SPECIALE – Il mondo di Aureliano

Questa non è una storia come tante altre. E’ una storia atipica, che va preservata con cura e raccontata con quello stesso bambinesco e spensierato entusiasmo che spinge il collezionista a mostrare il suo pezzo più particolare, quella gemma rara che tiene sì nella teca, ma che talvolta la lascia prendere in mano a chi, tra quanti la osservano, sanno ammirare come lui il suo fascino straordinario.

Questa è la storia di Aureliano, un ragazzo del Manara. Un ragazzo come tutti ma diverso da tutti. Un ragazzo giovane, entusiasta, con mille interessi, che, però, è costretto ad assumere una consapevolezza nei confronti della propria esistenza in modo assai diverso da quello dei suoi coetanei: Aureliano è affetto, fin dalla nascita, da una cardiopatia congenita che lo costringe ad avere un costante rapporto con l’idea della morte sin dalla primissima infanzia.

“Credo che fosse consapevole del suo limite, col tempo mi ha insegnato che la diversità è un valore e che la cardiopatia era la sua diversità, era una cosa che faceva parte di lui”. Marigia, la mamma di Aureliano ci accoglie a casa sua, al pianterreno di una delle tante palazzine basse di Monteverde Vecchio. “Non aveva senso farlo vivere come in una teca di vetro”. Sì, perché è solo facendo ciò che amava fare, senza limiti, che Aure poteva affrontare la sua condizione e mettere da parte la consapevolezza del rischio a cui era costantemente esposto. È così che, ad esempio, comincia ad interessarsi di combattimenti medievali – non proprio una attività tranquilla, diciamo! E proprio questa sua ansia di godere appieno della vita, così ardente e vorace, lo porta a trovare comunque il “modo”, l’“espediente”, quel compromesso che gli permetta di continuare a vivere senza correre rischi: diventa così il “medico” delle truppe, non partecipa direttamente alle “azioni di guerra”, ma senza di lui nessuno avrebbe potuto neppure prendere le armi.

Aure, poi, è un ragazzo dalla straordinaria vena ironica: “Questo era il suo tratto caratteristico, una cosa che difficilmente ho ritrovato in altre persone. Abbiamo sempre riso tanto”, ci dice Marigia, “una volta il professore di filosofia lo voleva interrogare su tutto il programma: ci siamo messi il sabato e la domenica, non ne uscivamo più! Gli ho spiegato, Cartesio, Kant, Hegel, Locke, tutto insieme! È riuscito poi ha prendere un 6 e mezzo o 7, non mi ricordo, ma per essere uno che stava molto indietro, insomma… Gli ho chiesto <<Com’è andata?>> e lui “Sei e mezzo. A ma’! Me dovevi senti’ sur Cogito: preciso!” Già, Aureliano e la scuola: un autentico rapporto amore-odio. È disattento, svogliato e raramente ha voglia di seguire una lezione. Per fortuna, può contare sul supporto della madre, pronta a rispiegargli tutto, una volta tornato a casa: “se non fosse stato per me, probabilmente sarebbe rimasto in terza media!”. Per forza di cose, il rapporto con i professori non poteva che risentirne in senso negativo, ma ci sono delle eccezioni: esatto, sono sempre (troppo) pochi gli insegnanti che accettano di “scendere dal piedistallo”, e che siano in grado di comprendere e apprezzare alunni che, seppure non abbiano un andamento scolastico ineccepibile, sono dotati di una sensibilità e un’intelligenza non comuni, ragazzi nei confronti dei quali sono forse gli stessi insegnanti a sentirsi in difficoltà e a percepire fin troppo ottusamente la propria autorità come gravemente minacciata. Ecco, nella categoria di questi insegnanti “speciali” rientra di sicuro la professoressa Ricciardi, insegnante di latino e greco, l’unica con cui Aure andasse davvero d’accordo: “Dava versioni differenti a seconda del livello di preparazione. Per lei ognuno doveva raggiungere un obiettivo”. E lei, quando Aure ha abbandonato questo mondo, ha detto, senza alcuna esitazione: “Ho perso un amico”. Ma per Aureliano la scuola era soprattutto altro: era un luogo dove si sentiva bene, una fonte di socializzazione necessaria per una persona come lui, dalla forte leadership, a cui piaceva da matti stare nella società, curioso di conoscere e comunicare con gli altri studenti. È a scuola, nella sua classe, che conosce Fabio: era sempre molto allegro e molto affamato di vita, lui apprezzava tutto della vita, qualsiasi momento”, così Fabio descrive il suo modo di affrontare la sua esistenza giorno dopo giorno, attimo dopo attimo. Diventa in breve tempo uno dei migliori amici di Aureliano: trapiantato a Roma da un piccolo paesino del basso Lazio, si ritrova completamente disorientato, e Aureliano lo colpisce fin da subito per quell’essere un po’ punk – al Manara cosa rara persino allora – con quei suoi jeans strappati, su cui erano cucite toppe di gruppi come Green Day e Sex Pistols. Allora i ragazzi si dividevano in grandi comitive distinguibili dall’abbigliamento e dalla musica che ascoltavano: da una parte c’era un sorta di “élite”, rappresentata dagli hippoppettari, dal cappellino da baseball con la visiera girata e dall’altra le immancabili zecche e poi ancora i coatti e i “tranquilli precisi”, con la camicia “d’ordinanza”. Ma Aureliano e Fabio sono del tutto estranei a queste facili categorizzazioni e cominciano a suonare new wave: “Eravamo al di fuori delle comitive: io, ad esempio, portavo la kefia”, ci racconta, “ad Aureliano piaceva andare a scuola: lo faceva sentire partecipe di qualcosa, era molto attento agli umori della classe”. Già, proprio questa sua urgenza di cogliere appieno l’identità della scuola, di entrare in sintonia con gli altri manarioti lo spinge a entrare a far parte del giornale d’istituto. Nel periodo a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, la redazione teneva riunioni pomeridiane ogni settimana un po’ per necessità – siamo ancora agli albori di Internet e gli articoli dovevano essere trascritti a mano direttamente sui computer della scuola – ma un po’ anche perché espressione di un fermento (creativo prima ancora che politico) che difficilmente potrà mai essere rigenerato: “Quelle riunioni evidenziavano la capacità di collaborare, di sapersi collocare in un gruppo e di mettersi in discussione” dice Emanuele, per quelli più stretti “Lele”, compagno di classe di Aureliano e direttore del giornale di allora “con Aureliano si era cominciato a fare un giornale multisfaccettato” Sì, perché oltre ai soliti articoli e componimenti, questo nostro parente editoriale comincia a contenere molti spazi liberi, “senza filtri”, dove poter scrivere – ad esempio – esplicite invettive contro insegnanti o messaggi privati diretti ad anonimi: insomma, un vero e proprio spotted.manara in tempi in cui Instagram, lo smartphone e le Stories non potevano far nemmeno parte dell’utopia delirante di uno Steve Jobs qualsiasi. In questo clima così esuberante, Aureliano comincia a scrivere articoli, sia dedicati alle figure che più lo interessavano, figure contro-corrente come Marlyn Manson, o riguardo a questioni d’attualità che più gli stavano a cuore: spinto dalla passione per gli animali esotici (aveva tre serpenti e una tarantola), è proprio attraverso il giornale che porta avanti una protesta nei confronti di un locale trasteverino, il “Transylvania”, dove i serpenti erano liberi di girare tra gli avventori, senza nessun accorgimento che tutelasse la salute degli animali. La sua condanna nei confronti dei titolari del locale è categorica: “Evitate di dare il vostro denaro a delle vere bestie”. Aure si occupa poi della parte grafica e delle copertine e, così, nemmeno il giornale viene risparmiato dal suo sguardo geniale e dissacrante: memorabile fu quella volta in cui, con intento provocatorio, cambiò, senza consultare nessuno, il titolo della testata da “E invece penso…”- denominazione derivante dall’esperienza di un’occupazione del 1995 – a “Che cosa penso?!”. Proprio da questo episodio, nel 2001, scaturì una vivace discussione sul nome del giornale e, sì, proprio grazie all’improvviso e vitale bagliore di Aureliano che “La Lucciola” arrivò – e da allora, proprio nel suo nome, non ha più smesso di brillare.

 

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E veniamo poi all’ambito grazie al quale alcuni tra voi, mediante la mostra (che confidiamo vivamente diventi permanente) al secondo piano del nostro Liceo, magari buttando l’occhio sulle pareti così insolitamente “piene” e colorate mentre si era di passaggio tra una ricreazione e l’altra, hanno potuto conoscere più da vicino Aureliano e associare, finalmente, una fisionomia e una personalità precise alla fredda e anonima dicitura posta al di sopra dell’aula – per tutti i manarioti, auletta – a lui dedicata: il disegno. Una passione che Aure ha fin da piccolissimo, un qualcosa che di lui è parte integrante, senza dubbio lo strumento più efficace e potente che ha per esprimere tutto sé stesso, per reagire alle cose belle e brutte della vita e – soprattutto – di esorcizzare, di prendere in giro la morte. E i suoi disegni, il suo talento, la sua ricerca di quella cifra creativa sempre pronta a spiazzarti, il suo essere fuori dall’ordinario ma al contempo visceralmente dentro il mondo dirompono, ci circondano, pervadono i nostri sensi in uno straordinario groviglio. Ma ciò che arriva dritto nell’animo di chi si accinge a osservare le sue creazioni mai banali è forse l’urgenza veemente di comunicare ciò che possiede dentro, stretto più dei suoi coetanei – suo malgrado – dallo scorrere del tempo. “Lui sapeva che sarebbe stato poco qua. Aveva una grande maturità, faceva ragionamenti completamente diversi, come se fosse 20 anni avanti: mi ha insegnato tantissimo sulla vita.” aggiunge Fabio. Il disegno come prolungamento del suo corpo e della sua anima, il disegno che lo accompagna ogni giorno, a scuola, a casa, in ospedale, fino alla fine: “Uno dei disegni della mostra rappresenta un ragno con un calendario, era un disegno che stava facendo in ospedale. Il calendario si ferma al 23 Gennaio: lui morì il 24”, ricorda Marigia.

Siamo abituati a considerare la giovinezza come un eterno presente, uno spensierato idillio, un vivere secondo la necessità di una leggerezza talvolta fin troppo ostentata. Il tempo non esiste, il limite è impercettibile, eppure non c’è spazio per la nostra intrinseca originalità, o almeno non tutti siamo in grado di esprimerla; o forse non tutti possediamo quel bagliore in grado di illuminare il grigiore del mondo, quel qualcosa che improvvisamente cambia la nostra visione della realtà, quell’impulso a praticare un sentiero diverso da tutti, non per anticonformismo spicciolo, ma in quanto dotati di una sensibilità particolare, fuori dall’ordinario, e in qualche modo geniale.

Aureliano possedeva quel bagliore. E la nostra più viva speranza è che quel bagliore arrivi a tutti, colpisca tutti, che – anzi – tutti lo facciano proprio e se ne sentano arricchiti. Che, insomma, Aureliano possa diventare una luce per tutto il Manara, un compagno tra i manarioti di tutte le epoche: possa la sua risata dissacrante accompagnarci, sempre.

 

ALESSANDRO IACOVITTI

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