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Christine

Cominciavano appena a diradarsi le tenebre di una piovosa notte d’estate, Christine era già sveglia nel fruscio delle coperte. Un ospite tossiva nel sonno al piano di sopra. Christine allungò le gambe intorpidite; un fremito la scosse al contatto della propria pelle con la protesi fredda di Alois, addormentato accanto a lei. Il ricordo dell’incidente feriva ancora vivido i pensieri della donna, la privava della forza vitale rendendola vulnerabile e sola dinanzi all’immagine del marito sconvolto dal dolore. In quei momenti Alois non le appariva più un toro potente, i cui nervi tesi sotto la superficie della pelle screziano il vello nero-pece di lucidi riflessi, ma un cerbiatto dalla zampa sanguinante nello strazio della tagliola. Christine si riversò dunque su di un fianco e rimase  per qualche secondo ad osservare il marito nella fredda penombra del mattino. Tratteneva il respiro per non svegliare il suo protettore, cullandone l’immagine con sguardo filiale. E stava lì, immobile, ad adorare il custode della propria infanzia, padre che le strinse la mano adolescente, amante che ne carezzò le membra ancora acerbe. Lo sguardo di lei gli accarezzava le spalle forti di lavoro, nutrendo il cuore di quella vista e dell’uomo stesso, dei suoi occhi neri, delle labbra di carne ed il sorriso di cielo che, pudico, un tempo la cercò in segreto. Allora vivevano una poesia, il loro amore era una poesia che non avevano mai letto e che non sarebbero stati in grado di capire. Alois col cuore impastato di terra e fieno viveva quei luoghi di boschi e stelle, tuttavia, senza guardarli: tornava a casa la sera con le mani sporche e stanche, mani ruvide e grandi cui mancò la forza di dare una carezza. Stillò mai pensieri d’amore la sua fronte sudata di fatica?

Christine stropicciò via l’ultimo torpore del sonno dalle borse degli occhi e scivolò fuori dal piumino che la avvolgeva. Si sfilò in fretta la leggera camicia da notte e con essa i resti di una femminilità che nascose in spessi pantaloni da lavoro e in un maglione di lana grezza. Nell’indossare quei panni duri si massaggiò il grembo sfiorito con le dita, coppa arida di veleno, straziata da tre parti di morte, che negarono alla donna la gioia della maternità.

Si trascinò nel cucinino umilmente arredato. Sul fornello aveva già posto dalla sera prima un pentolino di metallo abbozzato in più punti, in corrispondenza dei quali mancava il rivestimento in ceramica smaltata; anche la decorazione della stella alpina dipinta era ormai quasi del tutto scrostata. Christine vi versò dunque a bollire del latte, avendo avuto dapprima l’accortezza di metter da parte la panna addensatasi in uno strato giallo sulla superficie durante la notte. Sbattendo con le fruste quel grasso prezioso ottenne una sorta di burro annacquato che spalmò avidamente su una fetta di pane nero ed infine spolverò di zucchero.  Ingurgitò il suo latte bollente ed il pane, nero come la terra che le macchiava le mani, indelebile ormai.  La donna calzò gli stivali ed attraversò lo stretto corridoio fino all’ingresso. Si fermò di fronte allo specchio: poteva catturare l’immagine del proprio volto nelle tenebre, disegnandone i lineamenti con lo sguardo. Le rughe le deformavano i contorni del collo e delle labbra, rivelando tuttavia timidi tratti infantili. Gli occhi stanchi e scialbi fissavano il proprio riflesso, incastonati nelle orbite come opali in anfratti bui. Christine abbandonò d’un tratto i propri pensieri, si ravviò i capelli grigi e stopposi sulle tempie, coprì il capo con un ampio fazzoletto che annodò sulla nuca. Uscì di casa. La nebbia gelida del mattino impastata con l’odore acre del letame le bruciava in gola. Si voltò indietro: il maso ed i prati circostanti erano completamente avvolti in una nuvola che li isolava in un umido bozzolo di ovatta. I primi bagliori dell’alba in fondo alla valle non avevano sufficiente intensità da fendere quella bianca cortina.

Il tempo sembrava essersi congelato negli ultimi quarant’anni trascorsi o, almeno, era passato per tutti, tranne che per Christine ed Alois, eredi della solitudine, aggiogati nella propria isola tra le montagne,  presso la quale la felicità sembrava non avere riparo. Soli abitanti di quelle distese rocciose e aspre ne erano i custodi, sino a diventare impressione sentimentale del paesaggio, del tutto immedesimati nel circostante, parte integrante di esso. La natura si stringeva così attorno a loro, talvolta celando l’umano per rivelarne poi la presenza attraverso la voce; una voce in grado di riassumere, superandole, tutte le capacità sensorie, rendendo Christine e suo marito esperienza percepibile solo attraverso il paesaggio, riducendoli a suoni. Lo stesso naturale isolamento decolonizzava allora la voce dal linguaggio tanto che pur chiudendo gli occhi Christine era in grado di vedere nitidamente di fronte a se i suoi monti e le sue valli, leggendoli nell’ululare del vento e nel ronzare incerto delle mosche, nel sordo scampanio delle vacche, nel latrato allarmato di un cane. Nel regno sospeso tra le nuvole, la scrittura perdeva perciò ogni significato, in quel luogo immutabile la voce conosceva già l’eternità senza, però, essere stata resa silenzio. Quella stessa scrittura che Christine aveva appreso con tanta incertezza da ragazzina, ma che l’aveva esentata dalla mungitura mattutina per evitare che i vestiti rimanessero pregni per tutta la giornata dell’odore delle bestie. In un’eternità sempre uguale a se stessa ogni gesto cadeva in una dimensione che non conosceva il ritmo della vita quotidiana; solo una vaga eco ne perveniva, dipinta nei sorrisi estivi di turisti occasionali. Ed era quasi un pungente disprezzo a scorrere sotto la pelle di Christine nel vedere famiglie, all’apparenza allegre, trastullarsi in amene attività da ‘agriturismo’. Invidia, nel percepire l’erotica sensualità nelle seriche dita delle donne macchiarsi col succo rosso e vivo delle rape; tenerezza, nel desiderio di stringere al petto i bambini che cullavano nelle amabili manine gli ortaggi appena colti e sporchi di terriccio. I padri raccontavano la vacanza con una cinepresa, madri e figli diventavano protagonisti della scena: vi campeggiavano monti e prati ed anche Christine ne era mero attributo scenografico, del tutto assorbita dall’ambiente circostante. Poi il sudore le bruciava negli occhi distogliendola da quella gelosa contemplazione, così la donna tornava china sul campo, a nutrirlo di quello stesso sudore.

In quella fredda mattina estiva, però, la pioggia della notte lo aveva lavato via tutto, il sudore. Giunta al campo dietro la casa, Christine cadde in ginocchio nel fango: una violenta grandinata aveva distrutto tutte le foglie e spaccato la perfetta geometria dei cavolfiori. Gli ortaggi, non più protetti dall’ampia e avvolgente verdura della pianta, erano preda succulenta delle cavolaie che svolazzavano candide e feroci sul terreno devastato. Sei mesi di lavoro spazzati via da un clima infame che per tutta l’estate non aveva dato tregua al nord Italia. “Bombe d’acqua” le chiamavano fantasiosi giornalisti gracchianti nella radiolina sul forno a microonde, e fu come una bomba la disperazione rassegnata che esplose nel petto di Christine a quella vista. Sei mesi a spezzarsi la schiena per ore su quel maledetto campo, per raccoglierne i parti morti. Campo maledetto, monti maledetti! Era quel luogo, sì, doveva essere quel luogo avvelenato, spietato verso la vita, che estirpava crudelmente ogni timido germoglio di fresca giovinezza. Aveva strappato la vita per tre volte dall’utero di Christine, lacerandone l’animo di vecchia, sì, perchè solo una vecchia senza speranze, senza nulla da chiedere alla propria esistenza, poteva sopravvivere al sublime carcere, in una prigionia infida e seducente.

Qualcosa però stava inconsapevolmente maturando in seno alla misera donna. Il dolore aveva attecchito dentro di lei, ma un dolore di contadina, privo del valore lirico che impreziosisce di lacrime le gote delle eroine borghesi: un dolore che non lascia crogiolarsi nella dolce impotenza dei singhiozzi, ma che è scintilla vivificante.

L’aria fredda del mattino mordeva le guance di Christine, irrorate da sottili capillari che si ramificavano sanguigni sugli abbronzati zigomi villani. Un’energia liquida e calda le risalì in gola come un reflusso, un rigetto; d’un tratto, poi, la sentì pulsare alle tempie. Il nodo che le aggiogava l’anima si era sciolto, una corrente la invase, spirando tra le membra: la vita.

Una stazione, l’acuto stridore dei freni sulle rotaie. Christine poteva quasi avvertire l’acciottolio di quelle vite, tutte a sfilare davanti a lei, scontrandosi nella frenetica corsa dell’esistenza, trascinate dal fato sembravano conchiglie sonanti sbattute a riva dalle onde. Le valigie, gli zaini, i tacchi sul marmo del piazzale.

Nella mente della donna solo un frusciante rincorrersi di pensieri, tutti per mano in valli di illusione, unico nutrimento per lo spirito. Il suo cuore giaceva in un groviglio di sogni ma Christine non aveva mai saputo sognare ed ora si trovava smarrita, trascinata da quella folla scalpitante senza alcuna pretesa di sentirsi accolta, quanto di accettare lei stessa quell’invadente umanità da cui non si era mai accorta di essere circondata. A causa del totale isolamento, infatti, il solo sfiorare degli estranei la rendeva preda di crisi ipocondriache e claustrofobiche. Corse a rifugiarsi sulla prima carrozza urtando col bagaglio chiunque incontrasse sul proprio cammino.

Il treno sfrecciava nella pioggia. Le gocce si rincorrevano lungo il vetro del finestrino diluendo  immagini che costituivano il profilo di un paesaggio dalle forme impastate per la velocità. Christine teneva gli occhi fissi sul rapido succedersi delle confuse macchie di colore. Quegli opali iridescenti ora sembravano impregnati del cielo glauco che vi si rifletteva e le fragili speranze della donna erano incorniciate nel sipario del verde spettacolo che assumeva via via un profilo sempre più rarefatto.  Nel suo petto, il crepuscolo di ogni emozione lambiva i dolci declivi biondeggianti in lontananza di frumento flessuoso.

 ANNA PARLANI

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