Perché c’è bisogno del voto dei giovani

I giovani non votano. Può essere questa una sintesi dell’indagine statistica svolta a febbraio di quest’anno dal quotidiano britannico The Economist. Un’indagine che interpreta il paradigma della politica globale odierna, una politica non lungimirante, che troppo sottovaluta la parte “verde” della società. E sembra che sia proprio questa frattura tra il giovane cittadino e il politico a creare un sentimento di profonda diffidenza verso l’establishment tutto e di sfiducia verso i partiti tradizionali. Non sarebbe tuttavia opportuno archiviare tale questione come espressione di volontario isolamento, stereotipo fin troppo abusato per descrivere l’attitudine dei giovani nei confronti non solo della politica ma della realtà in generale, alienati come appaiono di fronte allo schermo del proprio smartphone: come anche nota il settimanale londinese, la fruibilità di notizie e informazioni a loro concessa è di gran lunga maggiore rispetto ai coetanei dei decenni passati, pertanto il problema sarà individuabile, più che nell’avere a che fare in modo effettivo con la realtà, nel “che cosa scegliere” e nell’influenza di fattori esterni che essi possano subire nell’ambito di una formazione della coscienza politica individuale.

Ed è proprio in quest’ambito che si possono riscontrare le prime fragilità: una recente ricerca condotta da studenti dell’IMT di Lucca evidenzia quanto, per l’utente abituale dei social network, la tendenza sia sempre più quella di “focalizzare la propria attenzione su un numero limitato di pagine, andando a selezionare un gruppo ristretto di media da cui attingere informazioni e rafforzando così le proprie opinioni, senza mai metterle in discussione”. Dunque, il vantaggio che le nuove tecnologie dovrebbero dare ai giovani nello sviluppo di una propria opinione politica viene completamente annullato e in tal modo i mezzi a propria disposizione non fanno altro che favorire, al contrario, una fossilizzazione della concezione tendenzialmente pessimista e diffidente a cui facevamo riferimento in precedenza, che si riflette in un sempre più diffuso astensionismo giovanile.

Secondo le stime del settimanale britannico, infatti, nel Regno Unito e in Polonia, alle ultime elezioni politiche, ha votato meno della metà degli under 25 e in Svizzera, nel 2015, due terzi dei millennials (ossia i giovani nati tra gli anni ’80 e i duemila) sono rimasti a casa, come i quattro quinti di quelli statunitensi alle elezioni per il congresso del 2014. Tale atteggiamento rischia, però, di divenire controproducente e senza alcuna via d’uscita in quanto, se inizialmente esso può essere interpretato come legittimo e in un certo senso rabbioso sintomo civico di insoddisfazione, finirà per intrappolare i giovani in un eterno ciclo di alienazione dalla propria realtà e conseguente perdita di peso elettorale agli occhi della classe politica, cosicché alcuni partiti arriveranno a trascurare completamente i giovani: nei Paesi Bassi, 50Plus, che si occupa quasi esclusivamente degli interessi dei pensionati, è uno dei partiti che sta vedendo maggior crescita negli ultimi anni. Conseguentemente si assiste a una concezione del voto non più come un dovere ma come qualcosa di accessorio, come un diritto di importanza secondaria che generalmente non vale più la pena esercitare, a favore di partiti che, secondo Rob Ford della Manchester University, sono collocati più alla stregua di “marchi da scegliere”, in cui è sempre più difficile identificarsi.

Dal disinteresse nei confronti del voto si arriva poi alla messa in discussione degli stessi fondamenti democratici, conseguenza che si potrebbe rivelare sicuramente più grave in un mondo in cui, ad occupare il centro della scena politica, sono ormai movimenti estremisti con un atteggiamento sempre più vicino alle consuetudini di un totalitaristico passato, in realtà fin troppo recente, che arriva ad essere addirittura giustificato secondo la logica dell’ “almeno loro sembrano ascoltarci”. The Economist parla di un 72% di statunitensi nati prima della Seconda Guerra Mondiale che giudicava essenziale vivere in un Paese governato democraticamente, mentre meno di un terzo di coloro che sono nati negli anni Ottanta era d’accordo. Per citare un esempio più vicino a noi, poi, basti solo osservare che, secondo un’indagine svolta da Ilvo Diamanti per La Repubblica, i giovani tra i 18 e i 25 anni sono sostanzialmente divisi tra Lega Nord e M5S, alla ricerca di un “uomo forte”.

Non basta? Secondo i dati del Financial Times, la quasi totalità degli elettori tra i 18 e i 24 anni avrebbe votato, durante il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, per il Front National, risultando, per fascia d’età, il gruppo che ha fatto riscontrare più consensi nei confronti di Marine Le Pen. Poi ha vinto il centrista (ma, soprattutto in tal caso, è opportuno evidenziare apartitico) Macron, su cui si sono riversati i voti di tutto l’elettorato non-lepeniano, ma l’immensa folla di millennials presenti il giorno della vittoria presso la spianata del Louvre non appare essere altro che la parte superficiale, solo momentaneamente importante, di un elettorato giovanile molto più profondo che si è espresso mediante un vero e proprio voto di protesta, sicuramente non volto alla scelta di un programma politico che, fin dai suoi punti fondamentali, non considera il giovane come priorità, ma che ha saputo parlare con un linguaggio a lui vicino, mitigando alcuni “dogmi” del FN (ad esempio da “contro l’Islam come religione” a “contro l’Islam come radicalismo”) o utilizzando i social come mezzo di comunicazione ufficiale più di quanto abbiano fatto gli altri partiti.

“Saper parlare ai giovani”, quindi. In tal senso Justin Trudeau, premier canadese, uno dei più giovani al mondo, rappresenta senza ombra di dubbio un unicum nel panorama globale: le elezioni del 2015, che hanno portato alla vittoria i suoi Liberali, hanno dimostrato che la spontaneità può giocare ancora a favore di politiche non estremiste e “sostenibili”. Quello che però tale genere di leader non possono permettersi è di sottrarsi alla coerenza, tradendo quella speranza (in questo caso in una politica che, nella già citata ottica dei “marchi”, si identifica come una “nuova sinistra”) inizialmente data ai giovani, in virtù, una volta al potere, di misure troppo a favore di quello che i giovani stessi percepiscono come establishment: un errore che lo stesso Trudeau sta commettendo negli ultimi tempi, soprattutto in ambito ambientalista, su cui potrebbe invece giocare a vantaggio nei confronti del vicinissimo Trump.

Dunque, cari leader dei partiti tradizionali, risulta ormai chiaro che ben presto dovrete capire, vostro malgrado, che per la vostra stessa sopravvivenza dovrete ringiovanirvi, focalizzarvi una volta per tutte non sui privilegi di determinate classi sociali, ma di quella che sarà inevitabilmente la determinante tra esse. E non fermatevi a proclami temporanei, al solo scopo di allargare il campo degli elettori. Serve un progetto serio e lungimirante, che spinga i giovani a votare a favore, non contro. E di strada, statene certi, ce ne sarà da percorrere, e in fretta, se vogliamo realmente che il mondo occidentale rimanga luogo democratico per eccellenza.

ALESSANDRO IACOVITTI

 

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