Consegne a domicilio

Mai come ora risuona incombente e terribilmente attuale il proverbio “il tempo è denaro”, che trovando la sua piena realizzazione in questa violenta cultura del tutto e subito, si colloca come chiave di lettura idonea per il tema proposto oggi.

Se ci pensiamo attentamente, nelle nostre stesse case, il consumismo è riuscito a invadere persino la cucina, difatti dall’analisi degli ordini di quest’anno affiora chiaramente come il food delivery sia diventato per gli italiani una vera e propria alternativa alla cucina casalinga.

D’altronde, come si può non rimanere incantati dall’affascinante pubblicità trasmessa h24 che ci mostra il sorridente fattorino che arriva nelle nostre case, ci porta quello che desideravamo e per cui non abbiamo dovuto faticare nulla?

Ma cosa ci stanno nascondendo questi ingannevoli e meschini messaggi di propaganda?

Loro sono i “rider”, i ragazzi che consegnano il cibo a domicilio e ora anche la spesa fatta al supermercato.

Sulla carta, quello del food delivery sembra un sistema meritocratico, ma nella pratica si trasforma in un inferno per i lavoratori, in quanto poggia su pochissime garanzie e su una moltitudine di doveri.

In Italia sono diventati 30.000 i rider che sfrecciano per le strade, contribuendo a un business stimato in 566 milioni di euro rispetto a 35 miliardi di dollari in tutto il mondo. E le previsioni prevedono valori decuplicati nel 2030, come sostiene l’indagine condotta da Report.

A fronte di queste cifre esorbitanti, i veri lavoratori guadagnano pochi euro a consegna, accumulando perciò a fine mese – se tutto procede “bene” – qualche centinaia di euro.

In fondo il meccanismo su cui verte l’intero sistema è estremamente semplice: più pedali veloce, più guadagni. Pazienza se ti fai male, se è pericoloso perché piove, è buio, o c’è traffico.

Intanto, sono 7 i fattorini morti in un anno per incidenti stradali e 25 i feriti.

E per portare all’estremo quest’insostenibile frenesia, le aziende responsabili (le varie Glovo, Uber eats, Deliveeroo, Just eat, Social food) alimentano una meschina competizione fra i dipendenti stessi, che lavorano in una condizione di assoluta subalternità rispetto agli ordini che vengono cancellati o variano all’improvviso. Come anche rispetto a una graduatoria di punti che li classifica sulla base di un metodo chiaro e conciso: se non rifiuti mai turni e consegne, ottieni più punti e ti aggiudichi i turni di lavoro più ricchi, come le cene e i weekend. Non ci sono imprevisti, salute, né impegni che tengano.

Da una parte il rider, pronto a partire, dall’altra l’algoritmo, che fissa come assegnare le consegne. Ma l’ingiustificabile e soffocante ombra di tale algoritmo si manifesta nel fatto che oltre a seguirti nel percorso, secondo alcune denunce, ti segue anche quando non sei a lavoro.

Ti localizza persino quando sei in vacanza – racconta una ragazza della Rider Unions.

Ma quale forma di rispetto hanno queste aziende nei confronti dei lavoratori?

Dietro c’è solo sfruttamento e controllo: nessuna responsabilità, per queste società i lavoratori sono solo “pacchetti che si spostano”.

In particolare, a indurre la Procura ad accendere un faro sul fenomeno dei rider è stato il tipo di contratto che li lega a tali aziende che fanno consegne a domicilio. Contratto che, nella maggior parte dei casi, li inquadrava non come dipendenti ma come lavoratori autonomi, e che non fornisce alcuna tutela, a partire da una polizza infortuni.

La Procura ha pertanto deciso di monitorare gli incidenti stradali che coinvolgono i rider, anche a tutela della collettività, perché spesso viaggiano senza l’attrezzatura adatta, come i caschetti per le bici e le luci, correndo contromano o senza rispettare le norme sulla circolazione stradale.

Da un controllo della polizia locale su una trentina di ciclofattorini, inoltre, è emerso che tre di loro non avevano regolare permesso di soggiorno. L’inchiesta intende far luce anche sull’aspetto di sfruttamento tra i lavoratori stessi, come il caporalato, e sulla presenza di clandestini.

Questo è quello che non viene raccontato.

Se noi ragazzi ci fidiamo solo della pubblicità che ruota attorno a questo macabro sistema, galleggiando in superficie, ignoriamo il nostro ruolo fondamentale nella catena.

Il food delivery, come lo shopping online, hanno raggiunto questi livelli perché noi giovani, i primi consumatori, li apprezziamo e li finanziamo.

Siamo l’ultima e decisiva tappa di una straziante catena di montaggio che scaturisce dai grandi interessi economici, che ha come vittime i lavoratori e noi consumatori finali carnefici inconsapevoli.

Apriamo gli occhi alla realtà: i totalitarismi del ‘900 hanno puntato a normalizzare davanti al popolo le loro più folli scelte facendo in modo che ognuno facesse il suo lavoro, non ponendosi domande, fino a diventare una piccola ma indispensabile rotellina dell’incoercibile macchina da guerra. Così anche noi rischiamo di anestetizzarci a ciò che ci viene detto e appare normale, bello e produttivo e di diventare strumenti di una nuova dittatura quale il consumismo sfrenato, più subdola ma non meno pericolosa, che ha lo stesso obiettivo di anestetizzare le coscienze.

Basterebbe, come dice Niccolò Fabi nel suo ultimo singolo “Io sono l’altro”, mettersi solo per un istante nei panni del rider che di sera ci affianca in bicicletta mentre torniamo in macchina verso le nostre tiepide case, pensando a tutti i tragitti che deve ancora compiere su strade a lungo scorrimento, troppe volte piene di buche e poco illuminate. E magari sotto la pioggia.

ARIANNA DI CARLO

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