Peccatori

Il regista americano Martin Scorsese torna sul grande schermo, dopo ben 4 anni dall’uscita di “The Wolf Of Wall Street”, con una perla quanto mai appagante, ma soprattutto rara nel panorama cinematografico moderno “mainstream”, se così lo si può definire.

Il Giappone che ci viene presentato è un Paese estremamente tradizionalista, saldamente legato alla sua cultura, che non intende accettare il Cristianesimo al suo interno, ed è proprio da questo contrasto religioso che emerge il potenziale narrativo del film, che va a sublimarsi nella caratterizzazione dei due personaggi principali, due missionari spagnoli giunti nel Paese del Sol Levante per scoprire se effettivamente la loro guida spirituale, interpretata da Liam Neeson, abbia abbandonato il credo che lo aveva portato in quelle selvagge terre. Trama a parte, il nucleo incandescente dell’opera si dimostra essere la perfetta spiritualità attraverso la quale ci vengono proposte le immagini; lo spettatore si ritrova travolto da un turbinio di paesaggi naturali incontaminati, violenze inaudite e repressioni da parte dei locali, contro le quali si stagliano gli atti di fede dei due discepoli della Chiesa Cattolica, e tuttavia Scorsese non ci lascia mai una certezza, mai un’ancora alla quale aggrapparci. Non c’è un punto di vista morale dietro all’asprissimo conflitto religioso-culturale, non esistono “un giusto e uno sbagliato”, esiste solo un unico, debole, pensiero individuale che fa da sfondo alle nostre convinzioni. L’argomento del Cristianesimo, tra l’altro, non è trattato casualmente, bensì si tratta di un tema molto caro al regista che ce ne aveva dato un assaggio nell’”Ultima tentazione di Cristo”, e proprio per questo motivo la pellicola appare molto più personale delle altre, lontana dal classico stile di Scorsese. Ma è poi davvero così? Se ci si sofferma a riflettere un attimo, a partire da Jack La Motta (protagonista di “Toro Scatenato”), passando per Travis Bickle (protagonista di “Taxi Driver”), arrivando ad Henry Hill (protagonista di “Goodfellas”) e anche al recentissimo Jordan Belfort (protagonista di “The Wolf Of Wall Street”), i personaggi scorsesiani appaiono tutti, in un modo o nell’altro, peccatori. Peccatori per scelta, per necessità, per convinzione, ma sempre peccatori, uomini aggrappati al ciglio dell’Inferno che lottano contro loro stessi per non cadervi. Ma, alla fine, è la stessa realtà che provvede a punirli, creando un “purgatorio personale” per ciascuno di loro. Per Henry c’è la protezione testimoni – “Sono diventato uno stronzo qualunque”, dirà –, per Jordan c’è l’esilio in Australia lontano dagli eccessi, per Jack c’è la fine della carriera da pugile e il nuovo lavoro di comico come fonte di sostentamento e per Travis c’è la notorietà mediatica e la conseguente acclamazione da eroe americano, quando in fondo lui in realtà avrebbe solo voluto compiere una strage. In sintesi, tutti questi personaggi hanno vissuto appieno le loro vite, e nel farlo si sono spinti oltre l’umana misura, hanno peccato di hybris, potremmo quasi dire. E sono stati puniti. Ed è questo quello che fa Martin Scorsese, ci racconta dei peccatori, senza dimenticarsi della fine della storia.“Silence” è un lungometraggio di quasi tre ore in cui il regista di “Toro Scatenato” ci porta a spasso per il Giappone seicentesco, reso perfettamente dalla sublime fotografia di Rodrigo Prieto, che in questa pellicola si è davvero superato, riuscendo a combinare perfettamente la psicologia mistica che fa da sottofondo all’opera con la stessa natura circostante.

JACOPO SORU

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