Per Antonio. Per noi.
Di noi giovani, ne dicono tante: ci definiscono sfiduciati, disillusi, pessimisti, disorientati. Dicono che non riusciamo a immaginare un
futuro migliore. Dicono che siamo fuori dalla nostra epoca, dal nostro tempo, che non possiamo – né tantomeno vogliamo – incidere nel nostro mondo, imprimervi un cambiamento radicale: insomma per noi non c’è spazio. L’aggettivo “giovane” viene utilizzato per definire l’età di qualcuno, l’inesperienza e – di conseguenza – l’inadeguatezza di un individuo nel ricoprire il suo ruolo nella società: si è sempre “troppo” o “ancora” giovani, non si è mai “giovani” e basta. E questo poiché ciò che è “giovane” è vivace, nuovo, aperto e senza confini, è il principio primo che “muove” in avanti il mondo e proprio questa sua caratteristica intrinseca di rottura con il passato terrorizza una società che rimane nel chiuso delle proprie (presunte) certezze e del proprio interesse, in modo opportunistico e antisociale. E proprio la negazione dello spazio che ci spetta funge da terreno fertile sul quale innalzare indisturbati muri, erigere torri, chiudere frontiere; ed è così che nasce una civiltà che non ci appartiene. Il grigiore avanza, pervade le città, gli uomini, le relazioni, riempie l’intero mondo. Ma talvolta, basta una luce, seppur piccola e fioca a far sì che tale nebbia fittissima – anche per un solo attimo – si dissolva: rinasce l’uomo. Antonio Megalizzi era un giornalista. Antonio combatteva contro quel grigiore: era appassionato, informava e, al contempo, “contagiava” con la sua voglia di fare, di costruire (e non di distruggere), di dialogare (e non di contrastare). Era un europeista convinto, anzi, diceva di sentirsi europeo, e il suo sogno era quello di creare un network radiofonico che potesse raccogliere le voci di tutto il continente. E la “sua” Europa è l’unica davvero degna di essere chiamata “unione”: unione di genti, di culture, di idee. Un tipo di Unione che i vari euroscettici, Visegrad e sovranisti temono più di ogni altra cosa: è sulla sua assenza che basano il loro successo. Antonio è stato piegato da una cultura di chiusura, di fanatismo, di odio verso il mondo: una tendenza perversa, che viene da oriente, ma che in realtà è assai molto più vicina di quanto possiamo pensare a quella dei nostri dispensatori del grigiore. Antonio non deve morire: continuiamo a far vivere e a concretizzare le sue idee. Sul suo profilo Twitter ancora campeggia l’immagine con un cartello che reca la scritta “2018 – EU = 1948”: è la sua Europa, il suo essere “giovane” tanto spontaneo, quanto rivoluzionario, l’unico futuro possibile. Antonio è una luce. La nostra luce.
ALESSANDRO IACOVITTI