Revolution Radio. Una recensione

I Green Day tornano sulla scena con un nuovo album, ma non tutto va come sperato

Da vecchio fan sfegatato quale sono, quando i tre di Berkeley hanno annunciato l’uscita del loro dodicesimo album in studio, ero a godermi le meritate vacanze nel freddo gelido di Amsterdam (sì, lì fa freddo anche ad agosto). Come un bravo schiavo dei social network che si rispetti, quella mattina aprii Facebook e mi trovai davanti la copertina del nuovo album dei Green Day, Revolution Radio: una radio che prende fuoco e la rivoluzione. “Green Day, finalmente siete tornati!”. La mia euforia salì notevolmente quando ascoltai Bang Bang (primo singolo estratto dall’album), del quale parlerò approfonditamente più tardi. Insomma, tutto in pochi giorni: nuovo disco, nuovo pezzo sfornato dai Green Day, cosa poteva andare mai storto? Il giorno dell’uscita dell’album, 7 ottobre, mi dirigo al mio negozio di fiducia e con voce fiera esclamo: “Il nuovo dei Green Day, grazie!”. La commessa mi risponde: “Ma che, Revolusciò Redio?”. “Sì, quello”.  Non appena torno a casa inizio ad ascoltarlo. Per 58 minuti c’eravamo solo io e i Green Day. Ecco il resoconto di quanto ho ascoltato in quell’ora.

Si parte con Somewhere Now, canzone che ha l’aria di essere quel “pezzone” che non ti aspetti, e infatti non mi delude: Billie accenna qualche accordo con l’acustica per 50 secondi, ma quell’ “Ever get so dull” rabbioso fa partire un ritornello che ti entra subito in testa. Insomma, scelta azzeccata metterlo come prima traccia dell’album. Carico come non mai, ascolto per la seconda volta il primo singolo Bang Bang e mi stupisco di come la mia idea su questa canzone sia cambiata radicalmente dal primo ascolto, avvenuto due mesi prima. In Bang Bang troviamo un ottimo riff di chitarra, punk al punto giusto, ma il problema è un altro: il pezzo non decolla mai. Per tutta la durata della canzone, infatti, notiamo lo stesso ritmo: forsennato, certo, ma è pur sempre lo stesso, identico.

Un po’ scettico e pensoso vado avanti e parte Revolution Radio, brano che dà il titolo all’album.  L’attacco fa paura per quanto è bello, Tré Cool alla batteria ci fa capire ancora che col rullante ci sa fare, poi il ritornello. Non so bene come definirlo: brutto sarebbe un’espressione troppo banale, quindi utilizzo “scollegato da tutto il resto del pezzo”. Sembra quasi che Billie abbia scritto prima tutte le strofe e poi, svogliato, si sia concentrato su quel refrain che non mi ha convinto per nulla. Bang Bang e Revolution Radio hanno una cosa in comune, quella ripetizione ossessiva di un ritornello che sentito per più di due volte già stanca, e questo è un po’ il problema principale di tutto l’album: la mancanza di varietà. Mi sono accorto soltanto ora che sto dando troppo spazio a quello scempio di Revolution Radio, quindi rimedio subito presentando quella che, a parer mio, è la miglior canzone di tutto il lavoro: Say Goodbye. Ispirata agli eventi del Bataclan (“Say goodbye to the ones that we love”), è quella perla che difficilmente vedremo live ma che merita tantissimo. Quella voce fuori campo che alla fine di ogni ritornello canticchia “Roll Roll” la vedo già come una possibile musica di sottofondo per uno spot pubblicitario, che so, di una macchina. Dopo essermi ripreso, attacca presto la quinta canzone dell’album: Outlaws, Power ballad che mi ha suscitato non poche emozioni (positive, sia chiaro). Un buon pezzo, che riecheggia i fasti di 21st Century Breakdown, un misto fra ¿Viva la Gloria? (Little Girl) e Murder City che, anche a distanza di anni, mi fa sempre piacere riascoltare. Il malinconico finale di Outlaws, con quel “Forever now, forever now you roll”, che ti fa ripensare a tutti quei “3” presi in greco, coincide con l’inizio di Bouncing Off The Wall, due minuti e quaranta di Clash con voce di Armstrong. La canzone nel complesso funziona, dal vivo dovrebbe essere ottima e, grazie al cielo, il ritornello è quel Green Day di St.Jimmy che tanto mi piace.  È come se la fine di un brano coincidesse con l’inizio di un altro, senza pause e la chitarra distorta di Bouncing Off The Wall ci prepara a quella che, sempre secondo il mio parere, è la canzone più brutta dell’album. In casa “Reprise Records” credo sia andata più o meno così.

Armstrong e soci avevano scritto 11 brani, più o meno belli, poi un bel giorno si trovano davanti il general manager della casa discografica che dice loro: “Dovete comporre un altro brano così arriviamo a 12 e facciamo durare quest’album un’ora”. Dopo questa premessa mi appresto ora, purtroppo, a parlare della nota dolente del disco, Still Breathing. No, Billie, io non sto “ancora respirando” dopo questa “bravata” che mi hai fatto. La verità è che o sei un artista punk a tutti gli effetti e a volte ti puoi concedere a power ballads stile Outlaws oppure non ti definisci tale e registri 12 brani “alla Still Breathing”. I Green Day in questo disco sono nel mezzo, nel posto più sbagliato. E ci cascano ancora una volta: il ritornello è simile per tonalità a Revolution Radio, ma dura troppo e non è orecchiabile. Caro Billie, all’IHeart Radio Festival, ubriaco fradicio, eri salito dicendo: “Non sono uno Justin Bieber qualunque2012 iHeartRadio Music Festival - Day 1 - Press Room” (con tanta difficoltà ho tradotto il testo per non renderlo volgare) ma adesso rispetta i patti! Con sentimenti contrastanti mi avvio verso l’ottavo brano chiamato Youngblood: canzone anch’essa corta (2 minuti e 30 secondi), ma piena di spunti per riflettere. Revolution Radio è un disco “crudo, viscerale e coraggioso” citando Panorama ed è proprio quest’ultimo aggettivo che si intona bene per descrivere Youngblood: una canzone coraggiosa. Aspettavo anche in questo album un po’ di no-sense e fortunatamente sono stato ripagato (“She’s a loner, not a stoner, bleeding heart and the soul of Miss Theresa/Supernova, Cherry Cola…”). La canzone ha poco da dire, di certo è orecchiabile e non è un caso che sia stato l’ultimo singolo (con tanto di lyrics video) ad essere lanciato prima dell’uscita di Rev Rad.

L’album scorre via e così passiamo al prossimo pezzo: Too Dumb To Die. La canzone si apre con una chitarra distorta stile Gretsch, e la segue la pioggia di batteria che dà vitalità al brano. È una canzone che mi ha colpito, il ritornello non è invasivo e l’assolo è breve ma intenso. Di Too Dumb To Die mi piace soprattutto il testo, che appare a tratti di un’ironia fuori dall’ordinario e richiama il no-sense visto in Youngblood: “Looking for a cause/ But all I got was Santa Clause”. Al secondo posto, dopo Say Goodbye, la medaglia d’argento se la stra-merita Troubled Times, che richiama alla mente Last of The American Girls, tratta dal più volte citato album 21st Century Breakdown. Tornando alla canzone, quella rima baciata “So don’t look twice/We live in troubled times” dà una carica assurda e il ritornello, con quel “Uh Uh”, è solido anche se alla lunga potrebbe stancare.

Adesso è il turno del brano più lungo di tutto l’album: sette minuti ricchi di cambi di ritmo, sua stranezza Forever Now. Impossibile catalogare precisamente questa canzone, ricorda a tratti qualche pezzo di Nimrod, ma lo stile è rinnovato, ed è quel tipo di componimento che bisogna ascoltar
e più volte per capire appieno. In alcuni tratti il ritmo della batteria è veramente difficile da seguire ed è ottimo il lavoro del basso, che anche nelle precedenti tracce non delude le aspettative. Cosa alquanto interessante, che ho notato solo dopo averla riascoltata per bene, è la ripresa della prima strofa di Somewhere Now, solamente che “Ever get so dull” viene sostituito da “Ever get so full”. Green Day, questa me la dovete spiegare! L’ultimo minuto è Billie a cantare: “Oh I, I want to start a revolution/ I want to hear it on my radio/ I’ll put it off another day” così da farci capire anche da dove deriva il titolo dell’album. Leggermente stanco dopo 7 minuti di batteria martellante è arrivata anche l’ora di riposarsi un po’ le orecchie con l’ultima, criticabilissima canzone: Ordinary World. Tre minuti di funk in un album punk: c’è qualcosa che non quadra. Tralasciando questo fatto, dico solamente che il brano nel suo complesso è di gran lunga inferiore a tutte gli altri (Still Breathing esclusa). L’idea forse era quella di imitare una Good Riddance (Time of Your Life)? Se così, vuol dire che le frecce nella faretra dei carissimi Green Day cominciano a scarseggiare, come scarseggia di varietà questo Revolution Radio, che sì, colpisce, ma la “revolution” sperata non mi ha “coinvolto” più di tanto.

GIOVANNI MARIA ZINNO

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