Il grande boh

“Guarda un po’ qui” l’uno dice all’altro. Quest’ultimo rimane piuttosto colpito da tale improvvisa esternazione: sono ormai anni o (chissà?) addirittura decenni che la comunicazione verbale non è più contemplata – figurarsi tra due

Unità Organiche all’Ordine come loro. Il Ministro, del resto, ha incluso nel Programma d’azione compiti precisi, ripetitivi: non è ammissibile l’errore, né è concepibile una qualsiasi azione che possa ostacolare il conseguimento del Bene. Le UOO sono chiamate semplicemente a eseguire e, in mente, non possono avere nient’altro al di fuori del proprio Social-ID alfanumerico, cucito sulle loro tute grigiastre – e, a dire il vero, a loro un po’ tutta la realtà sembra essere pervasa da quello stesso colore. “Ho trovato queste parole nella Nuvola”. Perché quella UOO aveva sentito il bisogno di leggere un file? Del resto, non c’è bisogno di leggere se il Programma si rivolge al Bene. Nessuna UOO ci aveva mai pensato. Nessuna UOO aveva mai pensato. Il testo dice più o meno così: <<Ebbene, siamo giunti alla fine. Qualcosa si è chiuso alle mie spalle – e quasi non me ne accorgo. Nella fine lo spavaldo ci si butta a capofitto, nella sua incosciente ma vitale irruenza. Il pavido si ritira nel tepore del rifugio più vicino, si condanna a una lunga attesa prima di buttarsi, un’attesa alla quale sa già che non porrà mai fine. L’accorto, invece, si butta ma non privo di certezze: sa già infatti che, qualunque sarà la profondità del dirupo, il paracadute di cui è dotato attutirà in qualche modo il colpo e potrà diventare addirittura una mongolfiera, che, seppur non seguendo un tragitto regolare, gli permetterà di raggiungere vette sempre più alte. “La cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa” diceva il Filosofo. E questo “paracadute”, che anche io ritengo di possedere, è costituito sì da ciò che ho imparato, ma anche e soprattutto da come ho imparato a imparare, dalle conseguenze effettive che date nozioni hanno apportato alla mia vita e alla mia persona, dalle esperienze e dai rapporti umani che mi hanno completato in questi ultimi cinque anni. E La Lucciola, di certo, costituisce una “toppa” fondamentale nel tessuto di cui il mio paracadute è composto: è lei che mi ha guidato lungo il sentiero, è lei che spero vivamente possa guidare altre intere generazioni di manarioti. Di noi giovani si dice che non abbiamo voglia di cimentarci in nulla, nulla al di fuori della cura della nostra identità sociale, della nostra appetibilità agli occhi degli altri – prima online che nella vita reale, chini come siamo sui nostri piccoli schermi. Privi di stimoli, forse, ma – e lo credo fermamente – in ognuno di noi alberga una curiosità latente, una voglia di capire il mondo e agire in prima persona, che rischia seriamente di venire annientata dal grigio marasma di chi cerca di manipolare per biechi e vili fini le “piazze digitali” che quotidianamente popoliamo, e di determinare le “voci”, i contenuti, i singoli post che ci troviamo, passivamente, davanti. Stolto è, però, biasimarci: veniamo, infatti, lasciati in balia del marasma senza strumenti di difesa, e – anzi – fa comodo lasciarci con il telefono in mano e il cervello spento, per garantire profitto a un gruppo di pochi o per veder protetti certi interessi, un certo modello di società dai loro nemici più grandi, lo spirito critico e il cambiamento. Ecco, La Lucciola è proprio uno di quegli strumenti: sembra incredibile o esagerato, ma questo retrogrado ammasso di pagine può dare a ognuno la possibilità di cimentarsi, di mettersi alla prova, di trovare qualche frammento di sé – scrivendo, discutendo o semplicemente leggendo – che altrimenti non sarebbe mai saltato all’occhio, di contribuire, cioè, a dare una precisa forma al proprio io e a possedere una determinata visione della realtà che ci circonda. Luce che illumina nozioni, luce che illumina passività. Miccia che permette a ognuno di essere non un tale, ma quel tale, quell’uno nella sua straordinaria complessità, quella “cellula basilare” che sa vivere da sola, ma che al contempo non potrebbe esistere senza il “citoplasma” sociale: in una parola, l’uomo. E forse l’insegnamento fondamentale che sta alla base di tutto ciò che ho imparato, maturato, vissuto è proprio questo: è l’essere umano a dover essere il vero fine delle nostre azioni. Ed è l’uomo nelle sue prodigiose potenzialità creatrici e al contempo distruttive (Sofocle lo definirebbe deinòs) colui al quale dobbiamo ritrovare la centralità nella nostra società. Non bigottismo, si badi bene, ma – anzi – vorace apertura critica a ogni tipo di contaminazione. Siamo umani, siamo noi con la nostra ratio, siamo tutti gli altri. È questo l’unico dogma di cui dobbiamo esser schiavi>>. I due si guardano sbigottiti. Non sanno ancora il perché. D’un tratto si ricordano il proprio nome, si ricordano di essere stati amici un tempo, prima di diventare UOO, prima del Programma. Le loro fattezze tornano a delinearsi in modo preciso, tornano a essere umane, individuali, uniche e al contempo simili. Non hanno più addosso la loro tuta, si abbracciano commossi. E come eccitati da un bagliore, una luce improvvisa, emettono insieme un grido che sembra vivificare non solo loro stessi ma l’intero, grigio mondo: ”Futuro!”

 

ALESSANDRO IACOVITTI

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