L’immortalità di Eschilo

 

“Il teatro è nato dall’esistenza basilare della razza umana, dalla sua ciclicità, nascita, crescita e morte e poi rinascita di un altro essere e così via […]. Il sentimento individuale che percepisce in maniera tragica la propria esistenza avrà nel teatro il suo conforto, perché il teatro racconta proprio questa esistenza tragica, assurda, paradossale […]. La nostra società tenta di sradicare la tragicità dell’esistenza umana, rendendo tutto facile, tutto liscio, tutto calmo. Questa facilità della vita va contro il teatro.” (Peter Stein)

Mi sono chiesta quale fosse la ragione che ha fatto nascere il teatro ed in particolare la tragedia, e su questo ho fantasticato molto. Una tra le fantasticherie che ritengo migliori è questa: “La tragedia è nata per un’assoluta necessità di conforto. Per dimostrare che di fronte al peggio si può sopravvivere, per giustificare l’insopportabile sfortuna secolare che attanaglia un’intera stirpe, per consolarsi, accorgendosi del fatto che qualcuno è più sfortunato di te. La tragedia: nel sonno pensi di cadere, ti afferra e ti tira su. La tragedia ti fa credere in qualcosa di più grande, come la giustizia, come se esistesse. La tragedia stimola la paura quando credi di aver fatto qualcosa di sbagliato, perché non c’è scampo alle proprie responsabilità. La tragedia non l’ha inventata Eschilo: egli l’ha tirata fuori e l’ha rappresentata secondo una struttura teatrale, ma è propria di tutti e in tutti si manifesta in modi diversi, e, quando la si vede rappresentata, si arriva alla catarsi, alla riappacificazione dei sensi. Forse è per questo è stata utilizzata come strumento politico. Forse niente di tutto ciò è vero ma in molti, avendo conoscenze qualificate in materia, hanno fantasticato intorno alla tragedia.

Aristotele, che di tragedia ne sapeva moltissimo, scrive: “È la tragedia, l’imitazione (μίμησις) d’un’ azione seria e compiuta, avente una certa ampiezza (cioè: contenuta entro certi limiti), in discorso abbellito in differenti modi nelle varie parti (ciò si riferisce alle differenze di metro e di dialetto tra le odi corali e il dialogo), esposto da persone in atto e non in forma di racconto, la quale per via della pietà e del terrore opera la purgazione (κάϑαρσις) di queste passioni”.   Ma   non   solo   lui,  anche   più  moderni personaggi quali Hume, Hegel, Schopenhauer e molti altri hanno formulato la propria idea: Hume vede, nell’assistere a una tragedia, divenire più intenso il piacere che proviamo nell’attività della fantasia, intenta a rispecchiare la vita: più intensa è la vita rispecchiata, più cresce il piacere. Hegel vede nella tragedia due opposte ragioni contemperarsi in una superiore armonia. Schopenhauer vede nella stessa il più elevato dei generi poetici, poiché, secondo lui, meglio di ogni altro rivela la natura del mondo e dell’esistenza: “i dolori senza nome, le angosce dell’umanità, il trionfo dei malvagi, il potere schernitore del caso, la disfatta irreparabile del giusto e dell’innocente”.

Andando oltre le varie fantasticherie – anche se a questo punto, dopo questi grandi nomi mi risulta difficile chiamarle tali – ci accorgiamo di quanto la tragedia sia moderna, e capiamo perché ancora oggi vengono rappresentate opere scritte nel V secolo a.C.  Non si conosce con perfezione da cosa questa si sia sviluppata e nel corso del tempo sono state elaborate diverse ipotesi, però è Eschilo che si conosce e si tramanda come primo tragediografo, come colui che, “diminuì la parte del coro, e fece protagonista il dialogo” (Aristotele, Poetica). Con lui il dialogo diventò il vero protagonista: fu introdotto il secondo attore, cosa che delineò l’indipendenza di questo dal coro e che diede forma alla vera e propria tragedia.

Eschilo non si occupò solamente di tragedie ma partecipò di persona ad alcune delle più importanti battaglie che contraddistinsero quel periodo: Maratona, Salamina e Platea. Questo può farci capire quanto visse in modo attivo quell’epoca di grandi cambiamenti, di rinnovamento di valori, di ridefinizione dell’assetto politico. Come lui fu molto legato agli sconvolgimenti politici di quel tempo, lo fu anche la tragedia: di essa si occupava lo Stato, e il contesto in cui la rappresentazione originariamente aveva luogo è l’ambito religioso e popolare delle Grandi o Piccole Dionisie. Tutta la polis vi era partecipe, come parte di un rito collettivo, e allo stesso tempo il teatro diventava una piazza cittadina e un luogo di discussione. La rappresentazione tragica mette in scena il mito e lo utilizza come strumento. La tragedia ha un valore sociale importantissimo: propone valori e modelli di comportamento per una società in cambiamento. Risponde alla necessità dello Stato e allo stesso tempo, per i cittadini, è un momento di tregua dalla realtà presente. Tutto l’universo tragico si colloca in due mondi distinti: quello del mito e quello dell’attualità che combaciano grazie all’abilità del tragediografo e alla sua volontà di divulgare nuovi valori: collettivi e democratici.

ImmagineL’Orestea di Eschilo rispecchia in pieno ciò che è stato detto finora: narra una storia unica, sviluppata in tre episodi che affondano le proprie radici nella mitologia dell’antica Grecia, che diventa la voce concreta dei valori di giustizia e rispetto incarnati negli dei e nello Stato, nel tribunale dell’Areopago. Eschilo in questo modo si pone come maestro del popolo e così infatti viene definito da Aristofane in un verso delle Rane: “Per i fanciulli c’è il maestro che insegna, per gli adulti ci sono i poeti”. Una tragedia è storia di eroi, che per gli antichi era il mito. Eschilo raccontava le sventure di un’intera stirpe: L’uccisione di Agamennone, la vendetta di Oreste, l’assoluzione del matricida. Questa trilogia è l’unica di tutto il teatro greco ad esserci pervenuta per intero. Questa trilogia nel 2016 viene ancora rappresentata. Questa trilogia nel 2016 vive, come vive ancora Eschilo e tutti i tragediografi dopo di lui e vivendo viene vista da ragazzi adulti e bambini incapaci di  coglierne  il  senso  ma  capaci di restarne abbagliati. Il concetto di teatro è cambiato notevolmente da quando Eschilo scrisse le sue tragedie, ora si riesce maggiormente a distinguere la realtà dalla finzione. Ora lo spettatore non viene più coinvolto direttamente nelle vicende che subiscono gli eroi mitologici ma sicuramente da alcune caratteristiche proprie dei suoi personaggi: la loro profondità psicologica, le loro paure, le loro insicurezze non hanno “tempo”. Lo spettatore resterà per sempre colpito dalle vicende e le comprenderà, facendo proprio il senso di giustizia o la paura verso il divino. Anche se nel 2016 le divinità non sono più le stesse e i re e le profetesse non esistono più è impossibile definire invecchiata la tragedia.

Per tutte queste ragioni Luca de Fusco, nato 2415 anni dopo la prima vittoria alle Grandi Dionisie dell’Orestea, decide di darle nuovamente vita dopo 2473 anni. Nell’arco di questi anni non fu l’unico ad intraprendere l’impresa, e forse non è neanche il più illustre regista, ma è sicuramente il più recente. Lui dice: “La mia Orestea, che dal passato racconta il futuro…”. De Fusco fa propria la tragedia, l’assorbe, la definisce sua ma nel contempo la dona a tutti. Napoli, Catania, Roma, Genova e Firenze hanno incontrato la sua messa in scena, hanno scoperto la storia della terribile maledizione lanciata da Tieste sulla stirpe degli Atridi di cui Agamennone è primogenito. Mette sulla scena un’Orestea quasi futurista, mischiando il falso della rappresentazione al falso del video, sovrapponendo l’uno all’altro, rendendoli veri entrambi. Pur modernizzando moltissimo la scenografia e l’ambientazione riesce a far rimanere invariata la struttura della tragedia che resta quella sviluppata da Eschilo e tanto elogiata da Aristotele. Rispetta l’intreccio tra prosa e musica, l’alternanza degli stasimi agli episodi, la parodo e l’esodo. Riporta la grandezza dei valori tragici nell’abbondanza di materiali e scenografia, tutto diventa grande, illimitato, la scena è piena, ogni cosa ha il suo significato e tutto è impregnato di riferimenti.  Gli espedienti da lui utilizzati per rendere l’Orestea qualcosa di attuale in modo palpabile sono diversi. La musica è elettronica, la danza contemporanea, le luci irreali, c’è un forte inserimento del moderno nell’antico, forse per rendere il tutto più familiare agli occhi degli spettatori o forse solamente per una scelta stilistica di originalità. D’altronde come lo stesso regista dice: “Ogni messa in scena non può non portare i segni del suo tempo”. Un altro aspetto immortale e immanente della tragedia, è il messaggio del πάθει μάθος, che la drammaturgia della recente opera ha largamente espresso, sia in modo indiretto che diretto, citandolo almeno tre volte attraverso le battute dei personaggi ed inoltre spiegando il suo significato. Questo concetto non sconosciuto a noi moderni, perché proprio del nostro pensiero, sta a significare: la saggezza che si ottiene a prezzo di una grande sofferenza, la “conoscenza attraverso il dolore”.

Lo spettacolo di Luca de Fusco è tecnologico e ha la sua forza nella scenografia. La grande
porta metallica sul fondo si apre e si chiude, come se scandisse il tempo, e diventerà anche schermo per le proiezioni in diretta. Il palco diventa studio televisivo e cinema, ma non solo, continua ad essere, nonostante tutto, il luogo della rappresentazione con la propria scenografia: il palcoscenico è in pendenza ricoperto inizialmente da sabbia. La sabbia nasconde dei “tombini”, da questi escono membri del coro, essa nasconde oggetti anche molto grandi, come una testa di cavallo che allude alla presa di Troia e al ritorno di Agamennone. Per l’eroe greco la sabbia viene spazzata dal centro scoprendo un grande schermo che, per l’occasione, si illumina di un forte rosso porpora. Lo stesso fondale nelle scene successive sarà rosso sangue, nero, blu, bianco.

Questo spettacolo è sicuramente stato un lavoro imponente, ma soprattutto ambizioso. Le continue “magie” sulla scena (tra lo schermo e il palcoscenico) stupiscono e fanno concentrare sul particolare, distogliendo l’attenzione dallo sguardo complessivo. Ricordando lo spettacolo riemergono frammenti, immagini. Sono convinta che la scelta registica di Luca de Fusco sia sicuramente professionale ed elaborata, considerando l’attenzione verso il testo e verso la struttura che sono rimasti quasi inviolati. La trattazione delle tematiche dell’Orestea, anche fortemente politiche, meritava però, secondo me, una più seria attualizzazione. L’introduzione di molti elementi moderni, come il video, mi è sembrata una forzatura, un’introduzione accessoria che non contribuisce all’avvicinamento verso i valori più significativi espressi nella tragedia di Eschilo.

“Pilade! Cosa faccio? Posso uccidere mia madre?”

“E come finiranno le parole del tuo Dio, le promesse sacre, la fede dei giuramenti? È meglio avere nemici gli uomini che gli dei.”

SOFIA NAGLIERI

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