Il cinema di Ozu Yasujirō: fra coscienza sociale e umanesimo

Viaggio a Tokyo

Per opera della indipendente Tucker Film, in collaborazione con il Far East Film Festival di Udine, sono usciti in sala sei capolavori del maestro Ozu Yasujirō, restaurati digitalmente dalla major nipponica Shōchiku. Un’occasione più che rara per ri-scoprire lo sguardo del regista che ha cinematograficamente dato volto al Giappone.

Fu solo nel 1951, con il Leone d’oro a Rashomon di Kurosawa Akira alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che la critica e il pubblico occidentali scoprirono il cinema nipponico. Si sviluppò subito un tale interesse per suddetta cinematografia da diffondersi, per parecchi anni, una vera e propria “moda” per i film e registi giapponesi. Tuttavia, solamente con l’ampia retrospettiva organizzata a Parigi nel 1963 presso la Cinémathèque Française si consentì l’accesso ad un amplissimo corpus di produzioni, alcune delle quali realizzate più di sessant’anni prima: d’altra parte, il cinema era nato in Giappone nel 1898 1.

Piuttosto tardiva fu anche la conoscenza che il pubblico e la critica stranieri ebbero dell’opera di Ozu Yasujirō, colui che è oggi considerato, dai giapponesi e non,“il più giapponese dei registi giapponesi”. Un regista che ha goduto di altissima considerazione in patria, non solo autoriale ma anche commerciale, e per ciò ritenuto non in grado di essere compreso dal pubblico estero. Forse perché Ozu è stato l’autore che meglio di ogni altro ha saputo restituire su pellicola l’essenza della vita giapponese, la sua costruzione sociale e i sentimenti dei suoi soggetti. Per tale motivo non può essere considerato un regista antiquato, bensì un interprete del proprio tempo e delle sue trasformazioni: difatti «può essere ritenuto il portavoce della vecchia come della nuova generazione» 2. Dalle sue opere riecheggia ancora oggi, in modo più vivido che mai, la tradizione culturale giapponese, in tutte le sue realtà e verità.

Evoluzione di una poetica

Dopo l’approdo alla Shōchiku (casa di produzione fondata nel 1920) nell’estate del 1923, in veste di assistente operatore, la prima fase produttiva del regista annovera soprattutto film comici (di chiara matrice americana), i cui generi privilegiati furono il gakuseimono (film di studenti) e i sararīmen eiga (film sugli impiegati). Il genere che ha però consacrato Ozu alla storia è stato loshōshimingeki, ossia i “drammi della gente comune”. Queste opere si concentravano sul mondo della piccola borghesia, sulla vita familiare e sulle piccole cose di tutti i giorni. Facevano quindi degli affetti familiari il centro della rappresentazione, non senza però dimenticare le contraddizioni sociali.

Sono nato, ma...

In tal senso, Il coro di Tokyo (1931) è indicativo: in primo luogo, fonde all’interno di un unico film i generi menzionati; in secondo luogo vi vengono convogliate le problematiche della precarietà e dell’incertezza economiche legate alla modernizzazione. I personaggi diventano l’archetipo della condizione vissuta dalla popolazione piccolo-borghese della capitale ed è evidente l’attenzione per il riflesso che le vicende sociali hanno sui legami familiari (il licenziamento di Okajima dall’ufficio gli impedisce di comprare la bicicletta promessa al figlio e da qui ha inizio un aspro litigio fra i due). E non è nemmeno esente da critiche la realtà del tempo: la didascalia che introduce lo spazio della capitale recita «Tokyo: città di disoccupazione».

La famiglia – e i rapporti ad essa interni – comincia a divenire sempre più il luogo privilegiato da Ozu, dove egli scorge le migliori possibilità di esprimere la propria personale poetica. Dopo Sono nato, ma… (1932), realizza nel 1936 Il figlio unico, il primo film sonoro del regista. Una vedova sacrifica tutto pur di consentire al figlio di continuare gli studi nella capitale, e preso atto delle sue condizioni di vita tenta di infondergli fiducia nelle sue possibilità. Assume centralità nella logica narrativa la figura del sacrificio (poi ricorrente), reso inutile da una realtà sociale impietosa, e pure qui, il tutto si assolutizza: «il fallimento di Ryōsuke è il segno di una piùgenerale crisi sociale» 3 che si ripercuote anche sulla famiglia (ie, costruzione centrale per la cultura giapponese) destinandola alla frammentazione.

A partire dagli anni ’50, Ozu incominciò a collaborare con lo sceneggiatore Noda Kōgo e con lui firmerà tutte le sceneggiature dei suoi film successivi. Questo inevitabilmente determinò la riproposizione di storie, perlopiù variazioni degli stessi temi (il fallimento degli ideali tradizionali, quale l’unità familiare; il contrasto fra tradizione e modernità), ma soprattutto favorì la creazione di «un lessico cinematografico eminentemente austero, adattissimo a ciò che egli vuole raccontare» 4.

Tarda Primavera

I rapporti familiari e la loro crisi

Con il 1949 Ozu inaugurò il periodo della propria maturità all’insegna dell’universo familiare: precisamente, i problemi da lui narrati cominciano ad attenere sempre più al quadro familiare. I rapporti fra padre e figlia (Tarda Primavera; Crepuscolo di Tokyo; Fiori d’equinozio), fra madre e figlia (Tardo Autunno), fra genitori e figli (Viaggio a Tokyo; Buon Giorno), fra coniugi (Il sapore del riso al tè verde; Inizio di primavera) consentono al regista (da «grande osservatore», come lo definisce Rossi5) di costruire un quadro esauriente delle contraddizioni sociali, economiche e politiche che serpeggiano nella società, ma innanzitutto di far subentrare, al sorriso ironico degli anni ’30, un amaro pessimismo per la perdita del passato e l’impermanenza del presente.

Prendasi Tarda Primavera (1949). Un padre vedovo, per convincere la figlia, reticente a prendere marito per non abbandonare il genitore, finge di volersi risposare ma alla fine non lo fa. Il film coniuga tradizione e spirito democratico del Giappone sotto l’occupazione americana: Somiya, che dovrebbe incarnare la figura del padre autoritario quindi tradizionale, invece rappresenta la modernità. Pronto a sacrificare la sua felicità per garantire quella della figlia, tenta in ogni modo di convincerla a sposarsi ma si rivela eccessivamente tollerante e comprensivo, al punto da non “scalfire” la decisione della figlia di rimanere con lui. Piuttosto è lei che impersona la tradizione: non solo riproponendo con ostinazione il ruolo della figlia che accudisce il padre, ma cercando di conservare quell’unità familiare che altrimenti verrebbe meno.L’immagine del patriarca esce perciò in qualche modo ridimensionata,mancante di quella autorità che la tradizione giapponese le assegna: dunque se la figura maschile è impotente, quella femminile assume autorevolezza e spessore caratteriale. In Fiori d’equinozio (1958) Hirayama si dimostra contrario al matrimonio della figlia con un giovane scelto da lei senza consultare la famiglia e dichiara che non parteciperà alle nozze, salvo cambiare idea alla fine; in Il gusto del sakè (1962) Hirayama, per i sensi di colpa di aver approfittato della figlia impedendole di sposarsi, le trova un marito e ritorna, alla fine, a casa ubriaco e solo. Sopra ogni cosa, però, Ozu assegna alla donna un ruolo di aggregazione familiare: così in Crepuscolo di Tokyo (1957) Takako, che aveva lasciato il marito aggressivo, decide infine di tornare da lui affinché la figlia cresca con l’amore di entrambi i genitori.

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La perduta autorità delle figure maschili è comunque il segno di una diffusa crisi della famiglia in quanto nucleo sociale. Le famiglie di Ozu sono sempre destinate a frammentarsi, disperdersi per l’ineluttabile azione di forze esterne: la necessità di un ruolo sociale in Tarda Primavera e Tardo Autunno (1960);l’avanzata di una modernità disgregante in Il figlio unico e Viaggio a Tokyo. Ma non solo. L’incomunicabilità di generazioni figlie di tempi e speranze (oltre che ideali) diversi contribuisce alla disunione (Fiori d’equinozio e Buon Giorno). Proprio Viaggio a Tokyo offre un esempio esauriente: dopo aver portato fuori il nipotino, la nonna Tomi tenta di comunicare inutilmente con il piccolo Isamu che non risponde dimostrandole indifferenza. Il non detto del bambino significa più delle parole e dei gesti dei figli dell’anziana coppia che, pur di non doversi occupare dei genitori, sono pronti a spedirli in una pensione sul mare. Differentemente, la nuora Noriko è molto più legata ai suoceri, tiene loro compagnia e allora «la funzione della donna è quella di evidenziare – per contrasto – il tema della dissoluzione della famiglia e quello a esso strettamente connesso della delusione delle aspettative» 6.

Il fluire dei sentimenti

La cognizione di come sia veramente la realtà (in tal senso, le disattese aspettative) prelude al mono no aware, ossia la consapevolezza del carattere precario della vita e l’accettazione di come essa è: dice infatti Noriko a Kyōko “Potrei diventare così [riferendosi ai cognati, ndr] anch’io, anche senza volerlo” e la seconda “La vita è proprio deludente”, “Sì, è vero”; il regista giapponese si affida ad un lucido “pessimismo della ragione” nel contemplare il fluire delle cose. La presa di coscienza che, se tutto è effimero, l’uomo deve armonizzarsi a tale cambiamento è resa soprattutto mediante la figura della «rivelazione», la quale può definirsi «un cammino verso una verità sino a quel momento sconosciuta, ai personaggi come allo spettatore. La scoperta di questa verità modifica i rapporti fra gli individui generando, dapprima, un momento di profonda crisi che approda però, poi, ad una più autentica comprensione e ad una maggiore armonia fra le parti»7. Proprio in tal modo, i coniugi de Il sapore del riso al tè verde (1952), inizialmente distanti e freddi in quanto coscienti delle proprie insoddisfazioni, solo dopo essersi separati, ritrovano la loro armonia attraverso la comprensione delle rispettive qualità (“La vita di coppia ha il sapore del riso al tè verde”); analoga la riconciliazione fra marito e moglie in Inizio di primavera (1956) pel tramite di una comune esperienza di vita.

Fiori d'equinozio

Il movimento quindi posto in essere da Ozu è di tipo induttivo: partendo da situazioni contingenti e particolari, tende a ridurle ai loro principi ultimi. Così le dinamiche familiari e lavorative non divengono altro che un’occasione per descrivere i sentimenti, vero oggetto dell’analisi del regista; come già puntualizzato, non è importante l’evento in sé, ma il riflesso che esso ha sul personaggio. E Ozu è sicuramente un regista che punta più sul personaggio che sull’intreccio, facendo del tempo un tempo psicologico (non narrativo) e costruendo ciascun carattere progressivamente mediante l’accumulazione di particolari. Raramente i personaggi sono definiti per mezzo della presentazione dei loro passato o psicologia, piuttosto tramite i dialoghi. Centrali in questa struttura narrativa divengono poi le ellissi, segno dell’attenzione per il soggetto e di una visione distaccata della vita: pertanto l’evento intorno a cui ruota la vicenda (come il matrimonio in Tarda Primavera) spesso non viene rappresentato, ma sottinteso. La narrazione ozuiana appunto «ama giocare sull’adiacenza, l’obliquità, gli sguardi altrove piuttosto che sulla rappresentazione diretta delle cose» 8. Si è perciò parlato di narrazione onnisciente, in quanto mancante di un “centro soggettivo”; sono molteplici i casi in cui una nuova trama si giustappone alla principale oppure un personaggio, secondario in una scena, diviene il principale in un’altra. Non può che essere la conferma della poetica di un regista che cerca di cogliere l’universale, non limitandosi al particolare. Lo sembrano, fra l’altro, comunicare i volti dei suoi attori,privati di ogni espressione fisionomica e vuoti d’espressione: ancora il segno di una assolutizzazione della condizione umana. Come afferma Wim Wenders in Tokyo-ga, «mai prima di allora e neanche dopo, il cinema è stato così vicino alla sua essenza e alla sua funzione: offrire un’immagine dell’uomo nel nostro secolo, un’immagine utile, vera e valida, in cui ci si può riconoscere e da cui si può apprendere qualcosa di sé».

Lo stile fra armonia e geometria

Tokyo-ga

Tutta la costruzione filmica in Ozu risulta subordinata ad un predeterminato apparato estetico che ha il suo centro nella costruzione dell’inquadratura. A cominciare dalla sua altezza: la macchina da presa di Ozu è famosa per la sua posizione bassa.All’altezza di una persona seduta sul tatami, come alcuni hanno sostenuto,oppure rappresentante lo sguardo di un bambino o di un cane. Tuttavia, come sottolinea Bordwell 9, la singolare disposizione della mdp non è assoluta, bensì sempre rispondente all’altezza del soggetto da filmare, quindi variabile. Soprattutto se si considera che era la più idonea per cogliere lo stile di vita giapponese e per non lasciare elementi superflui nell’inquadratura, captandovisi così solo quelli indispensabili e garantendo una maggiore densità dell’immagine (Ozu era solito mettere piccoli oggetti ai lati del quadro filmico perché riteneva inconcepibili gli spazi vuoti). Difatti la maggior parte dei frames è occupata dalle parti inferiori dei luoghi rappresentati, a cui si aggiungono i pannelli del soffitto. Il tutto crea un gioco di linee (e quelle di fuga sono particolarmente accentuate) amplificato dagli shoji(scorrevoli composti da una struttura quadrettata in legno su cui è poggiata della carta di riso) e dai fusuma (porte scorrevoli) lasciati aperti, che ripartono lo spazio in quadri. Per non dimenticare un altro espediente per accentuare l’equilibrio della composizione: i sōjikei, cioè quando i personaggi, in una scena, si muovono all’unisono assumendo posizioni simili; emblematica la scena dei genitori nel giardino del museo in Inizio d’estate (1951).

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Per quanto riguarda il montaggio, il cinema ozuiano si contraddistingue per due grandi innovazioni: il trattamento dello spazio a 360 gradi e il procedimento per “dominanti” e “armonici”. Relativamente al primo, Ozu era solito concepire lo spazio narrativo della scena come un campo di 360 gradi, una serie di cerchi. «Nel caso più semplice, un personaggio occupa il posto centrale e la macchina da presa lo filma da alcuni punti della circonferenza. […] Ozu la pone solo in certi punti della circonferenza. Una volta che avrà definito l’orientazione della macchina, diciamo un campo lungo, filmerà la successiva inquadratura dalla stessa angolazione o da un’altra, pari ad un multiplo di 45 gradi rispetto alla precedente» 10 (figg. 1-2; 5-6). In ogni caso, Ozu insisterà sempre su stacchi a 90 e 180 gradi (figg. 3-4). Interessanti sono poi le soluzioni delle riprese frontali dei personaggi che sembrano rivolgersi direttamente allo spettatore e del permanere della mdp sugli spazi anche dopo che le figure ne sono uscite: dimostrazioni che quello di Ozu Yasujirō è un cinema a misura d’uomo. Circa la seconda tecnica, la sua finalità è quella di garantire contiguità fra più inquadrature, rendendo un oggetto, “dominante” in un’inquadratura, subordinato ad un altro nella successiva ovveromantenendone la preminenza, variando però gli elementi “accessori”: si consideril’inizio di Erbe fluttuanti (1961).

Ozu

Con l’abbandono, fra il 1929 e il 1930, delle dissolvenze (giacché non considerate un elemento della grammatica filmica) Ozu ricorse alle transizioni, che potevano essere in chiusura, apertura o anche incrociate. Alcuni (come Donald Richie) ne hanno interpretato il significato in relazione alla contemplazione del mono no aware da parte dei personaggi e conseguentemente rifletterebbero il loro stato mentale; altri (come Noël Burch) ritengono che le transizioni non contribuiscano mai alla progressione narrativa (quindi sospesa) e debbano essere piuttosto intese per la loro componente pittorica, in quanto rappresentazione di un altro piano della realtà. Tanto da essere considerate degli “sguardi altrove”, che invitano lo spettatore a cogliere altri aspetti oltre il profilmico.

Ozu Yasujiro

Concludendo con la sintesi autorevole di Rondolino, «[s]i potrebbe definire il suo un cinema fenomenologico, se non fosse per il sottile scarto semantico che è possibile rintracciarvi fra la realtà rappresentata, pochissimo affabulata, e la forma espressiva attraverso la quale si manifesta sullo schermo: uno scarto che costituiscel’essenza dello stile di Ozu, il suo fascino discreto, il discorso personale che egli fa su uomini e cose» 11.

di Luca Zammito

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista online Il Cigno Nero dall’ex direttore de La Lucciola Luca Zammito, in seguito alla recente proiezione di alcuni film del famoso regista giapponese.


Note:

1 L’arrivo del Cinématographe Lumière in Giappone risale al 1897 per opera di Inabata Katsutarō, che ne portò con sé un esemplare dalla Francia, oltre ad una ampia raccolta di materiali della compagnia francese. Le proiezioni favorirono il successo del fenomeno fra il pubblico e ciò spinse a far importare, nello stesso anno, la prima macchina da presa. Tuttavia, i primi film sono datati solo al 1899: perlopiù riprese della vita della capitale, a cui seguirono alcune danze di geisha. Da queste premesse si avviò un’ampia produzione di film a soggetto, prevalentemente riadattamenti di drammi kabuki, che sfocerà poi nella predilezione dei due generi deljidaigeki (drammi in costume) e del gendaigeki (melodrammi ad ambiente contemporaneo). Cfr. Novielli, Maria Roberta, Storia del cinema giapponese, Marsilio Editori s.p.a., Venezia 2001, pp. 19-29

2 Anderson, Joseph L. e Richie, Donald, Il cinema giapponese, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1961, p. 366

3 Tomasi, Dario, Yasujirō Ozu, Editrice Il Castoro S.r.l., Milano 1996, p. 67

4 Anderson, Richie, Il cinema giapponese, cit., p. 344

5 Rossi, Umberto, Yasujiro Ozu: un grande osservatore in CinemaSessanta n°3 maggio-giugno 1982, pp. 32-33

6 Tomasi, Dario, Ozu Yasujirō: Viaggio a Tokyo, Lindau s.r.l., Torino 2002, p. 95

7 Tomasi, Dario, Il cinema d’autore in Giappone in Bertetto, Paolo (a cura di),Introduzione alla storia del cinema, De Agostini Scuola SpA, Novara 2008, p. 207

8 Tomasi, Dario, Yasujirō Ozu, cit., p. 128

9 Cfr. Bordwell, David, Ozu and the poetics of cinema, BFI, London – Princeton University Press, Princeton 1988, p. 77

10 Bordwell, David, Ozu and the poetics of cinema, cit., p. 92

11 Rondolino, Gianni, Storia del cinema_2, UTET SpA, Torino 2006, p. 69

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