La matita ferisce più della spada

L’Apocalisse secondo Gipi: il potere espressivo dell’ultima opera del fumettista pisano

Inquietudine. Disagio. Empatia. Affetto. Sbigottimento. È vastissima la gamma di sensazioni e impressioni che suscita, ad una prima lettura, la nuova graphic novel di Gipi, “La terra dei figli”, pubblicata a fine ottobre da Coconino Press. Perché è sì, come nello stile dell’autore, quanto mai piacevole e scorrevole; eppure è, al contempo, di una durezza devastante, e la narrazione è spesso cruda, tagliente. Sconvolgente. Destabilizza già l’ambientazione, scarna ed essenziale, e insieme genuina e vivida. Ci troviamo in un futuro imprecisato: un evento catastrofico, un’Apocalisse dai contorni non meglio definiti si è abbattuta sull’umanità. Non è rimasto nulla, se non isolati gruppi di uomini che vivono in capanne e si cibano di quel poco che la natura ancora offre. Uomini che perseverano in uno stato di abbrutimento ferino, violenti e dimentichi delle norme sociali cui in passato solevano attenersi. Il mondo di prima non esiste più. E, con esso, non esistono più neppure affetti, cortesia, serenità. O meglio, dimorano negli angoli più reconditi dell’animo umano, soverchiati da istinti e desideri meno nobili. Lino e Santo vivono con il padre in una baracca su un lago, che tanto ricorda quelle palafitte in legno di età neolitica che si vedono sui libri di storia. Più che futuro, sembra un ritorno alle origini, ad una condizione primordiale in cui l’uomo è solo dinanzi alla natura: è “nudo”, scevro da ogni preoccupazione che non riguardi la mera sopravvivenza. Ed è puro anche nei sentimenti, veri e spontanei, benché spesso tradotti in crudeltà e accanimento senza scrupoli.

Lino, il figlio ribelle, non si accontenta di questa vita: vuole scoprire, conoscere se c’è qualcosa al di fuori di quel microcosmo tanto limitante. Costretto, assieme al fratello, ad un modus vivendi rigoroso e incontestabile (se sgarri, vieni preso a bastonate), perché diventi invulnerabile e in grado di cavarsela sempre e comunque: Lino vuole sapere se suo padre sia capace anche di amare, oltre che di impartire ordini perentori. Il ragazzino, prima di tutto, è in cerca di amore.

Il padre, paradossalmente, è uno dei personaggi più umanamente apprezzabili della graphic novel. Si scopre debole, fragile, e ogni sera confida al proprio diario la nostalgia per il passato pre-apocalittico: nostalgia che, tuttavia, non intende palesare, per non scalfire quell’immagine dura e austera che si è costruito. Da quando muore, Lino anela incessantemente a leggere quel diario, oggetto del desiderio che lo spinge, assieme a Santo, verso incontri e vicende tanto drammatiche quanto improbabili. I due non sanno leggere, sicché sono continuamente alla ricerca di chi, in un mondo dominato dall’ignoranza, sappia decifrare quel quaderno. E, possibilmente, parlare loro d’amore. Tra le figure più d’impatto, la setta dei Fedeli che inneggiano a un “dio Fiko” e fanno proselitismo a suon di like, cannibali esaltati alla ricerca spasmodica di approvazione, sostenitori di una religione dal basso che rifiuta ogni tipo di dogmatismo e le cui leggi possono essere decise dagli uomini in totale libertà. Se, da un lato, Gipi esprime il proprio disappunto per la concezione religiosa tradizionale, dall’altro critica anche il modo con cui i social, al giorno d’oggi, attirano turbe di followers vanitosi ed esibizionisti, che rincorrono senza sosta falsi idoli.

Ne “La terra dei figli” c’è un campionario umano straordinario, che si muove in un ambiente asciutto, crudo e a tratti angosciante, sospeso in una dimensione sfumata e priva di riferimenti netti. Il tempo stesso, che pure scandisce in modo lineare l’evoluzione della trama, sembra quasi perdere determinatezza, in una realtà talmente assurda che ci si sente estraniati, come spaesati. Forse è proprio questo che Gipi vuole trasmettere. Il romanzo è in bianco e nero, i contorni delle figure sono duri, i tratti sovente esasperati; la matita scava le forme, le modella con vigore, in maniera secca e incisiva. Non c’è sempre armonia, anzi l’irregolare e l’essenziale paiono avere la meglio su una materia organicamente disposta. In questo Gipi è pazzesco: il disegno è spesso più eloquente dello scritto, ha una forza comunicativa incredibile che vale più di cento parole. Che poi, alla fine, non servono; anzi, è nelle tante pagine bianche, o solo illustrate, la bellezza della del suo lavoro: al lettore il compito di scrivere i dialoghi, con la propria immaginazione.

ALESSANDRO DI SERAFINO

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