Traccia 1: Riguardo alla violenza

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Un’opinione diffusa associa la violenza all’ignoranza, alla mancanza di mezzi “civili” che possano sfogare e comunicare uno stato di disagio. Ne “La manomissione delle parole”, Gianrico Carofiglio sostiene che la violenza sia la reazione ad un’insufficienza verbale. La lingua è potere, in quanto facoltà di nominare le cose e di esercitare su di esse controllo e ordine. Un lessico limitato riduce la possibilità di espressione e di analisi, quindi la realtà prende il sopravvento sull’uomo, che prova paura, inadeguatezza, e odio e commette atti di forza.

Il limite di questa teoria è nel ritenere il linguaggio verbale l’unica forma esaustiva di comunicazione. L’espressione umana conosce veicoli alternativi, come l’arte figurativa, la musica, il teatro, i gesti, attraverso cui rapportarsi all’esperienza della realtà, senza incorrere nella frustrazione e quindi nella violenza.  Le   comunità   primitive,   che  hanno lingue elementari, comunicano diversamente le loro esperienze, sia tangibili che emozionali, e non sono più violente delle nostre comunità avanzate.

 

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Un fatto interessante è che la violenza nasce proprio dove le nozioni di libertà e di rispetto sono più chiare e sensibili, e assume la forma di un anti-valore, diviene precisa e consapevole contraddizione. Nella violenza vi è un assenso razionale, una scelta consapevole tra le diverse possibilità di condotta. Le ragioni di tale scelta possono essere molte. Ogni atto di violenza, da quello necessario, chiamato dalle circostanze, a quello irrazionale e privo di giustificazione logica, è un atto di sfida, un’imposizione del proprio ego, un movimento di irruzione che supera il confine tracciato dalle convenzioni morali e dalle leggi.

 

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Nel 1931, poiché già si prefiguravano le basi del nuovo conflitto mondiale, Freud fu chiamato dalla Società delle Nazioni ad indicare una soluzione per scongiurare la guerra. Ad un appello tanto fiducioso egli rispose con obiettiva rassegnazione che la guerra è un fenomeno inevitabile, perché soddisfa un “cupio dissolvi”, un bisogno primordiale e naturale dell’essere umano.

 

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Un’espressione chiara della violenza emerge dalla forma simbolica del racconto ne “I distruttori” dello scrittore inglese Graham Greene. Un gruppo di ragazzini, animati dalla trasgressione, penetrano nella villa di un anziano signore e radono al suolo tutto ciò che contiene. La loro distruzione accurata e dettagliata assume la serietà di una creazione. I ragazzi trovano anche del denaro, ma lo bruciano. Ogni cosa è ridotta a materia insensata, priva di valore, inutile nell’economia di un universo che tende al nulla.

La ribellione che Greene mostra è esistenziale, nasce da una sofferenza che coincide con la vita e vuole attentare tutto ciò che è al mondo. La violenza è l’unica soluzione che smaschera l’assurdo della condizione umana e tutte le illusioni che l’uomo sostiene pur di sentirsi parte di un sistema coerente e ragionevole. La verità è che la violenza non ha senso, non è condotta per odio o per amore o per giustizia e nemmeno per furto. Non esistono sentimenti ma solo “cose”.

E se ogni cosa finirà, se la distruzione incombe sulla realtà, così come la guerra, che fa da sfondo al racconto, incombe dal cielo sotto forma di bombe, perché non anticipare questa fine? I ragazzi non rispondono a leggi né regole, sanno che non esistono. L’uomo crea i suoi confini per intimo bisogno. La loro violenza è sperimentale, è grido e intuizione. E’ una sfida che pretende di essere capita.

MARIA VITTORI

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