Giungla di cemento

Manara in trasferta nella Grande Mela per il PMUNC

Quando per arrivare in uno stato vedi i ghiacciai della Groenlandia dopo esserti risvegliata da un pisolino un po’ difficoltoso, stretta tra

due amici con le gambe troppo lunghe, capisci di stare per arrivare dall’altra parte del mondo. L’America. Un continente così lontano da noi che tutto ciò che lo riguarda ci sembra una mera illusione. 

9 ore, 34 minuti all’atterraggio dell’aereo ed una volta posato il piede a terra inspiri, proietti nella tua mente un’immagine della cartina del mondo e cominci a realizzare che ti trovi a 6886 km da casa e dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, espiri. Le mani si sono già congelate per il freddo e ti stringi nel tuo cappotto sperando di trovare un po’ di calore. Ti guardi intorno e vedi i tuoi compagni di viaggio, come te ancora non si sono resi conto di dove si trovano, ma vi sorridete a vicenda perché sapete di stare per iniziare un’avventura che cambierà il vostro modo di vedere il mondo. Per cominciare New York è sei ore indietro rispetto a Roma e già questo causa un po’ di disagi mentre ti ritrovi su un pullmino un po’ malandato cercando di dormire perché a Roma sarebbe notte, ma l’autista si rivela un appassionato di canzoni neomelodiche spagnole. Nonostante questo è impossibile non affezionarsi a quel quattro ruote, ci ho lasciato il cuore ed anche la dignità considerato che mentre scendevo sono caduta sul cespuglio che si trovava di fronte… ma almeno era morbido. Io ed i miei compagni non avremmo mai immaginato che l’hotel che stavamo per raggiungere sarebbe diventato una seconda casa con i suoi cornetti dalle misure decisamente fuori dalla norma e la moquette dei corridoi sulla quale abbiamo passato ore e ore la mattina presto, sdraiati a lavorare al famigerato position paper con i nostri bicchieri di caffè giganteschi (ma mai troppo). Per come la penso io ci sono stati così tanti momenti in cui ci siamo ritrovati con la bocca aperta, senza un filo di voce che ne uscisse e con il collo dolorante (per averlo piegato troppo indietro) che sarebbe impossibile raccontarli tutti, ma ce ne sono due che sono rimasti indelebili nella mia mente. Il primo è stato il secondo giorno, quando dopo essere usciti dalla metro abbiamo alzato gli occhi e ci siamo ritrovati circondati dai grattacieli e mai ci eravamo sentiti così piccoli di fronte all’immensità dell’azione umana, sembrava toccassero veramente il cielo e, nonostante io sappia che ovviamente è impossibile, la me di 10 anni fa che sognava di visitare l’America ci ha creduto per un millisecondo. Il secondo momento a mio parere, ma anche a detta di molti dei miei compagni di viaggio, è stato il più bello del viaggio: eravamo sul ponte di Brooklyn ed abbiamo visto il sole che tramontava mentre camminavamo, ci siamo fermati ad osservare (con gli occhi lucidi lo confesso) i colori che assumeva il cielo, dall’arancione al rosa per poi passare dal viola al blu e ce ne erano cosi tanti ancora mentre la tiepida luce del sole ancora rifletteva sulle acque del fiume Hudson che non potevamo far altro che guardare impietriti il sole che scompariva. Per un momento le nostre menti sono state vuote, catturati da quel momento che posso solo definire magico perché altre parole non gli farebbero giustizia. Lo guardavo e mi sono sentita sollevata da tutti i pesi che poco prima mi opprimevano, è durato solo per qualche minuto, ma è una di quelle sensazioni che non si dimenticano facilmente.

In 6 giorni abbiamo visitato tutto ciò che potevamo, dall’Empire State Building (ringrazio ancora il cielo di non soffrire di vertigini) al Natural History Museum dove ci aspettava “Scemo Scemo” di una “notte al museo”, da China Town a Ellis island con la statua della libertà, da Times Square al MOMA con la notte stellata di Van Gogh che mi ha fatto sobbalzare il cuore. Nel mentre abbiamo bevuto troppi chai latte da Starbucks con conseguenze devastanti per alcuni di noi e ovviamente abbiamo mangiato hamburger e patatine come dei bravi americani fino a scoppiare. 

Successivamente sono arrivati i 4 giorni per cui ci eravamo preparati fino allo sfinimento (in particolare due di noi ma sorvoliamo): PMUNC, anche conosciuto come Princeton model united nations conference, una simulazione MUN che ospita liceali provenienti da tutto il mondo… anche se poi abbiamo scoperto che erano quasi tutti americani che avrebbero parlato nella loro lingua madre al contrario nostro, ma ovviamente abbiamo accettato la sfida. Mentre tutti i nostri compagni avevano scelto di partecipare a committee “normali” io ed una mia amica avevamo avuto la malsana idea di metterci alla prova ed iscriverci all’ICC (international criminal court) in cui invece di rappresentare paesi saremmo state due avvocati. Inutile dire che l’ansia cresceva sempre di più mentre eravamo sedute con altri 14 liceali che poi avremmo scoperto essere spaventosamente competitivi e poco inclini al team work. 400 pagine di prove per i nostri tre casi in cui saremmo state rispettivamente accusa nel processo di Paul Kagame (attuale presidente Rwandese), difesa in quello di Hubert Lyautey ( a capo del protettorato francese in Marocco a inizio ‘900) e giudici nel caso di Henry Kissinger ( consigliere per la sicurezza nazionale statunitense sotto Nixon). Non è stato facile stare al passo di quelle 14 macchine, ma non ci siamo mai arrese e finita la conferenza ho capito di essere in qualche modo cresciuta e soprattutto ho realizzato che le scuole italiane sono migliori per quanto riguarda gli argomenti studiati ma anche per quanto riguarda l’umanità dei ragazzi. Ecco, quello che non ho visto in quei ragazzi, fatta eccezione per uno o due, è stata la solidarietà. Nemmeno un briciolo, non erano disposti ad aiutarsi a vicenda perchè altrimenti avrebbero rischiato di non vincere il premio di best delegate… spaventoso in un certo senso. Rimane il fatto che di New York bisogna dire che tutti sono intraprendenti, la vita va forse fin troppo velocemente e ci siamo perfino cimentati nell’attraversare spintonando le masse di altre persone tenendo in mano un bicchiere di caffè bollente, come i veri newyorkesi, ed ora  capisco perchè New York viene chiamata la città che non dorme mai. Di notte è semplicemente incredibile, ovunque ti giri vedi un turbinio di luci dai colori più svariati, i grattacieli che sembra prendano vita ed in qualche modo prendi vita anche tu, senti un’energia dentro di te che prima non avevi e ti senti un po’ più coraggioso. Nel caso non si fosse capito da questo testo lunghissimo posso dire di aver vissuto una delle esperienze più belle della mia vita e so anche che non lo sarebbe mai stata senza i miei unici compagni di viaggio, le risate fatte con loro, gli abbracci, le figuracce senza fine, le nottate sulla moquette, gli inseguimenti di scoiattoli, le foto imbarazzanti ed i furti di cibo alla conferenza. Quindi il grazie più grande è rivolto a tutti voi che mi avete resa così felice che pagherei oro per tornare a quei giorni e per questo vi prometto che avrete sempre un posto speciale insieme a NU YOOOOO (per pochi eletti) nel mio cuore. Come dice la canzone “empire state of mind”, New York è una giungla di cemento dove i sogni diventano realtà.

E mai frase fu più vera.

GIULIA APPETITI

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Google photo

Stai commentando usando il tuo account Google. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...