Rimet – L’incredibile storia della coppa del mondo

“In Italia il bambino ha soltanto il calcio, non sognerà mai qualcosa di diverso da uno stadio pieno e un pallone tra i piedi”. Bastino queste parole, pronunciate dal campione del mondo Fabio Cannavaro, per ricordarci l’incredibile impatto che ha il calcio ha avuto (e ha) su tutti noi. Perché quando gioca la nazionale, la partita la si vede tutti insieme, si gioisce tutti insieme e si soffre tutti insieme, uniti dalla stessa sconfinata e irrazionale passione. È una tradizione, questa, che affonda le sue origini nel lontano 1929, quando la creazione della coppa Rimet sancisce la nascita della competizione più ambita, amata e desiderata di sempre: la “coppa del mondo”. Quella che sto per raccontarvi non è la solita storiella, ma è una di quelle storie che non si trovano sui libri, una di quelle storie che un nonno racconta a suo nipote prima di metterlo a dormire, una di quelle storie che ti fanno sognare a occhi aperti e che trascende ogni logica: una favola che solo la passione e l’amore possono rendere vera. Perché il calcio è improbabile poesia, è sterminata fantasia e cruda realtà ed i mondiali di calcio rappresentano il sunto massimo e supremo di tutto questo.

Progettata da Abel Lafleur, la coppa Rimet venne forgiata nel 1929 con 3 kg di puro oro massiccio dal francese Jules Rimet, presidente della FIFA in carica fino al 1954. Il trofeo rappresentava la dea Nike, che sorreggeva la coppa del mondo: era dunque il simbolo del trionfo mondiale, pronto a intraprendere un lungo personale (e collettivo) viaggio. La squadra, infatti, che per prima avrebbe vinto per tre volte la coppa del mondo, avrebbe tenuto per sempre la coppa Rimet: era il 1930, tutto era pronto per disputare il primo mondiale. L’Uruguay si propose di ospitare la prima competizione e in soli sette mesi costruì l’imponente stadio Centenario, ciononostante, le prime partite si giocarono addirittura a lavori in corso! Dall’Europa erano giunte solo quattro nazioni partite tutti insieme a bordo della stessa nave: la Francia (di cui Rimet era rappresentante), la Jugoslavia, il Belgio e la Romania. Quell’anno  vinsero   i   padroni   di   casa:   era   il primo. Ma il Brasile non molla, e forte del giovane Pelè e di una delle formazioni più forti di sempre, trionfa nel 1958 in Svezia e quattro anni dopo in Cile. Sull’onda dell’entusiasmo, arriviamo al 1966, dove si gioca a Londra uno dei mondiali più assurdi e controversi della storia del calcio. Manca poco più di una settimana alla finale, quando la coppa, esposta nella City, viene trafugata. L’evento ha portata mondiale: la coppa Rimet è stata rubata! Falsi riscatti, telefonate e denunce caratterizzano i giorni successivi alla scomparsa del trofeo, che viene poi ritrovato in circostanze abbastanza singolari: si trovava in un giardino, tra un cespuglio, avvolta in della carta di giornale; ma la cosa più incredibile è che a ritrovarla fu un cane! Sì, avete letto bene: un cane. Il padrone del cane riporta subito il trofeo alle autorità, e il piccolo Pickles (questo il nome dell’animale) viene assurto a vera e propria stella nazionale, tanto che diventa il protagonista di un film e gli viene donato cibo per un anno intero. Erano altri tempi. In un clima di festa generale, l’Inghilterra guadagna il suo primo titolo mondiale e la coppa Rimet si prepara per la sua ultima avventura. 21 giugno 1970, in finale ci sono Italia e Brasile: il vincitore si sarebbe tenuto per sempre la coppa. Stava per disputarsi la finalissima, la partita della vita e nel contempo la coppa, che tanto aveva vagabondato, stava per trovare una dimora fissa e andare in pensione dopo tanti travagli. La partita – ahimè – è un trionfo dei sudamericani, che sconfiggono l’Italia per 4-1 e vincono sempre la tanto agognata coppa Rimet. Questa partita segna l’apice della gloria del calcio, uno dei momenti più intensi della storia di questo sport. E vissero per sempre felici e contenti…mondiale. Nel 1934 la coppa si gioca a Roma e non è altro che un’esaltazione del regime fascista, che tanto speculò sullo strapotere della Nazionale Italiana. L’Italia “del Duce” trionfò nel 1934 e nel 1938, ma il calcio si avviava verso il periodo più cupo della sua storia: la seconda guerra mondiale. Per ben otto anni l’unica partita che si gioca è quella al fronte e in questo tragico teatro di guerra la coppa Rimet si trova a Roma, tenuta in serbo dal presidente della CONI Ottorino Barassi, il primo (di una lunga serie) salvatore della coppa. Ma la potenza nazista incombe, il Führer avanza inesorabilmente e le truppe tedesche controllano Roma. Certo, in un momento di crisi e necessità di denaro, un gioiello di tre chili d’oro non passa inosservato, e così i soldati tedeschi iniziano una spasmodica ricerca della coppa Rimet. Penetrati con la forza in casa di Barassi, dove si diceva fosse nascosta la coppa, misero a soqquadro ogni cosa, ma della coppa nessuna traccia. In realtà dovremmo complimentarci con i nostri cari amici tedeschi per la loro arguzia, dato che il trofeo si trovava proprio lì dove cercarono, nel più scontato dei nascondigli: sotto al letto all’interno di una scatola di scarpe. Così la nostra coppa si salva da un triste destino, e nel 1950 riprende a lavorare. Ci troviamo in Brasile, ed assistiamo ad una delle partite più incredibili della storia del calcio. È il giorno della finale, il Maracanã è affollato da 200.000 brasiliani che non aspettano altro che assistere al trionfo della loro nazionale. Si gioca Brasile contro Uruguay: al Brasile basta un pareggio per aggiudicarsi il titolo e dopo il primo goal della Seleção è già festa. Tutto sembra andare per il verso giusto ma due goal dei biancoazzurri cambiano le sorti della partita e tra delusione e pianti l’Uruguay vince il suo secondo titolo. È uno dei momenti più tragici della storia del calcio. Rio de Janeiro è ammutolita, nello stadio alcuni spettatori arrivano a togliersi la vita per la delusione. 11 uomini ne avevano sconfitti 200.000.

No, sarebbe un finale troppo ovvio e scontato per una storia così assurda. Infatti l’Odissea della coppa Rimet non è ancora finita, ma bisogna fare un salto nel 1983. Il Brasile attraversa una crisi economica mostruosa, la criminalità nelle favelas è al culmine e da quei bei tempi la Seleção non brillava più. Il fermento rivoluzionario superava di gran lunga quello calcistico e così la tanto agognata coppa Rimet era ormai piccola e indifesa. Il 20 dicembre la coppa sparisce nel nulla. Era conservata in una teca di legno sorretta da qualche chiodo: un bersaglio facile per dei ladri senza scrupoli. Ladri che confessarono il loro scellerato crimine quando ormai la coppa era andata definitivamente perduta. La coppa Rimet era stata, infatti, venduta a una fonderia di proprietà dell’argentino Hernandez; fonderia che – ironia della sorte – si trovava a solo 300 metri dalla sede della Federazione Calcistica del Brasile, luogo in cui la coppa era conservata. E lì, dopo essere stata tagliata in 7 parti, venne fusa. Il Sacro Graal del calcio, simbolo e vanto di tutti i brasiliani, veniva ridotto a qualche lingotto privo di valore e, per giunta, a opera di un argentino. Una fine triste, per un trofeo venerato quasi come una divinità: la dea del calcio. Ciò che ci resta da immaginare è che parte di quell’oro, così conteso nella storia dello sport, passato dalla Parigi della Belle Époque alla Roma di Mussolini, dalla City di Londra ai bassifondi di Rio de Janeiro, ora si mostri a noi, magari sotto forma di un anello o di un bracciale. E che forse la coppa Rimet, dopo un lungo e faticoso viaggio, abbia finalmente trovato la sua Itaca, e nulla ci chiede, se non un po’ di riposo. E, mentre la coppa riposa, i bambini di tutto il mondo continuano a sognare tirando calci a un pallone.

ANDREA SATTA

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