Casinò Manila
L’attentato al Resort World Manila ha colpito l’opinione internazionale che ancora non concorda sulla matrice dell’assalto armato: l’ennesimo intervento di un militante dell’ISIS oppure l’azione disperata di un uomo che aveva perso tutto al gioco?
Giovedì 1 giugno, Manila (Filippine), poco dopo la mezzanotte ora locale: in un resort poco lontano dall’aeroporto internazionale della capitale si consuma un’altra strage che va ad aggiungersi a un elenco ormai lunghissimo e impregnato di sangue. Le prime fonti parlano di un uomo che ha fatto irruzione nel casinò del resort e ha iniziato a sparare, causando il panico generale e la fuga precipitosa di tutti i presenti. L’uomo (forse solo, secondo altre fonti con un complice), vestito di nero (ma forse in tuta mimetica) e con un mitragliatore in mano, avrebbe poi causato un incendio e si sarebbe sparato. Durante la fuga sono rimaste ferite una cinquantina di persone, molte delle quali saltate nel vuoto dalle finestre del secondo piano pur di sfuggire ai proiettili, ma il bilancio più grave è quello delle vittime del fuoco nel locale del casinò: si parla di 36 persone, rimaste asfissiate quando l’uomo è stato braccato da un’irruzione delle forze speciali qualche ora dopo l’attacco.
I media hanno avuto pochi dubbi nel puntare il dito sulla solita ISIS, ma la polizia e le autorità filippine continuano a ribadire che l’uomo non aveva alcun intento terroristico, aveva solo perso al casinò e stava prendendo con la forza i soldi che non aveva vinto al gioco. Tutto questo mentre i jihadisti rivendicavano la responsabilità dell’attacco con una telefonata dall’isola di Mindanao, dove peraltro sono da tempo in corso scontri tra i ribelli musulmani del gruppo Abu Sayyaf e l’esercito filippino – il 23 maggio il presidente Duterte aveva dichiarato la legge marziale sull’isola allo scopo di individuare e distruggere le cellule terroristiche locali e di salvare i circa 200 civili sequestrati dai miliziani, oltretutto affiliati allo Stato islamico. Semplice coincidenza? Per le autorità locali sì, anche se si avanza l’ipotesi che l’attacco possa essere stato un pretesto per l’estensione della legge marziale all’intero territorio, ma il capo della polizia di Stato, Ronald De La Rosa, ha prontamente smentito quest’eventualità ripetendo che si trattava solo di una tentata rapina con l’obiettivo di impadronirsi dei 130 milioni di pesos (circa 2,3 milioni di euro) del casinò.
Le ambasciate di molti Paesi hanno invitato i propri cittadini attualmente nelle Filippine alla massima cautela e quella australiana, in particolare, ha parlato esplicitamente di un “alto rischio di attentati”. Donald Trump ha subito espresso “tristezza” nei confronti dei filippini, convinto anche lui della matrice terroristica dell’evento, e il Site (sito che monitora l’attività estremista islamica in rete) sostiene che “Un combattente filippino dell’ISIS, che riferisce da Marawi, dice che «i soldati lupi solitari del Califfo» sono responsabili dell’attacco al Resort World Manila“. Queste le parole della direttrice del Site Rita Katz, che rafforza la possibilità di un ennesimo foreign fighter.
Eppure De La Rosa e il capo della polizia di Manila Oscar Albayalde non vedono ombra di dubbio sul fatto che l’uomo fosse solo e senza organizzazioni di sorta alle spalle. Albayalde riferisce che l’attentatore è stato trovato senza vita al quinto piano quando le forze speciali sono entrate nel complesso del resort, contrariamente alla versione di De La Rosa che parla di un uomo ancora vivo e in fuga che avrebbe sparato contro i monitor del casinò e rubato delle fiches. Altre fonti riferiscono anche di un’esplosione prima della raffica di spari. De La Rosa, però, spiega che le telecamere a circuito chiuso mostrano che l’uomo ha sparato ai monitor e danneggiato il casinò in generale, mentre “se fosse stato un terrorista, avrebbe sparato nel mucchio con l’intento di uccidere tutti”. Assai quotata, ciononostante, l’ipotesi di un’ennesima “offensiva del Ramadan” dell’ISIS, compiuta nel mese di digiuno e penitenza previsto dalla religione islamica: la cosa più preoccupante è l’idea che l’Oriente possa diventare il prossimo bersaglio degli attacchi dello “Stato islamico”, specie in un Paese a forte maggioranza cattolica come le Filippine e dove tra i musulmani, in minoranza, si contano molti proseliti dell’estremismo radicale. E la situazione a Mindanao – unica isola a maggioranza musulmana – non aiuta certo a far abbandonare la pista. Pertanto, se così dovesse essere, i jihadisti avrebbero dato un segnale forte e sanguinoso della loro presenza nelle Filippine e del loro modo di essere una spina nel fianco per tutti i Paesi civilizzati: far scivolare anche un solo uomo tra le maglie della sicurezza nazionale e internazionale e compiere una strage, lasciando solo lutti, indagini e rivendicazioni, insieme all’odio che li segue come un’ombra ovunque lascino il loro marchio.
In ogni caso, le versioni sono molte, confuse e contrastanti e nessuna fonte ufficiale riporta ancora tentativi di identificazione del colpevole. Se questo può far supporre che si tratti effettivamente di un rapinatore ancora in fuga e non di un terrorista suicida, una certezza rimane: sta scorrendo sangue anche nelle Filippine, e nemmeno loro sono al sicuro e abbastanza lontane dal demone del fondamentalismo islamico.
GABRIELE GENNARINI