionale da cui fuoriescono creature aliene ostili; il giocatore, nei panni dello scienziato responsabile dell’incidente, dovrà trovare un modo di raggiungere la superficie e di contattare i soccorsi), che viene però raccontata in maniera innovativa ed efficace, affiancando situazioni di stampo prettamente cinematografico alla scelta inedita di non ricorrere a filmati di intermezzo, lasciando al giocatore il pieno controllo del protagonista per tutta la durata dell’avventura e amalgamando quindi perfettamente le fasi di azione e di sviluppo dell’intreccio. D’altronde una trama semplice ma ben raccontata è ciò che caratterizza molti capolavori indiscussi della letteratura: pensiamo, ad esempio, a quella dei Promessi Sposi, che si potrebbe riassumere – senza peraltro temere di fare un torto al nostro amato Manzoni – in questo modo: ci sono due che si vogliono sposare, c’è uno che vuole impedirglielo, quello che vuole impedirglielo a un certo punto muore e i due si sposano. Ed è sempre il nostro amato Manzoni a insegnarci la grande importanza di un’ambientazione ben costruita, che non faccia solo da sfondo ma che svolga un ruolo preponderante nell’opera; lezione, questa, che molti videogiochi hanno fatto propria: si pensi alle saghe di The Elder Scrolls (Bethesda Softworks) e Fallout (a cura dapprima di Black Isle Studios e poi anch’essa di Bethesda), o a Vampire: the Masquerade – Bloodlines (Troika Games, 2004).

Uno dei più imponenti sotto questo aspetto è sicuramente Deus Ex (Ion Storm, 2000): ambientato in un fantascientifico 2052 dall’estetica cyberpunk, il figlio prediletto dello sviluppatore visionario Warren Spector (già padre di System Shock nel 1994, primo vero iniziatore degli sparatutto story-driven) e del suo team ci racconta di un mondo in cui le Nazioni Unite, guidate da ricchi banchieri e capitani di corporazioni senza scrupoli, stanno tentando di estendere il loro dominio sull’intero pianeta. Ciò che colpisce è la maniacalità nella realizzazione dell’ambientazione, la cui ricchezza, quasi sovrabbondanza di particolari compone un mosaico perfetto, preciso e senza sbavature, in cui gli eventi che accadono e che ci vedono protagonisti – o meglio agenti, semplici marionette nelle mani di organizzazioni ben più grandi di noi – si ripercuotono in maniera logica e impeccabile

su tutto il pianeta, assicurando così al giocatore l’immersione totale nel mondo di gioco, dandogli l’impressione di star facendo molto più che seguire semplicemente un percorso tracciato dagli sviluppatori.

Altra caratteristica del medium e l’interattività, che non ha mancato di essere sfruttata per raccontare storie da parecchi sceneggiatori. Questa caratteristica, ben integrata nello storytelling dei videogiochi sin dalla loro nascita, ha raggiunto il suo apice in capolavori del calibro della saga fantascientifica di Mass Effect (Bioware). Nella saga, che ha la dignità di una vera e propria “space opera”, a farla da padrone sono le scelte esercitate dal giocatore, che scegliendo fra le opzioni fornitegli durante i dialoghi può indirizzare la storia nella direzione che preferisce, trovandosi spesso a dover fronteggiare conseguenze inaspettate derivate dalle proprie azioni e rendendo la propria esperienza di gioco di fatto unica e differente da quella avuta da un altro giocatore che ha esercitato scelte diverse.

C’è poi chi è andato ben oltre la narrazione tradizionale, inventando soluzioni narrative del tutto originali – la serie di Dark Souls (From Software) o il particolarissimo Journey (Thatgamecompany, 2012) sono ottimi esempi di questa ricerca – e chi ha offerto una mediazione fra media diversi (si pensi in questo senso ai vari Batman: Arkham di Rocksteady, che sono riusciti a trasporre fedelmente il mondo del pipistrello di Gotham City dalla carta stampata dei fumetti al gamepad delle console).

Molti altri sarebbero i prodotti che meriterebbero una citazione: Final Fantasy, Metal Gear Solid, tutti gli indie à la To The Moon”… ma il succo del discorso rimarrebbe lo stesso: non esistono media “di serie A” e media “di serie B”; piuttosto, ognuno ha il proprio linguaggio che, se padroneggiato, permette di raccontare storie in grado di colpire e affascinare, indipendentemente dal modo che si sceglie per raccontarle.

DAVIDE RUBINETTI

 

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