Frammento di un idillio di reale natura

Ancora vi era parecchia strada da fare, ma il sole cominciava a privare noi, viandanti senza meta fissa, dei sui caldi e lucenti raggi che illuminavano la nostra strada. Allorché il mio compagno e io cercammo asilo da qualche parte, ma non vi era che campagna intorno a noi. Vedemmo i conigli correre dai loro cuccioli, gli scoiattoli rientrare nelle loro tane, il gregge tornare alla guida del cane pastore; tutto era armonioso, ma tutto ciò mancò ai nostri occhi, che non riscontravano nelle nostre vicinanze siffatti eventi, immaginati dalla nostra mente. Solo un piccolo topino di campagna stava dinanzi a noi, ritto, come se non avesse paura di noi e ci guardasse chiedendoci perché ci trovavamo nella sua terra. Visione incantevole, quel piccolo animaletto per il quale stava iniziando un nuovo giorno con la chiusura del nostro. Il tempo che trascinava la nostra luce verso l’altra parte del globo ci mise timore in animo di non trovar loco dove passar la notte. Ed ecco, poco prima che le nostre speranze si perdessero, giungere dinanzi a noi una pecora dal colore grigiastro con una campanella al collo. Dietro di lei ecco giungere un gregge di altri grigi animali che erano condotti tutti non dalla pecora in testa, ma da un pastore. Egli era vestito con vecchi pantaloni, delle scarpe consumate dal duro lavoro dei campi, una maglietta di resistente tessuto e portava nella mano destra un bastone d’ulivo selvatico. Come ci vide, i suoi occhi ci accolsero come fossimo sfocati alla sua vista e, con il volto simile a quello del topino, una volta giunto nelle nostre vicinanze, disse: “Voi chi siete? Che ci fate nella terra mia?”. Lesto il mio compagno disse: “Oh pastore benedetto dagli dei, io son Riccardo, un cantore viandante e qui in mia compagnia vi è il mio carissimo amico, poeta di nascita, Giacomo. Fummo colti alla sprovvista dal passo celere del sole che prima dei nostri fini cominciò a privarci della sua luce; oh brav’uomo, dalla cui mane esce ogni cura per terra ed animali, avreste voi un posto dove far rifocillare i nostri corpi stremati dall’ardua attraversata?”. Il buon pastore, senza nemmeno muovere un dito del piede, disse: “Siete stranieri?”. Così la mia lingua decise d’intervenire attirando gli occhi profondi dell’uomo: “No, buon uomo, siamo della vicina Roma. Abbiamo sentito parlare parecchio del buon cibo di queste terre ed abbiamo voluto raggiungere questa meta per confermare quanto si diceva”. L’uomo, sentendo quanto era stato detto, continuò ad avanzare come se le nostre persone non si fossero mai incrociate con la sua vita. A quel punto la mia mano toccò la sua spalla chiedendo un chiarimento, ma il mio fiato non ebbe il tempo di dar suono alla mia voce che subito il bastone della guida del gregge mi colpì alla testa con forza tale che le mie gambe volarono dietro la testa che seguì la direzione delle foglie una volta lasciato il loro luogo d’origine. Presto il mio compagno di viaggio venne in mio soccorso chiedendo al gentiluomo il perché del suo gesto, ed egli disse a lui: “Io di esstra communitari nun ce li vojo nella tera mia. Mo annate via prima che chiamo la pulizia, froci drogati”. Con queste parole l’uomo, sfinito dalla dura giornata di lavoro, rivolse a noi le spalle e portò il gregge alla casa che lui si era impegnato di costruirgli. Noi riuscimmo nelle ore di buio a trovare un paesino ove una locanda ci accolse nelle sue stanze. Grande giornata era stata, conclusa con ciò che eravamo venuti a cercare lealmente, un dio, il dio delle Muse, la mia Ispirazione presentata ai nostri occhi con le sembianze dell’essere più divino che mai ci fossimo aspettati di incontrare: il pastore. Da lui ricevetti al tempo dei saluti la mia investitura che sarà sempre per me simbolo della mia essenza.

LORENZO BITETTI

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