La politica dei Tomahawk

Le strategie militari del neo eletto presidente Trump si rivelano ben diverse da quelle del suo predecessore. Questo rischia di alterare le posizioni nello scacchiere internazionale affermatesi negli ultimi anni. In che direzione si stanno muovendo gli equilibri geopolitici?

Durante la guerra civile siriana ci sono stati diversi episodi che possono essere definiti “punti di svolta” di un conflitto che si protrae ormai da ben 6 anni: l’assedio di Kobane, le battaglie per la riconquista di Palmira, l’intervento militare russo, la conquista di Aleppo da parte delle truppe governative e infine i vari casi di uso di armi chimiche. Questi ultimi hanno più volte portato gli Stati Uniti vicino a un intervento diretto nel conflitto col fine di rimuovere Assad dal potere, ma l’ex presidente Obama si era sempre astenuto dall’attaccare direttamente il regime (persino dopo gli attacchi di Ghoutha, nei quali rimasero uccise centinaia di persone) preferendo cercare una soluzione diplomatica: questo perché le informazioni disponibili non permisero di risalire a un colpevole certo e ancora oggi esistono tesi discordanti su chi abbia effettivamente compiuto la strage. L’attacco del 4 aprile ha invece dimostrato quanto Trump si sia distaccato dalla politica estera del suo predecessore, ma non nel modo che si aspettava parte dei suoi sostenitori, cioè attraverso un riavvicinamento alla Russia, bensì decidendo appena tre giorni dopo – mentre ancora non si avevano prove certe delle responsabilità di una parte o dell’altra – di compiere uno strike con missili cruise contro la base di Shayrat, dalla quale sarebbero partiti gli aerei che avrebbero compiuto il bombardamento. Analizzando l’attacco, si può notare come le perdite si siano limitate a 9 aerei (alcuni dei quali vecchi e non operativi) e alla distruzione di parte delle infrastrutture della base (comprese alcune postazioni antiaeree), oltre alla morte di 6 piloti e 9 civili, nonostante siano stati lanciati ben 59 missili. Ciò è stato parzialmente dovuto al fatto che i russi sono stati avvisati con circa mezz’ora di anticipo dell’operazione per permettere loro di abbandonare la zona, consentendo di avvertire i siriani, che a loro volta hanno evacuato l’aeroporto. Difatti, in 48 ore l’aviazione siriana ha ripreso gli attacchi contro i ribelli dalla base colpita, cosa che ha portato molti a interrogarsi sull’utilità del raid. Nonostante i danni limitati, si può affermare che l’obbiettivo americano sia stato conseguito: riaffermarsi come attore di primo piano nella guerra dopo che le vittorie di Assad e dei suoi alleati avevano seriamente ridotto il potere negoziale di Washington e dimostrare la risolutezza della nuova amministrazione agli altri potenziali nemici degli USA, Nord Corea e Cina in primis. Il fatto che dai collaboratori di Trump sia in breve tempo arrivata la rassicurazione a Putin che non è in programma la destituzione di Assad potrebbe indicare la volontà statunitense di usare la tecnica del bastone e della carota: mandare un messaggio forte al nemico per costringerlo ad accettare un compromesso. Il problema è che si tratta di una strategia basata sulla costrizione e come tale può essere interpretata come una seria minaccia anche da parte di governi non direttamente coinvolti, causando dunque una serie di reazioni a catena sullo scacchiere internazionale dalle conseguenza imprevedibili.

Pochi giorni dopo l’attacco alla base, il Pentagono ha annunciato lo spostamento di un gruppo da battaglia incentrato sulla portaerei Carl Vinson nelle acque antistanti alla penisola di Corea, scatenando una dura reazione da parte di Cina e Corea del Nord, le quali percepiscono la concomitanza tra la “dimostrazione di forza” in Siria e il ridispiegamento delle forze navali americane come un pericolo imminente, anche a causa delle dichiarazioni bellicose di Trump, che afferma di non considerare necessario l’assenso di Pechino nel caso si rendesse necessario un intervento militare contro il regime di Kim Jong-Un, nonostante preferirebbe una qualche forma di collaborazione. Non è possibile prevedere le conseguenze sul medio-lungo periodo della “politica dei Tomahawk” (nome con il quale parte dei mass media statunitensi hanno battezzato la strategia di Trump in questo momento, in riferimento al missile Tomahawk) ma è già visibile parte dei suoi effetti: la Russia ha sospeso il memorandum per la prevenzione di incidenti in volo tra le forze aeree russe e americane, che prevedeva una linea di comunicazione diretta tra i rispettivi comandi militari, allo scopo di evitare ogni possibile confronto diretto tra i due Paesi; le forze armate cinesi sono in allerta, mentre il Giappone teme la possibilità che sui missili nordcoreani possano essere caricate armi di distruzione di massa, siano esse nucleari o chimiche.

Indubbiamente le azioni del presidente degli Stati Uniti hanno causato un terremoto geopolitico, ora bisognerà attendere le reazioni materiali degli altri attori che vadano oltre i proclami mediatici e soprattutto valutare come Trump gestirà la situazione che lui stesso ha creato: se dopo aver lanciato il sasso dovesse nascondere la mano, perderebbe la faccia di fronte al mondo, ma qualora esagerasse nel suo gioco al rialzo, allora ci ritroveremmo vicini a una pericolosa crisi diplomatica.

In medio stat virtus.

TIZIANO GIANANDREA

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