Apologia dello stereotipo

Stereotipo. Ancora una volta: stereotipo. Che riecheggi nella testa, che si dica ad alta voce: stereotipo. Cosa viene in mente? Su questo ognuno può avere un pensiero differente, ma a dispetto delle diverse opinioni oggi si vuol dimostrare come forse occorra fare delle distinzioni a riguardo e perché lo stereotipo non sia poi maligno e, anzi, in alcuni casi utile, se non necessario. Ci si rende conto di dover procedere con guanti, pinze, maschera, tuta hazmat e piedi doppiamente rinforzati di piombo quando si parla di tali questioni (anche perché qui le code di paglia, e non solo, prendono fuoco che è una meraviglia) ma andiamo avanti con la prima cosa che il liceo classico insegna a guardare: l’etimologia. “Sτερεός” significa “duro, rigido”, mentre “τύπος” sta per “forma, figura”.

Da questo semplice e facile accostamento deriva il suo significato: esso è uno schema, un pattern fisso di comportamenti, accidenti, caratteristiche che tendono ad essere individuate in più situazioni e di cui si va a creare un modello convenzionale fisso, riutilizzato poi senza modificarlo sulla base del contesto o della situazione particolare. Superato questo scoglio, ecco che si può andare ad analizzare più a fondo la questione: lo stereotipo è, in pratica, un’opinione precostruita, senza confutazione empirica, riguardo qualcosa o qualcuno, come molti dizionari suggeriscono, e come anche suggerisce il sinonimo “pregiudizio”.

Tuttavia, è proprio questo parallelismo che si vuol spezzare e fare una sostanziale distinzione fra i due concetti. Lo stereotipo è semplicemente il luogo comune, privo di (quasi) ogni malignità, mentre il pregiudizio è servirsi del primo senza rendersi conto della sua inaffidabilità, ottenendo come risultato di offuscarsi la mente con idee sbagliate e permettendo a qualcosa di assolutamente “non scientifico” di deviare i propri ragionamenti, comportamenti eImmagine reazioni.

Il pregiudizio è qualcosa che danneggia tutti: colui che ne è vittima perché è discriminato, e colui che vi ricorre perché persevera nell’ignoranza. E la storia è piena di esempi di pregiudizi, dettati da qualsivoglia ragioni politiche, religiose, morali o semplicemente da ignoranza, appunto. Di conseguenza, ebrei e zingari sono “sporchi” e via con altri tipi di razzismo o xenofobia sulle più svariate categorie di persone: dai neri, di cui è superfluo ricordare gli appellativi, agli omosessuali, praticamente unici portatori dell’HIV quando il virus fece la sua prima comparsa sulla scena mondiale. È proprio  questo l’uso pericoloso dello stereotipo: quello che impedisce il giudizio lucido e che quindi porta solo a conclusioni nulle o negative.

Tuttavia, c’è un “ma”. Un “ma” enorme e sproporzionato che vuole introdurre il secondo ragionamento, opposto ma complementare al primo, decisamente controverso ma condivisibile, vero fulcro (come già accennato) dell’argomento: lo stereotipo può essere usato a fin di bene? Certamente sì. Ecco un esempio: mai capitato di ripetere una parola tante volte fino a farle perdere il suo significato? Oppure: mai ripetuto un proverbio per tutta la vita fino ad essersi resi conto un giorno che il significato letterale di quell’espressione è tutt’altro? Allo stesso modo oramai oggi siamo talmente saturi di stereotipi che possiamo prenderli e usarli a nostro vantaggio come si fa nel mondo della comicità, sia quella ufficiale che quella quotidiana.

Questi, una volta riconosciuti come falsi, diventano semplicemente delle maschere da usare a proprio piacimento per dissacrare e ridere (ma non per deridere). Abbiamo bisogno di queste entità a metà fra l’assurdo e il vero per ridicolizzare alcune problematiche e riderci su, che poi sarebbe il modo migliore e più immediato per venire a capo di certe situazioni. Non che tutto debba essere preso alla leggera, e certe questioni non si risolvono con una serata in osteria, ma è necessario in ogni caso un equilibrio fra serietà e scherzo.

Il bello dello stereotipo è che tutti ne hanno uno, ma allo stesso tempo nessuno lo ha. Si prenda come esempio quello classico che si ha degli italiani: pizza, spaghetti, mandolino, mafia e gesti sguaiati con le mani. Ma quando mai è vero? Eppure la cosa persiste nel tempo e fra la gente ed è un ottimo modo per scherzare su sé stessi, fare dell’innocuo umorismo, anche se parecchio irriverente, a volte. Sono dei maestri in questo Matt Groening o Seth MacFarlane, autori rispettivamente (superfluo ricordarlo), fra le tante cose, dei Simpson e dei Griffin, ma non sono i soli.

Si va infatti dagli stand-up comedian ai registi, dai vignettisti ai cantanti demenziali, fino ad arrivare alla persona comune che magari può servirsi di uno stereotipo nel giusto contesto di una serata in pizzeria, o magari di una noiosa giornata di lavoro. Fintanto che ne si fa un uso consapevole, esso è benvenuto, perciò che stiano alla larga moralisti e bacchettoni: sappiamo tutti che non è vero, si sta solo provando a ridere un po’…

Infine si potrebbe chiudere commentando una citazione del buon vecchio George Carlin: “I believe you can joke about anything: it all depends on how you construct the joke, what the exaggeration is… because every joke needs Immagineone exaggeration, one thing to be way out of proportion. E come non ritrovare in queste parole tutto ciò che si è detto finora: l’uso dello stereotipo come caricatura è sano e necessario per far ridere, in buona parte dei casi.

Quindi,  che  gli  americani  siano  tutti  obesi  e fanatici   delle  armi,  che  gli  eschimesi    stiano sempre a picchiare le foche con le mazze chiodate, che gli asiatici mangino i cani e così via! Che gusto ci sarebbe senza un po’ di scorrettezza – seppur moderata – ogni tanto? Che si prendano in giro le proprie diversità per poi scoprire di essere, alla fine, tutti umani e tutti alla pari.

 FRANCESCO PASSARETTI

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