La Lucciola

Matematica, ovvero imparare la bellezza

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“Dopo una tradizione ininterrotta di molti secoli, nella nostra epoca dell’istruzione di massa la matematica ha cessato generalmente di essere parte integrante della cultura. L’isolamento degli scienziati ricercatori, la miseranda scarsità di insegnanti dotati di un ascendente sui giovani e le generali tendenze educative avverse a una disciplina intellettuale hanno contribuito al successo, nel campo dell’istruzione, di un atteggiamento antimatematico. È merito soprattutto del pubblico se un forte interesse per la matematica rimane nondimeno vivo […]”

Tale premessa scrive Richard Courant, matematico tedesco, per il testo La matematica nella cultura occidentale, di Morris Kline, altro matematico e storico della matematica di origine statunitense. Questo primo pone un problema forse non evidente a tutti, ma sicuramente a chi frequenta l’ambiente dell’istruzione, dal livello delle scuole elementari a quello universitario e oltre. Il fatto palese è breve a raccontarsi: la matematica non è certo vista di buon occhio nella società, dove buona parte della popolazione avrà ricordi terribili di quando la studiava a scuola e la disprezzerà, pur riconoscendone almeno l’importanza. Il problema, come lo abbiamo chiamato, un po’ meno: sta nel fatto che non dovrebbe essere così, non dovrebbe suscitare odio e avversione.

Non si pretende certo nemmeno che questa sia il centro dell’interesse di tutti – si appiattirebbe altrimenti la diversità che ci caratterizza – bensì c’è da fare una considerazione importante. Nel primo capitolo dell’opera sopra citata, Kline muove una riflessione sulla definizione culturale, storica e sociale della matematica. È un solo un campo della conoscenza umana? O un insieme di tecniche per risolvere problemi concreti? Oppure una fonte di speculazioni astratte? L’autore risponde: “Nel suo aspetto più generale la matematica è uno spirito, lo spirito della razionalità. È questo lo spirito che sfida, stimola, rinvigorisce e guida le menti umane al primo esercizio di se stesse. Questo lo spirito che cerca di influenzare in modo decisivo la vita fisica, morale e sociale dell’uomo, che cerca di dare una risposta ai problemi posti dalla nostra esistenza, che si sforza di comprendere e controllare la natura e che si esercita nell’esplorazione e nel consolidamento delle più profonde e somme implicazioni di conoscenze già ottenute”. Se la matematica non è compresa in quanto spirito, appunto, difficilmente la si può amare o altrettanto difficilmente almeno apprezzare, che è ciò che si vuol ottenere col presente scritto: l’apprezzamento o almeno l’eliminazione dell’idiosincrasia generale nei confronti di tale materia.

Qualche cenno storico che permetta di individuare il perpetuarsi dell’anima matematica nella nostra cultura può sicuramente alleviare il fastidio di alcuni, a dimostrazione che, in un certo senso, è proprio questa che ci ha portati ai fasti (accettati come tali o no) dell’era moderna. Si pensi che quella di cui si parla è un’arte nata col nascere stesso della civiltà umana e progredita col suo avanzare, alternativamente come strumento e come fine. Si escludano per brevità tutti gli sforzi compiuti dalle civiltà mesopotamiche e si parli solo di come gli antichi egizi, ad esempio, si servissero di teoremi derivati dall’esperienza – principalmente concernenti la geometria, come quello che oggi noi attribuiamo a Pitagora, che quasi sicuramente lo ha ereditato dal popolo dei faraoni – per il calcolo e la definizione dei terreni sulle rive del Nilo: era utile poter stabilire in maniera certa e affidabile come marcare la suddivisione degli appezzamenti anche quando erano coperti dalle fertilizzanti inondazioni del fiume. Era, volendo parlare in generale dell’epoca pre-greca, una sorta di empiria, più che una vera e propria scienza matematica, ma ciò basti a rivelare la grande predisposizione dell’uomo per questa disciplina e la mirabile predisposizione di questa per risolvere i problemi concreti dell’uomo.

È forse dunque nell’antica Grecia, con Talete, che nasce la matematica “pura”, in quanto essenza, studio, riflessione filosofica: in una parola, ancora una volta spirito. Si può senz’altro dire che è qui e adesso che conosce alcune tra le sue vette più alte, eguagliate e, senza poterlo affermare con troppa certezza, superate solo a partire dal XVII secolo. Inutile citare a degli studenti di liceo classico la grande importanza che essa rivestiva nei sistemi filosofici dei due più grandi pensatori dell’antichità, Platone (“Ἀγεωμέτρητος μηδεὶς εἰσίτω” – “Non entri chi non conosce la geometria” – era scritto all’entrata dell’Accademia) e Aristotele (la sua predilezione per il metodo deduttivo è tipica delle discipline matematiche).

Occorre tuttavia distinguere la concezione platonica, o classica, della matematica greca e quella alessandrina, incarnate benissimo da due eccelse figure: rispettivamente Euclide e Archimede. Il primo, autore degli Elementi, si fa portavoce di una visione estremamente   astratta,    popolata    da    figure   perfette, complete, finite, ideali. È esattamente in linea con la filosofia platonica in cui è disprezzato il materiale a favore dello spirituale, dove la tendenza è all’idea immutabile che corrisponda alle mutabili cose terrene. Così anche questa matematica non studiava un triangolo, bensì il triangolo in quanto, una volta astratte le sue proprietà, queste saranno valide sempre. Era caratterizzata dal forte disprezzo per l’attività pratica: il matematico/filosofo doveva speculare per deduzione al fine raggiungere la perfezione, non immischiarsi e “sporcarsi le mani” con misurazioni e affini. C’era una forte distinzione tra quella detta aritmetica, lo studio teorico, e la logistica, il mero e poco aristocratico calcolo.

Questo cambia in periodo ellenistico, in cui gli studiosi, intuite le possibilità dell’applicazione dell’astratto al tangibile, non si fecero troppi scrupoli a servirsene per calcolare indirettamente e con sbalorditiva precisione il raggio della Terra, le distanze tra i corpi celesti (che tanto “tangibili” non sono, ma sicuramente di più delle idee risiedenti in un supposto iperuranio), le altezze delle montagne e per realizzare utili opere di ingegneria, senza mai perdere l’amore per la teoria e la dimostrazione deduttiva rigorosa. Archimede fu in questo senso sia matematico che ingegnere: le sue trattazioni sono tra le più brillanti e rigorose, segno di una grande capacità di astrazione, ma egli non ebbe paura di progettare macchinari innovativi, come nemmeno di immischiarsi nel calcolo di aree e volumi di figure piane e solide e di una sorprendente approssimazione di π. Entrambe le cose avrebbero fatto ribrezzo a Platone ed egli verrà ricordato con nostalgia fino ai giorni d’oggi per la sua grande inventiva e modernità di pensiero.

Si ometterà non senza rimpianto, sempre per ragioni di brevità, tutta la rinascita della matematica scaturita dalla rivoluzione scientifica, ricordando solo, ai fini dell’argomentazione, quanto anche e soprattutto in questo periodo questa disciplina abbia costituito lo scheletro dello sviluppo della civiltà. Il calcolo infinitesimale creato da Newton e Leibniz è solo il primo è più importante esempio.
Alla matematica qualcuno potrebbe contestare la dogmaticità: spesso presentata a scuola come un insieme di fredde tecniche per risolvere vuoti calcoli alla “si fa così e basta” e caratterizzata per sua natura da un’estrema rigidità, è evidente come possa stare poco simpatica ai più. In realtà si deve capire che l’unico suo dogma è la rigorosità logica, che ne costituisce l’essenza e senza la quale perisce anche ogni altra disciplina, e che, una volta assunto questo primo, si possono stravolgere tutti gli altri che ci si presentano davanti. È il caso della creazione delle geometrie non euclidee che, trascurando il decisamente dogmatico V postulato ma continuando ad operare in nome della più ferrea logica, hanno demolito gran parte delle verità allora indiscusse. Dal seme di queste che potevano sembrare un mero esercizio di calcolo o un vezzo algebrico, infatti, trarrà la sua origine la relatività di Einstein, che abolirà il dogma forse più grande di tutti per la fisica dal ’600 all’800, la legge di gravitazione universale, insieme ad altri, come le categorie di spazio e tempo vive fin dall’antichità.

E sta proprio nella logica, nella sintesi estrema ma estremamente razionale, nella bellezza, la si potrebbe definire, data dalla perfetta armonia delle parti nel tutto il fascino della matematica. Il poter dare ordine al caos, che fa intrinsecamente paura all’uomo dall’alba dei tempi, è probabilmente una delle attrattive maggiori che essa fornisce. Il ciclo virtuoso di soddisfacimento e stimolo della curiosità – facoltà, questa, di cui l’essere umano si fa portavoce tra tutte le specie e che è motore del suo progresso – che lo studio della matematica innesca è anch’essa più che plausibile spiegazione del motivo per cui tale spirito risulti essere un filo rosso che accompagna da sempre l’umanità. Perché dunque essere da meno? Perché, in nome di un’apparente difficoltà e osticità della materia, precludersi il raggiungimento di una sempre maggiore conoscenza? Perché, infine, precludersi la bellezza, quella già citata bellezza cosmica (proprio da “κόσμος”, “ordine”), scaturita dall’armonia e dalla semplicità, che uno studente di liceo classico in primis conosce e impara ad amare?

FRANCESCO PASSARETTI

 

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