“È solo la fine del mondo” – Il ritorno di Dolan sul grande schermo

Solo 27 anni con ben sei film alle spalle, una carriera irrefrenabilmente in ascesa (inspiegabilmente, qualcuno direbbe, ma in realtà un’analisi del successo da lui ottenuto non sarebbe certo cosa ardua, anzi tutt’altro), già giudice alla giuria di Cannes nel 2015 (lo stesso anno in cui fu presieduta dai fratelli Coen), sempre più acclamato dal pubblico, Xavier Dolan è indubbiamente uno dei registi più discussi al momento, nel bene e nel male.

Molto spesso si parla del celebre canadese come di un enfant prodige, vista la giovanissima età in cui si è avvicinato all’industria cinematografica (tale appellativo andrebbe in realtà drasticamente ridimensionato ed eventualmente affidato a chi lo merita davvero, si pensi solo alla Hann con il suo “Regal”, girato a soli 19 anni, illuminante riflessione filosofica sul Cinema e sulla sua evoluzione digitale), e sono ben noti a chiunque i temi da lui prevalentemente trattati: l’analisi dei rapporti familiari, le difficoltà della crescita, l’omosessualità.

Dopo un esordio molto modesto, “J’ai tué ma mère”, che poco proponeva di interessante (anzi, lode a chi è riuscito a cogliere il suo talento da questo film), con la sua produzione cinematografica dal 2010 al 2013 Dolan ha realizzato pellicole nel complesso apprezzabili, prima tra tutte “Les Amours Imaginaires”, probabilmente a oggi il suo film migliore. Si trattava sempre, tuttavia, di un regista underground, prettamente relegato all’ambiente dei festival europei: fu con “Mommy”, nel 2014, che Dolan fu effettivamente scoperto dal grande pubblico e acclamato all’eccesso. Lo stesso film costituisce sostanzialmente una drastica divisione all’interno della sua filmografia, un punto di non ritorno. Eppure “Mommy” altro non è che una pellicola mediocre, di una superficialità a dir poco disarmante, in cui si perde quello che nei film precedenti era stato più convincente: una descrizione dei rapporti umani intima, fatta di sguardi, respiri, piccole accortezze; in cui la musica e la vivace fotografia sostituiscono le parole per trasmettere i sentimenti dei personaggi. Qui, al contrario, l’equilibrio precedentemente gestito con tanta raffinatezza da Dolan è completamente assente. Altra nota dolente: le scelte musicali. Mentre nelle sue opere precedenti il regista era riuscito a integrare in modo affascinante la componente musicale a quella visiva (come il “Le temps est bon” di Isabelle Pierre o il bellissimo “Bang Bang” di Dalidà, scelta che ricorda quasi il “Lascia ch’io pianga” dal prologo di “Antichrist”), inserisce qui un repertorio di brani popolari (dagli Oasis a Lana del Rey), di per sé belli, ma che nel complesso, e nell’ambito in cui sono inseriti, costituiscono una colonna sonora aberrante. Non c’è un briciolo di armonia, di coerenza fra un pezzo e l’altro e fra la musica e l’immagine. Ne fa inoltre un uso spropositato: come se non fungesse da sostegno dell’immagine, ma da vero e proprio elemento strutturale di essa (e se le conseguenze son queste è ben comprensibile che si parli ancora di assenza di musica per quanto riguarda il Cinema dell’Immanenza, teoria introdotta da Antonioni già nel lontano ’61 e oggi più attuale che mai). Perché, se gli altri difetti possono essere quasi sopportabili, con questo si ritorna drammaticamente all’unica vera affermazione da tenere sempre nella massima considerazione, che il Cinema è immagine, e se si rovina quest’ultima, allora non ha neanche senso parlarne. E proprio perché l’immagine deve essere vera e autentica, variare goliardicamente il suo formato nel corso del film, allargandola e restringendola in modo sconclusionato per “esprimere gli stati d’animo del protagonista” non è una trovata interessante, è aberrante; e rende la visione insopportabile. Scandaloso, inoltre, il fatto che al film sia stato assegnato, a Cannes, il Premio della Giuria ex aequo con “Adieu au Language” di Godard, pellicola dallo sperimentalismo radicale e tagliente; ulteriore dimostrazione dell’inaffidabilità dei festival tanto ambiti.  Tuttavia, dopo “Mommy”, è recentemente uscito nelle sale l’ultimo film del regista canadese: “È solo la fine del mondo”. La trama in breve: uno scrittore affermato torna dalla sua famiglia dopo dodici anni, per rivelar loro una drammatica verità. Per tutta la durata della pellicola, oltre a riaprire rapporti chiusi da anni, riemergere ricordi della giovinezza e dover affrontare se stesso e i familiari, egli non dirà mai ciò che si era prefissato, lasciandolo solo intuire allo spettatore. Un ritorno, quindi, che sovverte l’ordine tradizionale della casa, ormai consolidato, e stravolge i rapporti familiari (in modo analogo allo straniero del teorema pasoliniano). Se “Tom a la ferme” era il film più controverso del regista, più anomalo, questo è indubbiamente quello più maturo. A livello estetico l’opera è ineccepibile: un tale dinamismo della regia, alternato a soffocanti primi piani dai quali si capta ogni minimo respiro degli attori, costituisce un notevole miglioramento tecnico. Il sonoro si riconferma strumento primario per enfatizzare la ripresa, passando dall’impiego (questa volta consono) della musica alla totale assenza di essa. A sostegno di una tale perfezione stilistica, però, cosa troviamo? Una sceneggiatura poco convincente, personaggi tanto stereotipati da finire col ripetere ossessivamente le medesime battute e ritrovarsi nelle identiche situazioni per tutta la durata del film. Il tentativo era effettivamente ambizioso (nella storia del Cinema pochi registi che sono stati capaci di girare un film intero in un solo ambiente mantenendo sempre la giusta tensione tra i personaggi e facendo evolvere progressivamente la narrazione, come “Carnage” o il “Rope” hitchcockiano), e Dolan purtroppo cade nel cliché, nella ridondanza, creando un buffo teatrino. L’effetto è quello di una finzione, goffo, ostentatamente ironico, quasi un Albert Serra alterato.

Di fatto, però, lo stile dolaniano, in quest’ultimo film perfezionato, piace. È intimo, diretto, colpisce l’emotività più istintiva dello spettatore, riesce a farlo proprio. Non è una capacità scontata, e di certo non c’è cosa migliore che riuscire ad avvicinare al Cinema. È probabilmente questo il suo più grande pregio: di instaurare immediatamente un contatto. Quello di Dolan, nel complesso, è Cinema mediocre con sporadiche scene di notevole bellezza (e in alcuni suoi film questo contrasto costituisce un dislivello enormemente fastidioso). Di certo una grande abilità nel gestire la macchina da presa non può nascondere dei contenuti spesso quasi inesistenti, personaggi e scene stereotipati, un’evidente ripetitività delle storie (niente di drammatico, ma si spera di non finire come Woody Allen, la cui intera produzione post-2000 sembra essere una ridicola parodia di se stessa), nessuna riflessione che vada oltre la banale narrazione, che trascenda la storia per raggiungere un livello superiore. È questo che manca sostanzialmente, non c’è un’analisi dell’immagine cinematografica. In compenso si avvicina facilmente al pubblico, si fa piacere e riesce egregiamente nel suo scopo. È un Cinema didascalico, un Cinema popolare.

VIOLA DE BLASIO

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