Aggiornamenti da Rojava

La guerra civile siriana è uno dei conflitti che più ha marcato il decennio che ci lasciamo alle spalle e l’episodio del 2019 dell’invasione turca della regione nord-orientale della Siria, feudo autonomo curdo, ha modificato completamente lo scacchiere medio-orientale. 

immagine bartolini

Il popolo curdo, costituito da circa 40 milioni di persone, non ha mai potuto godere di un territorio nazionale. La comunità autoctona della Mesopotamia, è unita però dalla stessa cultura, etnia e lingua.  Alla fine della Prima Guerra Mondiale, sconfitto l’Impero ottomano, i vincitori europei avevano considerato la possibilità di creare lo Stato del Kurdistan nel trattato di Sevres del 1920. Ma solo tre anni dopo, con il trattato di Losanna, si stabilirono i confini della Turchia ed il Kurdistan non venne mai creato: i curdi rimasero una minoranza, spesso discriminata, presente in Turchia, Siria, Iraq, Iran ed Armenia. Seguirono molteplici tentativi di creare una nazione autonoma, ripetutamente repressi. 

 

Prima dello scorso 6 ottobre la situazione nella regione a nord-est della Siria, sede di modesti giacimenti petroliferi e terreni agricoli, era diversa. Per molti aspetti godeva di una certa stabilità. 

Una milizia composta da curdi, l’ Unità di Protezione Popolare (YPG),  era riuscita insieme agli Stati Uniti a sconfiggere ed incarcerare i jihadisti dello Stato Islamico che avevano acquisito potere in quella zona nel 2014. Due anni dopo i curdi avevano instaurato il feudo autonomo di Rojava, la cui protezione era garantita dalle truppe degli alleati americani.

L’evento scatenante che ha generato nuovi conflitti è avvenuto quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di ritirare il suo esercito. La decisione di abbandonare i curdi ha generato un forte dissenso in America e una sensazione di tradimento tra i curdi, facilitando l’invasione turca del territorio. 

 

Il provvedimento del presidente non è stato ben ricevuto negli Stati Uniti. Nonostante la maggioranza dei membri del Congresso critichi l’eccessivo interventismo americano del passato, a nessuno sembra opportuno lasciare i curdi a sé stessi: la possibile rinascita delle forze jihadiste, ora per lo più incarcerate a nord-est della Siria, fa tremare il Paese. Persino i repubblicani hanno manifestato il loro dissenso. Il presidente continua a sostenere che è stata una decisione “strategically brilliant”,  mentre i funzionari del Dipartimento di Stato hanno condannato formalmente l’invasione della Turchia e si è discussa l’ipotesi dell’ esclusione della Turchia dalla NATO. Esclusione di fatto impossibile, sia per l’importante ruolo dei turchi nella NATO, sia perché non esiste alcun meccanismo all’interno del trattato per la sospensione o l’espulsione di un membro. La Turchia continuerà a fare parte dell’alleanza anche se avrà sempre meno interessi in comune con i propri alleati. 

 

In Turchia, l’etnia curda costituisce circa il 15%/20% della popolazione, ma non gode degli stessi diritti civili dei turchi ed è estremamente temuta dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Sin dal 1920, in risposta ad alcune insurrezioni separatiste, i curdi in Turchia furono costretti a cambiare nome: l’utilizzo della lingua curda fu proibito e persino l’esistenza della minoranza curda in sé fu negata. Nel 1978 nacque il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e, da quando decise pochi anni dopo di iniziare uno scontro armato contro il governo turco per una maggiore autonomia del popolo curdo, più di 40 000 mila persone sono morte. La Turchia considera il PKK un gruppo terrorista e gli attribuisce la completa responsabilità dei morti.

Fin dall’inizio, quindi, la Turchia ha visto di malocchio il generoso supporto dell’alleato statunitense alla YPG, che ha forti legami con il PKK. Nel 2015, nel tentativo di mitigare l’ostilità turca, gli Stati Uniti convinsero la YPG ad unirsi ad altre forze minoritarie arabe creando le Forze Democratiche Siriane (SDF), di cui però la YPG e gli alleati pro-curdi rimasero di fatto la forza principale dell’alleanza. 

 

Dopo anni di minacce nei confronti del feudo autonomo di Rojava, ci sono voluti pochissimi giorni dal ritiro dell’esercito americano affinché la Turchia lo bombardasse: il 9 ottobre, una serie di raid aerei hanno raso al suolo alcune città curde. Nei, giorni successivi, l’offensiva turca si è addentrata sempre di più in Siria, per istaurare una grande “zona sicura”.  Le Forze Democratiche Siriane hanno reagito alleandosi con il dittatore siriano Bashar al-Assad, sostenuto dal presidente russo Vladimir Putin, con la speranza che alla fine del conflitto, in caso di vittoria, possano riprendersi l’autonomia di cui godevano. Dopo diverse settimane di conflitto tra la SDF e la Turchia, grazie a trattative con Stati Uniti e Russia, si è stabilita una tregua.  

La Turchia, in questo modo, con la creazione di quest’area , non solo ha evitato che il modello del feudo autonomo curdo possa essere importato dal PKK in Turchia, ma ha anche posto le premesse per ricollocare tutti i rifugiati siriani della Turchia  in questa “zona sicura”. 

Infatti, dall’ inizio della guerra civile in Siria, più di 6 milioni di abitanti hanno lasciato il Paese e 3.6 milioni di questi sono entrati in Turchia. Da quando l’economia turca è in crisi, l’opinione popolare si è mostrata ostile nei confronti dei rifugiati e la “zona sicura” permette ad Erdogan di riconquistare un po’ di popolarità persa. 

La “zona sicura” è però, tutt’altro che sicura.  La Turchia, che nella conquista della regione ha utilizzato combattenti arabi, potrebbe essere responsabile di diversi crimini di guerra, tra cui l’utilizzo di armi chimiche sui civili. Leah Whitson, la direttrice di Human Rights Watch (HRW) del Medio Oriente afferma che: “Contrariamente a quanto dicono i turchi sull’istaurazione di una “zona sicura”, i gruppi che la Turchia sta utilizzando per amministrare quest’area stanno compiendo loro stessi degli abusi sui civili e discriminazioni in base all’etnia […] L’esecuzione delle persone, il saccheggio delle proprietà ed il blocco dei rifugiati dalla possibilità di tornare a casa sono prove schiaccianti del fatto che la proposta “zona sicura” turca non sarà sicura”. 

I curdi, occupati a difendersi dall’invasione turca, hanno lasciato incustodite le prigioni che detenevano i  jihadisti e i diversi campi in cui si trovavano le famiglie dei combattenti dell’Isis. Sebbene alcune nazioni come la Germania, la Danimarca, il Regno Unito e gli Stati Uniti abbiano rimpatriato alcuni loro cittadini provenienti da questi campi, una gran parte di jihadisti radicalizzati sono stati in grado di fuggire dalle prigioni. Il rischio della ricostituzione dell’Isis è reale.  

 

Con il nuovo anno, la situazione del popolo curdo rischia di essere dimenticata, mentre il conflitto di quasi nove anni che più ha cambiato il Medio Oriente non sembra avere una fine vicina. 

BIANCA BARTOLINI

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